L’afferrarsi al sé della persona basato su una dottrina

Ripasso

Abbiamo parlato della considerazione scorretta, e se pensiamo a quella che riguarda l’“io”, una persona o un sé, in relazione sia a noi stessi sia agli altri, qui ciò che è scorretto è ritenere che esista un “io” separato da un corpo e da una mente. Che tipo di relazione ha quell’“io” con un corpo o una mente? Sebbene sia scorretto, magari immaginiamo o abbiamo la sensazione che ci sia un “io” che vive all’interno del corpo, nella nostra testa, come se fosse una sua casa.

Potremmo anche pensare che l’“io” sia qualcosa che possiede il corpo, lo controlla e lo usa, come se ci fosse un “io” dietro un pannello con lo schermo di un computer, con informazioni in arrivo attraverso occhi e auricolari: un “io” nella centrale di comando. Pensiamo: “Che cosa dovrei fare, ora, ‘io’?” o “Che cosa dovrei dire, ora, ‘io’?” e poi premiamo il pulsante e la mano si muove e fa qualcosa, o la bocca dice qualcosa, e così via. “Devo ‘alzarmi’ dal letto la mattina; è suonata la sveglia, devo andare a lavorare”, come se dentro ci fosse un “io” che ora deve in qualche modo premere un pulsante e sollevare il corpo dal letto. È una visione scorretta, ma sembra davvero che sia così.

Quando iniziamo ad analizzarla, la questione si fa interessante perché abbiamo un tipo di sensazioni, per così dire, in linea con le argomentazioni sostenute dalle donne circa l’avere il diritto di decidere se subire o meno un aborto. “È il ‘mio’ corpo; ‘io’ lo possiedo e posso farci quello che ‘mi’ va. È una ‘mia’ scelta”. Su che cosa si basa tutto ciò? Non stiamo discutendo della correttezza o meno dell’aborto: stiamo parlando dell’atteggiamento nei confronti del corpo come se fosse un possesso che è “mio”, ed esistesse un “io” separato da esso e che può farne ciò che questo “io” desidera.

È possibile che tale atteggiamento – verso noi stessi, il nostro corpo o la nostra relazione con il nostro corpo – ci sia stato insegnato, ma questa sensazione o convinzione può anche sorgere automaticamente. Tuttavia, è una considerazione scorretta. Ciò che è corretto è questo: c’è una persona – io – che è un’imputazione su un corpo, una mente e così via, ma non è un’entità da essi separata. Proprio come il corpo cambia di istante in istante, e così la sua età, allo stesso modo c’è un “io” che cambia, poiché di momento in momento il corpo, la mente e le sensazioni cambiano, insieme al nostro modo di essere consapevoli delle cose e a ciò che facciamo. L’io non è separato da essi e non è una qualche entità che si trova al loro interno.

Afferrarsi a un “io” impossibile

Abbiamo parlato di vari tipi di considerazioni scorrette e ora possiamo metterne insieme alcune. Tutti sperimentano ciò che è noto come “afferrarsi a un sé impossibile”, un “io” impossibile. Ora, ci sono due tipi di afferrarsi: uno basato su una dottrina e uno che sorge spontaneamente. Quando il Buddhismo parla dell’afferrarsi a un “io” impossibile che si basa sulla dottrina, si riferisce a un’idea che potremmo avere dell’“io”, un’idea che ci è stata insegnata e abbiamo accettato e proviene, nello specifico, da un sistema indiano non buddhista.

L’asserzione indiana non buddhista di un atman

I sistemi di filosofia e religione indiani parlano di un atman. Penso che, in traduzione, la resa probabilmente più vicina sia “anima”. È un’anima che passa da una vita all’altra. Spontaneamente noi non penseremmo di avere un’anima che passa da una vita all’altra, quindi è qualcosa che deve esserci insegnato. Una siffatta anima possiede alcune caratteristiche che confluiscono qui in un unico pacchetto. Quando dico “pacchetto”, mi riferisco a un gruppo di tre caratteristiche specifiche che qui si riuniscono. 

Una caratteristica è: l’anima è immutabile. Qui non stiamo parlando di “eterno”, perché il Buddhismo afferma anche che il continuum mentale non ha né inizio né fine. Persino l’“io” convenzionale non ha né inizio né fine. Ma non stiamo parlando di questo, ora. Ci stiamo riferendo a un “io” che non cambia di istante in istante: è sempre lo stesso. Ciò implica un “io” che non è influenzato da nulla – come una valigia che su un nastro trasportatore si muove nel tempo, dall’infanzia alla vecchiaia, da un corpo all’altro.

È priva di parti; questo è ciò cui ci riferiamo quando sentiamo la parola “uno”. ”Uno” implica un monolite: qualcosa che è privo di parti. È la dimensione dell’universo, come l’idea complessiva di “atman è Brahma. Io sono l’universo”, oppure è come una piccola scintilla di vita – o qualcosa del genere. Tuttavia, questa è una delle caratteristiche: essere priva di parti, monolitica.

La terza caratteristica è: può esistere separata da un corpo e da una mente – ossia, con la liberazione. Entra in un corpo e resta immutabile. È priva di parti e, vivendo all’interno di un corpo, lo controlla, lo usa e così via, e poi passa a un altro, fino a quando non sarà liberata dalla rinascita, e allora continuerà a esistere per conto proprio.

L’afferrarsi basato su una dottrina

Su questo punto il Buddhismo opera alcune differenziazioni che potrebbero risultare non molto chiare; permettetemi quindi di dare qualche spiegazione in più.

Abbiamo già visto alcuni aspetti di quest’anima impossibile nella nostra trattazione della considerazione scorretta – in particolare, di quella che considera qualcosa di non immutabile come immutabile. È come se ci fosse un “io” che è immutabile, sempre uguale e permanente, non influenzato da nulla. Potremmo credere di esistere in tal modo sulla base di ciò che ci è insegnato, oppure questa convinzione potrebbe sorgere in noi spontaneamente. In entrambi i casi, si tratta sempre di credere che dopo la morte potremmo continuare ad esistere senza un corpo. 

Potrebbe esserci stata insegnata l’idea – cristiana o in linea con qualche altro sistema religioso – di un’anima provvista di alcune di queste qualità. Tali credenze possono condurre a molte emozioni disturbanti. Tuttavia, quando parliamo dell’afferrarci a un “io” impossibile basato su una dottrina, stiamo parlando di un “io” dotato di una combinazione delle tre particolari qualità di un “io” impossibile, così come sono insegnate in un sistema indiano non buddhista. Questo dev’esserci insegnato, altrimenti, spontaneamente, noi non otterremmo l’intero pacchetto di tutte queste qualità.

Riuscite a seguire? In origine Buddha ha insegnato a un pubblico indiano, quindi parlava della visione scorretta di un atman, o di un’anima, specifica per quel pubblico. Tuttavia, diversi aspetti di una siffatta anima possono essere trovati anche in religioni e filosofie non indiane. Se sappiamo a che cosa si riferisce questo o quel termine tecnico usato nel Buddhismo, non avremo confusione circa ciò che potrebbe sorgere spontaneamente, ciò che dovrebbe esserci insegnato e così via.

Come possiamo raggiungere una comprensione, quindi, di che cosa passa di vita in vita, dal momento che anche il Buddhismo afferma la rinascita? Non sono un esperto di teologia cristiana, e sono sicuro che ci siano molte diverse visioni all’interno del Cristianesimo riguardo alla natura dell’anima, ma il Buddhismo non concorderebbe con la visione cristiana secondo cui l’anima sarebbe creata da Dio. Non so se il Cristianesimo sostiene che, una volta creata, l’anima è eterna, non cambia e ha solo un’altra vita dopo la presente – il paradiso o l’inferno. Queste sono altre visioni che forse dovremmo confutare.

Sollevo tutti questi punti perché, quando studiamo questi materiali, noi occidentali spesso entriamo in confusione: ci sono molte emozioni disturbanti che potrebbero avere come base una visione scorretta dell’“io” che ci è stata insegnata. L’afferrarsi a un “io” impossibile basato su una dottrina, tuttavia, si riferisce soltanto a una visione del sé che è insegnata nei sistemi indiani non buddhisti: Induismo, Giainismo, ecc. 

Da occidentali potremmo obiettare: “Non ho studiato l’Induismo o il Giainismo; tutto ciò, quindi, in quale misura dovrebbe riguardarmi? Non ho queste credenze, non ne ho mai nemmeno sentito parlare, quindi come può essere che, nella presentazione buddhista degli stadi del sentiero, devo liberarmi di una siffatta visione scorretta basata su una dottrina?” Tuttavia, ciascuna delle qualità di quest’anima insegnata nell’Induismo o nel Giainismo si basa su una considerazione scorretta. Se osserviamo il nostro concetto di anima, o la nostra credenza che non vi sia alcuna anima – “al momento della morte diventerò un mero nulla” – qui sono coinvolti altri tipi scorretti di considerazione. Il Buddhismo affronta tutte le idee sbagliate che potremmo avere. Non si riferisce soltanto a quelle che sono state formulate nell’antica India.

La domanda diventa: “Chi penso di essere? Sono un’anima, sono qualcos’altro, sono il mio corpo, sono la mia mente? Che cosa sono? Su che cosa si basa il mio egoismo, tale per cui voglio essere il primo della fila, voglio ottenere ciò che voglio, penso di essere la persona più importante o di dover essere la cosa più importante nella tua vita”? Quali sono le qualità di questo “io”?

Quando crediamo in un tipo di “io” come questo, in un “io” solido, abbiamo la sensazione: “Tutto dev’essere fatto a modo ‘mio’”. Quindi c’è afferrarsi, avidità, attaccamento e così via: se le cose non vanno a modo “mio”, c’è rabbia. Oppure sorge gelosia: “Tu non ami ‘me’: ami qualcun altro”. O arroganza: “Sono davvero meraviglioso”, o vacillante indecisione: “‘Io’ che cosa dovrei scegliere? Ci sono centocinquanta cereali diversi per la colazione, quale ‘mi’ renderà felice?” – voglio scegliere quello giusto, che renderà “me” felice. “Quale computer o telefono cellulare dovrei comprare?” Ci sono migliaia di opzioni, ma voglio quello giusto per me. Che cos’è questo “io”?

Domande sul sé

Nel Cristianesimo cerchiamo di avere un “io” etico che non vuole troppe cose; quindi qual è il punto, qui? Combattere l’egoismo sembra comune a tutti i sentieri spirituali.

È vero, ma quella emersa qui è una questione che abbiamo già menzionato, ossia: “Quando confutiamo un’idea sbagliata sull’‘io’, abbiamo confutato a sufficienza?” In altre parole, in differenti sistemi – anche all’interno del Buddhismo ci sono molti sistemi – potremmo confutare alcune caratteristiche che sono impossibili. Tuttavia, se non siamo scesi sufficientemente in profondità e non abbiamo confutato tutto ciò che è sbagliato, può comunque sorgere un sottile livello di egoismo.

Ad esempio, magari siamo estremamente generosi e facciamo molte cose per un’altra persona o per i nostri figli, e così sembra che non siamo egoisti. Tuttavia, vogliamo essere apprezzati e ringraziati. Ricordiamo alla persona ciò che abbiamo fatto: “Ho fatto così tanto per te, e tu non lo apprezzi”. Sotto questa generosità c’è ancora la sensazione di un “io” solido, anche se non siamo molto egoisti.

Inoltre, possiamo entrare in un trip da martiri: “Io sono il martire, io sono il santo, sto facendo così tanto per il mondo”, ecc. E diventa un grande trip dell’ego. Oppure: “Per superare il mio egoismo devo frustarmi e picchiarmi perché, in quanto egoista, sono cattivo”. Certo, possiamo essere molto generosi e disponibili con tutti gli altri mantenendo una tale credenza, ma questo è certamente ancora uno stato mentale molto disturbato, e stiamo ancora pensando a un “io” colpevole, cattivo. Sto offrendo qui un esempio estremo; tuttavia, le nostre idee sbagliate possono essere molto sottili.

Perché dobbiamo rinunciare all’atman?

Il punto è che non stiamo negando l’“io” convenzionale. Non importa se vogliamo chiamarlo anima o atman. C’è un “io” convenzionale, e il Buddhismo non lo confuta: non sta sostenendo che non esiste nulla. Tuttavia, il punto è: “Come esiste?” Se non abbiamo un certo senso dell’“io” convenzionale, non siamo motivati a fare nulla. Perché dovremmo cercare di conseguire l’illuminazione?

Sulla base di una visione corretta di un “io” convenzionale, noi ci creiamo la nostra vita. Ci alziamo la mattina, ci vestiamo, ci costruiamo una vita, ci prendiamo cura di noi stessi. Tuttavia, c’è forse qui un dualismo tra un “io” e un “me stesso” di cui devo occuparmi, come se fossero due cose diverse? E: “Devo fermarmi e frenarmi dall’essere egoista”, come se ci fosse un “io” che è il giudice, il guardiano della disciplina, e un altro “io” che è il cattivo? Tale visione è molto nevrotica e porta al senso di colpa.

In psicoanalisi, questo è il “super-io”.

Questo super-io è qualcosa di separato ed esistente per conto proprio? Ci sono due “io”, un “io” e un super-io?  È alquanto strano...

Il Buddhismo parla di fattori mentali. Sono tutti inclusi nei cinque aggregati, che è uno schema di classificazione dei molti e vari componenti non immutabili che costituiscono ogni singolo momento della nostra esperienza. Ad esempio, in un suo istante possono esserci: una coscienza uditiva del suono di una sveglia, il suono che udiamo, il fattore mentale di una sensazione che lo accompagna – che forse non è molto felice – e un fattore mentale del discernimento del suono della sveglia rispetto a quello degli uccelli che cantano, o del traffico che scorre fuori dalla nostra finestra. Ad accompagnare ciò possono esserci i fattori mentali della pigrizia e della rabbia: “Non voglio alzarmi”, come se ci fosse un “io”, separato da tutto ciò, che ora deve alzarsi. Tuttavia, ad accompagnare questo istante di esperienza può esserci anche il fattore mentale dell’intenzione ad alzarci e quello della disciplina.

Ci sono molti fattori mentali, e questo è tutto ciò che accade da un momento all’altro e all’altro ancora. Non richiede un “io” separato, seduto dietro il pannello di controllo, con il suono della sveglia che arriva in cuffia, così che poi questo “io” preme il pulsante della disciplina e la disciplina arriva, e allora: “Devo alzarmi dal letto”. Non è così.

Con una corretta comprensione degli aggregati, dei fattori mentali e del fatto che non c’è un “io” esistente in modo separato, semplicemente ci alziamo. Lo facciamo: tutto qua, senza tutti gli inutili pensieri-spazzatura: “Aaah, ‘io’ non voglio alzarmi” e “Ora devo forzare ‘me stesso’ ad alzarmi” e “Perché ‘io’? Perché ‘io’ devo sempre alzarmi e andare al lavoro?” Tutti questi sono pensieri-spazzatura, e di solito se ne fa esperienza con grande infelicità.

Viviamo l’udire la sveglia con infelicità, e allora? “Ok, magari in questo momento c’è infelicità. Non importa. Non provo attaccamento a essa, non mi sto identificando con essa”, e poi nel momento successivo, a causa dell’abitudine alla disciplina e alla motivazione, ci alziamo. 

Ora: che cos’è l’“io”, qui? Ebbene, chi si è alzato? Io mi sono alzato: non qualcun altro. C’è quindi un sé che è una designazione sul continuum di questa sequenza di momenti, composto da tutte queste parti che stanno cambiando: “io”, ed esso funziona. Non si dà soltanto il fatto che un corpo si alzi dal letto: io mi alzo dal letto. Non ci sono due cose separate che si alzano dal letto: un corpo e un “io”. “Il mio corpo si alza, io invece non voglio”: non è così. Dobbiamo analizzare piuttosto in profondità: qual è la causa della nostra infelicità quando dobbiamo alzarci, la mattina?

Domande e discussione sulla reincarnazione

Tu conosci due reincarnazioni di Serkong Rinpoche. Che cosa ti ha ricordato il “primo” Serkong Rinpoche? Che cosa ci hai trovato in comune? In tale continuum, che cosa hai trovato di simile alla precedente reincarnazione?

Qui si apre un argomento molto ampio. Dobbiamo considerare i “continua” e, innanzitutto, il continuum nell’arco di una vita. Se guardiamo il continuum “mio” o di qualcun altro, ad esempio del mio insegnante Serkong Rinpoche, probabilmente nemmeno una cellula del suo corpo – parlando del vecchio Serkong Rinpoche, da quando è nato a quando è morto – è rimasta la stessa per tutta la vita. Tutto è cambiato. Ciò è davvero sorprendente se consideriamo quanto cibo è entrato nel suo corpo e quanti scarti ne sono usciti. Il suo corpo si trasformava di istante in istante e nulla è rimasto uguale. Anche la quantità di conoscenza che possedeva cambiava di momento in momento: di certo non era la stessa quando aveva due anni e quando ne aveva sessanta.

Tutto cambiava, eppure c’era una continuità: un continuum. Com’è stata mantenuta la continuità? È una domanda enorme, e nel Buddhismo è analizzata e spiegata a molti diversi livelli di profondità. Da quando era bambino a quando è diventato un adulto, si è trasformato in qualcun altro? No. In termini di due vite o di una, è comunque la stessa questione. Fondamentalmente c’è un continuum, da un istante all’altro e all’altro ancora, e nulla rimane uguale. Una persona, un individuo, è una designazione sulla base di quel continuum.

Che cosa mantiene il continuum? Su che cosa si basa? Su una sequenza di causa ed effetto. È molto semplice. Inseriamo del cibo in bocca e poi, nell’istante successivo, c’è la sensazione del cibo che scende, e il momento seguente c’è la sensazione che la fame sparisca, e così via. C’è una sequenza causale. Ha un senso, e l’“io” è semplicemente una designazione su di essa.

Ci sono anche varie abitudini che sono delle designazioni su tale continuum. Che cos’è un’abitudine? “Ho l’abitudine di bere il caffè”. Di che cosa si tratta? Non bevo il caffè in ogni istante della mia vita, ma c’è una sequenza di varie occasioni in cui il caffè è bevuto e, in base a ciò, diciamo che c’è un’abitudine. È un modo per metterle tutte insieme. L’abitudine è forse qualcosa di solido? Possiamo trovarla? No. Esiste? Sì. Produce effetti? Sì. Dato che ho l’abitudine di bere il caffè, domani probabilmente ne berrò un’altra tazza.

Quando parliamo di un continuum da una vita all’altra, come nel caso del mio insegnante Serkong Rinpoche, che cosa vi troviamo in comune, oltre al nome? È una continuità, ma di che cosa? Di alcune abitudini, di determinati istinti. Ora, se guardiamo alla nostra storia, e in particolare alle varie vite, ci sono molte abitudini e cose diverse: non tutte accadranno allo stesso tempo.

Quando avevo tre anni avevo delle abitudini che ora non ho più. È del tutto evidente. Da piccolo avevo l’abitudine di fare i bisogni nei pantaloni e cospargermi di cibo il viso perché, quando mangiavo, non riuscivo a metterlo in bocca. Erano abitudini che si ripetevano quando ero bambino, ma ora non le possiedo: non lo faccio più – si spera! Rispetto a Serkong Rinpoche, ci sono alcune abitudini che sono simili a quelle della sua vita precedente – ad esempio, il senso dell’ironia e così via.

Potremmo obiettare: “Beh, molte persone ce l’hanno, quindi non è necessariamente una continuità del senso dell’ironia della vita precedente”. È vero. Tuttavia, ciò che mi ha convinto è stata la sua familiarità con le persone della sua vita passata. Magari l’abbiamo sperimentata anche noi: incontriamo qualcuno, e spontaneamente ci sentiamo come se fossimo stati sempre amici. Ci sentiamo molto vicini. Oppure ci sentiamo spontaneamente molto distanti: per quella persona c’è un’immediata avversione.

Ho incontrato per la prima volta il giovane Serkong Rinpoche quando aveva quattro anni. Era venuto a Dharamsala e, quando sono entrato nella sua stanza per incontrarlo, l’attendente che si prendeva cura di lui gli ha chiesto: “Sai chi è questa persona?” E il piccolo ha detto: “Non essere sciocco, ovviamente so chi è”, e immediatamente, fin dall’inizio, con me ha avuto totale familiarità, calore e vicinanza. Non era così con le altre persone. E questo atteggiamento veniva da un bambino di quattro anni! A quell’età non si può fingere qualcosa del genere. Tale senso di vicinanza c’era, proprio come nella vita precedente. Beh, chiaro: in ogni momento si ha qualcosa di leggermente diverso, quindi la vicinanza è solo una designazione su tale continuità; eppure, questo per me è stato molto convincente.

Certo, ci sono anche alcune cose delle vite precedenti che forse potrebbe essere in grado di ricordare. Una volta stavamo guardando insieme un video, la registrazione di un insegnamento che aveva tenuto nella sua ultima vita, e ha detto: “Ah, ricordo di averlo detto. Ricordo di averlo fatto”. Non c’era nessun motivo per cui avrebbe dovuto mentirmi.

Ora ci addentriamo nella discussione circa la presentazione che ne fa Nagarjuna. È la stessa persona, totalmente identica alla sua vita precedente? No. È totalmente diversa? No. È un continuum, una continuità. C’è qualcosa di solido che passa da una vita all’altra come fosse una valigia? No. C’è un continuum? Sì, c’è continuità. Quindi: né la stessa né diversa, né completamente identica né totalmente distinta e irrelata.

Perché in Rinpoche alcuni ricordi della sua vita passata sono più chiari e altri meno?

È come chiederci: “Che cosa ricordiamo di questa vita?” Ricordate tutto ciò che avete mangiato in vita vostra? Riuscite a ricordare ogni parola detta trenta secondi fa, e a ripeterla in modo esatto?

Quindi, perché ricordiamo questa cosa e non quest’altra? È una domanda difficile. Suppongo che abbia a che fare con quanto siamo interessati e prestiamo attenzione. C’è stata un’emozione forte al momento, o no? Se sì, di solito tendiamo a ricordare di più. Magari qualcosa ci ricorda una cosa precedente, e senza esserci imbattuti nella prima non avremmo ricordato la seconda.

Ci sono molti, molti fattori per cui ricordiamo qualcosa – tutto dipende dalle circostanze. La stessa cosa vale per le abitudini. Ce ne sono molte. Non tutte si manifesteranno nella prossima vita: alcune sì, altre no. Tutto dipende dalle circostanze. Se avessi l’abitudine di mangiare il mango e nascessi in un posto dove non si trova, non lo mangerei. E neppure ci penserei.

Non sono convinto della tua spiegazione. Le impressioni più profonde nella mente di Rinpoche dovrebbero appartenere all’ultima parte della sua vita precedente, dato che sono le più fresche. Perché Rinpoche dovrebbe ricordare un insegnamento che ha dato, ma non il più recente?

La cosa che ricordiamo non è la più fresca. Ci sono cose che ricordiamo e cose che non ricordiamo: dipende da moltissimi fattori diversi. Potremmo ricordarci una filastrocca d’infanzia, ma non dove abbiamo lasciato le chiavi ieri sera. È molto difficile analizzare e spiegare effettivamente perché ricordiamo una cosa specifica, e non un’altra.

Quindi è un fenomeno completamente arbitrario?

No: non possiamo dire che sia arbitrario e che ricordiamo qualcosa soltanto per via del caso. Devono esserci determinate circostanze. Il giovane Serkong Rinpoche non ricordava tutto. Abbiamo guardato molti video della sua precedente reincarnazione, ma tra essi ricordava soltanto un insegnamento, con il quale sembrava essere un po’ più familiare. Perché? Non lo so. Non so che cosa stesse succedendo nella sua mente quando ha dato quell’insegnamento. Stai formulando una domanda cui è molto difficile rispondere, perché è la stessa questione che si esprime dicendo: “Se vita dopo vita, da tempo senza inizio, abbiamo acquisito moltissimi potenziali karmici per ogni sorta di risultato, perché un particolare potenziale karmico matura in questo momento e non in un altro?” È la stessa domanda espressa dalle seguenti parole: perché ora abbiamo questo ricordo e non un altro?

Il Buddhismo spiega che le cose non accadono in totale assenza di cause perché, se così fosse, qualsiasi cosa potrebbe accadere in qualsiasi momento, e non ci sarebbe alcuna sequenza o senso in quanto accade. Non è così. Se le cose dipendono dalle circostanze, allora che cosa sono tali circostanze? Magari trovo un oggetto che è simile a uno precedente. Potrebbe essere l’influenza di un’altra persona, o del tempo. Potrebbe essere l’influenza di tante cose diverse.

Come ci ricordiamo il nome di qualcuno? Molte volte non ci riusciamo. Conosciamo il nome, sappiamo che lo conosciamo, ma non riusciamo a ricordarlo. A me accade molte volte; quindi, che cosa posso fare? Passo in rassegna l’alfabeto e ripeto nella mia mente una lettera alla volta. Le pronuncio tutte e, di solito, ciò funge da grilletto e sono in grado di ricordare. Qualcosa del genere è successo proprio ieri. Non riuscivo a pensare al nome di un amico in Lettonia, e così ho passato in rassegna l’alfabeto e, quando sono arrivato alla K, questa ha innescato il ricordo: “Ah, si chiama Karlis”. Possono esserci varie cose che ci ricordano altro e che ci aiutano. In questo caso, aver detto la lettera K è stata una circostanza. Possiamo creare circostanze per ricordare qualcosa, in modo consapevole, come in questo caso; oppure, a innescare un ricordo può essere semplicemente la visione di qualcosa o l’incontro con qualcuno.

Ci sono altre cose per ricordare le quali non devo seguire un metodo del genere. L’abitudine è così forte che ora, ogni volta che vedo Massimo o Claudia, non devo passare in rassegna l’alfabeto per ricordare il loro nome: mi sovviene. Tuttavia c’è una circostanza che funge da ragione per cui ora ricordo il loro nome: durante questo insegnamento li vedo ogni giorno. Tra un anno, però, potrei non ricordare affatto il nome della persona che ha tradotto per me in Italia. Non lo ricorderei.

Dev’esserci anche l’interesse. Una volta sono stato quattro mesi a casa di un amico. Usavo il bagno quotidianamente. Un giorno siamo andati in un negozio a comprare una tenda da doccia e il mio amico ha chiesto: “Di che colore dovremmo prenderla? Quale starebbe bene con le pareti?” Io non avevo idea del loro colore. Usavo il bagno ogni singolo giorno. Poi il mio amico mi ha chiesto: “Di che colore è la camera da letto?” Non ne avevo idea, perché non mi interessava. Ero stato in quella stanza negli ultimi mesi, ma non avevo idea del colore delle pareti. Non ci avevo mai prestato attenzione, quindi come avrei potuto ricordare?

Se qualcosa per noi è importante – come: “Dove ho parcheggiato la macchina?” – lo ricordiamo. Altrimenti – “Non ricordo dove ho parcheggiato la macchina” – siamo nei guai.

Se tu morissi in serata, l’ultima cosa che avresti fatto sarebbe stato insegnare qui; perché, allora, all’età di due anni non dovresti ricordarlo?

Ci sono molte circostanze. Dovrei imparare e studiare di nuovo. Le effettive basi fisiche del cervello e così via non sarebbero sufficientemente sviluppate. Non avrei le competenze linguistiche per poter ripetere tale insegnamento. Solo perché qualcosa è successo di recente non significa che lo ricordiamo. Sei in grado di ricordare e ripetere esattamente, parola per parola, quanto hai appena detto o sentito? Molti di noi non ne sono capaci.

È davvero difficile. Dobbiamo avere realmente la forte intenzione di poterlo fare. Se siamo degli interpreti, allora ricordiamo ciò che la persona ha appena detto. Se siamo degli insegnanti, e qualcuno ci chiede: “Potresti ripetere? Non ho capito”, sarebbe molto imbarazzante dire: “Non ricordo quanto ho appena detto”. Per essere in grado di ripetere dobbiamo ricordare. Ci sono dunque motivazioni diverse. La motivazione è importante.

Ho capito bene? Quando hai incontrato l’attuale Serkong Rinpoche hai riconosciuto alcune abitudini del precedente, ma nessuna della personalità?

Non ho detto che non ce n’era nessuna della personalità. Ho detto che c’era continuità, ma non continuità di tutto. Non è la stessa personalità, ma anch’io non ho la stessa personalità che avevo da adolescente. Alcune cose sono simili, altre molto diverse.

Durante la vita di un bodhisattva alcune cose, quali l’amore e la compassione, dovrebbero essere espresse continuamente. Tuttavia, stando a ciò che dici, le uniche cose che hanno influenza su questo continuum sono una serie di cause e circostanze, e nient’altro.

Ebbene sì: tutto sorge in base a cause e circostanze. Questo è ciò che stavo cercando di mostrare: se, ad esempio, potessi incontrare un centinaio di persone molto affettuose, perché la continuità della precedente reincarnazione del mio insegnante è una, e non un’altra? Solo il fatto che qualcuno abbia amore non implica che sia la continuità della vita precedente di una specifica persona.

Il caso dei tulku, i lama reincarnati, è molto speciale perché qualcuno di fatto li riconosce e dà loro il nome del predecessore – almeno il nome generale, come “Serkong” (hanno anche un nome personale, che è diverso). Che cosa sarebbe successo se nessuno avesse riconosciuto il bambino, se nessuno l’avesse trovato, e semplicemente mi fosse capitato di incontrarlo? Sarebbe stata la stessa cosa. La stretta connessione sarebbe comunque presente.

Nella vita ho incontrato molte persone con cui, all’istante, da entrambe le parti si è avvertita estrema vicinanza. Mi è accaduto. Magari insegno in una sala con un centinaio di persone e i miei occhi continuano a tornare su qualcuno, magari anche in fondo alla stanza. La mia attenzione continua a rivolgersi a quella persona e poi, all’improvviso, alla fine dell’insegnamento, proprio lei si avvicina e inizia a parlarmi, e rapidamente sviluppiamo un’amicizia molto stretta.

Il vecchio Serkong Rinpoche era così. Magari eravamo un gruppo di persone e lui diceva: “Quella laggiù: fatti dire il nome di quella persona”. Ed era piuttosto certo che ci sarebbe stata una relazione molto forte. Non abbiamo bisogno di conoscere la vita e il nome precedenti di quel qualcuno, ma facciamo esperienza di cose del genere. A me è capitato, e magari anche a voi sarà successo qualcosa di simile: un’amicizia istantanea, una sensazione immediata di vicinanza con qualcuno. Perché? È solo basata sul desiderio – troviamo attraente quella persona? Non necessariamente.

Con il giovane Serkong Rinpoche è stato davvero straordinario. È nato nella Valle dello Spiti, nel versante indiano dell’Himalaya. Nella valle, il vecchio Serkong Rinpoche era una sorta di santo. Dato che aveva rivitalizzato il Buddhismo in quella zona, tutti tenevano in casa una sua foto; questo ragazzino, che aveva un anno e mezzo o due, quando ha imparato a parlare ha cominciato ad avvicinarsi a una sua foto, indicarla e dire: “Quello sono io!”

Quando le persone che vivevano con il suo predecessore si aggiravano per la regione in cerca della sua reincarnazione, il ragazzino ha riconosciuto uno dei membri del gruppo di ricerca. È corso tra le sue braccia e conosceva il suo nome. E poi non voleva fare altro se non andare con il gruppo a Dharamsala. Sentiva – mi ha detto poi – che lì c’era qualcuno di importante da incontrare: Sua Santità il Dalai Lama. Quando lasciò lo Spiti per Dharamsala aveva quattro anni e non ha mai più chiesto dei suoi genitori né pianto – e non che fossero persone crudeli e orribili: sono molto simpatiche. Da dove viene tutto ciò?

Mettendo insieme questi tasselli, sono abbastanza convinto che sia la reincarnazione del vecchio Serkong Rinpoche. Ho riflettuto sulla rinascita per molto, molto tempo. Mi impegno nello studio del Buddhismo da quarantacinque anni, ormai. Tuttavia, questo incontro mi ha davvero portato a superare il confine in cui mi chiedevo: “Credo davvero nella rinascita?” È molto difficile avere una sensazione viscerale di convinzione circa la rinascita. Possiamo crederci a livello intellettuale, ma ne abbiamo un sentire emotivo? Esiste davvero? È difficile, ma questo incontro mi ha convinto. Tuttavia: si tratta della stessa, identica persona? No. È così che stanno le cose.

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