L’afferrarsi al sé della persona che sorge spontaneamente

Ripasso

Comprendere la vacuità

Abbiamo parlato della vacuità, in termini generali. Abbiamo visto che si riferisce all’assenza di modi impossibili di esistere. Di questi, alcuni si riferiscono solo a persone o individui, e altri riguardano tutti i fenomeni – persone e individui compresi.

A causa della “inconsapevolezza” – parola spesso tradotta come “ignoranza” – non sappiamo come le cose effettivamente esistano, oppure crediamo erroneamente che le proiezioni di modi impossibili di esistere corrispondano alla realtà. Ci sono due modi di formulare l’inconsapevolezza: come un non conoscere o come un credere in modo scorretto. Sulla base di tale inconsapevolezza abbiamo ogni sorta di emozioni disturbanti.

Capendo la vacuità, comprendiamo la totale assenza di un riferimento reale per questi modi impossibili di esistere. Non esiste nulla del genere, non è mai esistito e mai esisterà. Più siamo in grado di concentrarci non-concettualmente su tale assenza, più riusciremo, gradualmente, a smettere di credere nella spazzatura che la mente proietta, portando infine quest’ultima a non proiettarla più. Quando smettiamo di credere in questi falsi, impossibili modi di esistere, non sviluppiamo più emozioni disturbanti. Non solo ci liberiamo di queste, ma anche di atteggiamenti disturbanti, di stati mentali disturbanti, ecc.

Quando la nostra mente smette di proiettare tutta questa spazzatura, siamo in grado, come un Buddha, di vedere e comprendere l’interrelazione tra tutte le cose, le cause sottostanti alla situazione di ciascuno, e l’effetto dell’insegnamento di qualcosa a qualcuno. Saremo, così, in grado di aiutare tutti al meglio. 

Fondamentalmente, quando ci liberiamo dell’inconsapevolezza – ossia il non conoscere o il conoscere in modo scorretto – e delle tendenze che ne causano la ripetizione, conseguiamo la liberazione. Ciò significa che ci liberiamo del samsara – l’incontrollabile ricorrenza delle rinascite – che è alla base dei problemi degli alti e bassi vissuti da ognuno di noi: talvolta la “sofferenza della sofferenza” o, in altre parole, l’infelicità, e talaltra la “sofferenza del cambiamento”, ossia la nostra felicità ordinaria, che non ci soddisfa mai, è frustrante, finisce, ecc.

Tuttavia, quando abbiamo raggiunto la liberazione possediamo ancora le abitudini di tale inconsapevolezza, ed è soltanto con un’ulteriore familiarità con la cognizione non-concettuale della vacuità che ci liberiamo di tali abitudini. Sono queste a indurre la mente a proiettare i modi impossibili di esistere. La mente continuerà a farlo, anche quando non crederemo più al fatto che corrispondano a qualcosa di reale. Con tale conseguimento, raggiungiamo l’illuminazione.

L’inconsapevolezza come causa di emozioni disturbanti

Abbiamo anche visto che quando ricerchiamo le cause delle emozioni disturbanti – quali l’avidità, l’attaccamento, la rabbia, l’ostilità, l’orgoglio, la gelosia, ecc. – scopriamo che la loro causa principale è l’inconsapevolezza, l’ignoranza. Ad esempio, ciò accade quando crediamo che esista un “io” solido – per usare un linguaggio molto semplice. Che cosa succede? Ci sentiamo insicuri rispetto a questo solido “io”: sentiamo che dobbiamo metterlo al sicuro. Come proviamo a farlo? Acquisendo una quantità di cose che sia sufficiente a metterlo al sicuro. Questo è ciò che facciamo con il desiderio, l’avidità e così via. Ad esempio: se possediamo qualcosa, non vogliamo lasciarla andare; quindi c’è attaccamento, nella speranza che ciò “mi” faccia sentire al sicuro. Ovviamente, non sarà mai in grado di farlo.

Oppure proviamo rabbia e ostilità: “Se soltanto potessi allontanare quella cosa da ‘me’, o distruggerla, magari questo ‘mi’ farebbe sentire al sicuro”. Ciononostante, ci sentiremo sempre minacciati, e quindi non funzionerà mai.

Oppure proviamo gelosia: “Se soltanto potessi avere ciò che quella persona ha, ciò ‘mi’ farebbe sentire al sicuro”, o “Se quella persona non ama qualcun altro, ma ama ‘me’, ciò ‘mi’ farà sentire al sicuro”. Ma ancora: non funzionerà mai.

Oppure orgoglio e arroganza: “Se mi vanto di me stesso per essere il migliore, ciò ‘mi’ farà sentire al sicuro”. Poi però sospettiamo sempre che qualcuno sia migliore di noi, e quindi nella nostra arroganza ci sentiamo ancora insicuri. L’arroganza, di solito, nasconde insicurezza.

Tutti questi sono emozioni e atteggiamenti disturbanti, e – se andiamo a vederne la definizione – sono stati interiori che, quando sorgono, ci fanno perdere la pace mentale e l’autocontrollo. Quando perdiamo l’autocontrollo, adottiamo vari possibili comportamenti sciocchi e diciamo cose sciocche agli altri. Ciò non farà altro che creare ulteriori problemi; ad esempio, diremo: “Non lasciarmi mai, non posso vivere senza di te”, e così facendo allontaneremo ancora di più l’altra persona.

Tutte le emozioni e gli atteggiamenti disturbanti derivano dalla nostra inconsapevolezza della realtà. Non siamo consapevoli del fatto che queste proiezioni sul modo in cui esistiamo non corrispondono a nulla di reale. Così, crediamo che siano la realtà, e dunque le comprendiamo in modo scorretto.

La considerazione scorretta

Abbiamo visto che tale inconsapevolezza e queste emozioni disturbanti sono alimentate da una considerazione scorretta, con cui la mente proietta qualcosa che non c’è. Rispetto a fenomeni non immutabili, proietta il loro essere immutabili. Così, rispetto a cose che sono impermanenti, che dovranno finire, la mente proietta il loro esserci per sempre; inoltre, in relazione a cose che cambiano di istante in istante, proietta il loro non cambiare, la loro stabilità, il loro non essere influenzate da nulla.

Su situazioni che sono sofferenza e comportano sofferenza, la considerazione scorretta proietta il loro essere felicità – la seconda forma di considerazione scorretta – oppure, su cose che sono impure, proietta il loro essere pure.

La parola “considerazione”, nell’espressione “considerazione errata”, significa letteralmente “prendere in considerazione”; pertanto, è proiettare qualcosa che non è corretto, tenere in considerazione quell’oggetto, o prestarvi attenzione, in questo modo scorretto – come se fosse immutabile o puro, o come se fosse felicità.

Poi, il quarto tipo di considerazione scorretta è la seguente: c’è un “io”, o esiste un “sé”, separato dagli aggregati, ossia una mente e un corpo, sebbene in realtà non ci sia. Non esiste nulla del genere. Magari esistono delle cose che sono separate dai nostri aggregati, che non sono collegate ai nostri aggregati, come questo tavolo quando non lo stiamo osservando, ma questo non è il caso del sé, dell’“io”. 

Considerazioni scorrette basate su una dottrina e considerazioni scorrette che sorgono spontaneamente

Ora, questi tipi di considerazioni scorrette possono essere basati su una dottrina – qualcuno potrebbe averceli insegnati attraverso un sistema filosofico o religioso, o semplicemente con la pubblicità – oppure possono sorgere spontaneamente. Sebbene questi quattro tipi di considerazioni scorrette non siano considerati emozioni disturbanti, poiché proiettano qualcosa, mentre le emozioni disturbanti non proiettano nulla, tuttavia, come quest’ultime, i quattro tipi hanno aspetti o forme che possono essere basati su una dottrina o sorgere spontaneamente.

Quando ci liberiamo delle emozioni disturbanti basate su una dottrina, ci liberiamo anche di considerazioni scorrette basate su una dottrina. Allo stesso modo, quando ci liberiamo delle emozioni disturbanti che sorgono spontaneamente, ci liberiamo di considerazioni scorrette che sorgono spontaneamente. Si combinano in questo modo.

Se ci chiediamo: “Quali sono le cause delle emozioni disturbanti?”, vediamo che ci sono tre cause che lavorano insieme. Ci sono: una considerazione scorretta, una tendenza o abitudine a un’emozione disturbante, la prossimità o vicinanza di un oggetto che potrebbe stimolare l’emozione disturbante – qualcosa o qualcuno per cui proviamo avidità, attaccamento o ostilità – e la nostra mancanza di applicazione di un qualsiasi opponente per prevenire l’emozione disturbante. Abbiamo bisogno di tutte queste circostanze affinché sorgano delle emozioni disturbanti. Non accade soltanto a causa delle tendenze e abitudini verso di esse. Tuttavia, la causa-radice delle emozioni disturbanti è l’inconsapevolezza; se ce ne liberiamo, ci libereremo delle emozioni disturbanti e, con esse, verranno meno anche le considerazioni errate.

L’afferrarsi a un sé impossibile di una persona

Abbiamo iniziato la nostra discussione sull’inconsapevolezza di come esistano le persone, ossia gli individui; essa ha sia una forma basata su una dottrina, sia una forma che sorge spontaneamente. Questi due tipi di inconsapevolezza portano a ciò che di solito si traduce come “afferrarsi al sé di una persona”: l’afferrarsi a un’anima impossibile di una persona, avente anch’esso entrambe le forme. Se le comprendiamo semplicemente come l’afferrarsi a un sé o un “io” in generale, e non specifichiamo che si tratta dell’afferrarsi al tipo di sé che non potrebbe esistere, è facile cadere in un estremo nichilista. Non stiamo negando l’esistenza di un “sé” o di un “io”: qui stiamo negando, o confutando, un tipo impossibile di “io”, un’anima impossibile.

In primo luogo, lavoriamo per liberarci dell’afferrarci a un “io” impossibile, un’anima impossibile, che si basa su una dottrina. Qui il Buddhismo parla specificamente della visione errata di un’anima, o di un atman, insegnata nei vari sistemi indiani non buddhisti. Questa è un’anima, un sé, un “io”, che combina alcune caratteristiche sulle quali abbiamo una considerazione scorretta.

Pensiamo che ci sia un “io”, o un’anima, che è immutabile, ossia che non cambia di istante in istante, che rimane sempre lo stesso e non è influenzato da nulla. Pensiamo anche che sia un monolite senza parti, o avente le dimensioni dell’intero universo o simile a una piccola scintilla di vita. Inoltre, immaginiamo che sia un’entità separata, una cosa separata, che entra in un corpo e in una mente, con una rinascita – e a tal proposito ci sono varie versioni; ad esempio, può essere cosciente o no – e poi si sposta in un altro corpo e in un’altra mente, nella rinascita successiva. Quando viene liberata, però, continua ad esistere in modo totalmente indipendente da un corpo e una mente. Mentre è in un corpo, vive all’interno del corpo e della mente e ne è il possessore: li possiede e li controlla, come se ne premesse i pulsanti, e poi si sposta, verso ripetute rinascite o in uno stato liberato.

Il Buddhismo confuta, nello specifico, un’anima che possiede questo intero pacchetto di qualità e, senza che qualcuno ci insegni questo, non potremmo credere spontaneamente in un’anima siffatta. Abbiamo anche visto che, nelle nostre filosofie e religioni occidentali, forse non troviamo concezioni di un’anima che abbia tutte queste qualità; potremmo però trovarne rispetto a un’anima con alcune di queste, e la sua confutazione avverrebbe in termini di confutazione dei vari tipi di considerazione scorretta. Così, il Buddhismo si occupa anche delle visioni impossibili delle filosofie e religioni non indiane. Usando la logica, possiamo capire che tutti questi tipi di anima sono impossibili. Non esiste nulla del genere. Quando siamo pienamente convinti della loro impossibilità, il modo in cui concentrarci sulla vacuità consiste semplicemente nel “recidere” del tutto questa falsa visione, questa visione errata – reciderla semplicemente come un “nulla del genere”.

Poi abbiamo visto che il Buddhismo afferma l’esistenza di un sé o un “io”, di una persona che cambia di istante in istante, influenzata da varie cose. È eterno, non ha né inizio né fine, ed è individuale, ma cambia di momento in momento ed è influenzato da cause e condizioni. Non è qualcosa di separabile da un continuum di un corpo e una mente, ma è una designazione su un continuum individuale di corpo, mente, emozioni, ecc. da una vita all’altra, e continua anche con la liberazione e l’illuminazione, come una designazione su una base. 

L’esempio che uso sempre per spiegare questo punto è un film – ad esempio “Guerre stellari”. Abbiamo un continuum di una scena dopo l’altra, e l’altra ancora. Non stiamo parlando della pellicola di plastica: stiamo parlando dell’effettiva visione del film. Una scena succede all’altra. È in continua evoluzione: nulla rimane uguale nel suo scorrere, e ci riferiamo a tutto ciò come “Guerre stellari”. “Guerre stellari” non è soltanto un suo piccolo, piccolo momento. Il tutto non viene riprodotto in un solo istante, bensì c’è un film, “Guerre stellari”, che è una designazione sulla base del continuum di tutte queste scene.

Quando vediamo una scena, che cosa stiamo guardando?  “Guerre stellari”. Stiamo guardando tutto il film in un momento solo? No. “Guerre stellari” è forse soltanto un nome? No, non è soltanto un nome: è ciò cui quest’ultimo si riferisce. Dov’è “Guerre stellari?” Non è una scena e non è il tutto, perché non possiamo vederlo tutto in un solo momento, eppure c’è un film chiamato “Guerre stellari”. L’“io” convenzionale è proprio così.

Quando diciamo: “Mi conosco. Eccomi qui” ci riferiamo soltanto a questo piccolo, breve istante? Ci riferiamo a tutta la nostra vita? Qualcuno può forse conoscere tutta una vita in un solo istante? No. Sono soltanto un nome, “io” o “Alex”? No: piuttosto, il nome si riferisce a qualcosa, una persona, sulla base del continuum di corpo, mente, sensazioni, esperienza, ecc.

Poiché la base dell’“io” cambia di istante in istante, anche una persona, l’“io”, cambia momento dopo momento. Non è immutabile. Una persona possiede delle parti perché la sua base le possiede. In qualsiasi istante ci sono un corpo, una mente, alcune emozioni e così via. Una persona ha anche delle parti temporali, e tutte sono la base per l’“io” – Alex da giovane, Alex uomo di mezza età, ecc., nonché vita sociale, accademica, sportiva e così via. Ci sono delle parti: non è un monolite. Non è come la semplice visione di Tintin nei fumetti: Tintin come la stessa persona, immutabile e senza parti, ora in Tibet, ora in Egitto, ora in Svizzera, ecc. Non si tratta di avere questo solido Alex, qui, immutabile, che rimane lo stesso, privo di parti, e ora in questa situazione, ora in quell’altra. L’“io” in ogni momento e in ogni situazione è diverso – ma non del tutto irrelato, ovviamente. C’è un continuum.

Abbiamo parlato di un “io” impossibile basato sulla dottrina che apprendiamo da un sistema. C’è anche un “io” impossibile che sorge spontaneamente. Prima di descriverlo, potrebbe essere una buona idea dedicare qualche istante a digerire quanto appena spiegato.

[Meditazione]

L’afferrarsi a un “io” impossibile che sorge spontaneamente

Rispetto all’afferrarci a un “io” impossibile che sorge spontaneamente, immaginiamo che ci sia quello che viene chiamato un “io conoscibile in modo autosufficiente”. Indica un “io” che può essere conosciuto da solo, senza conoscere prima, e poi simultaneamente a esso, le sue basi di designazione – spiegherò questo punto più tardi.  “In modo autosufficiente” significa che, per conoscerlo, è sufficiente o bastevole conoscerlo da solo. Non richiede che nel processo sia conosciuto nient’altro – ossia, una base. Un sé conoscibile in modo autosufficiente è anche chiamato, letteralmente, un “sé che può stare in piedi da solo”, completamente da solo. L’afferrarsi all’esistenza del sé in quel modo impossibile “sorge spontaneamente”, e ciò significa che nessuno ha dovuto insegnarcelo. Anche un cane lo possiede.

Ad esempio: guardo qui, e che cosa mi sembra? Mi sembra di vedere Massimo. Non mi sembra di vedere un corpo, e poi, sulla base del corpo e insieme al corpo, il fenomeno designato della persona, Massimo. No. Mi sembra semplicemente di vedere Massimo.

C’è Claudia. La conosco. Quando dico: “Conosco Claudia”, che cosa conosco? La sua mente? So che aspetto ha? Quando la sento al telefono, penso: “Ah, parlo con Claudia” o “Sento Claudia”. Ebbene, che cosa sento? Non sento soltanto Claudia di per sé stessa: sento una voce. E neanche una voce: sento la vibrazione di alcune cose elettroniche e su questa base, quale designazione, sento la voce di una persona. Inoltre, sempre su tale base, sento, quale designazione, Claudia. E invece no! Mi sembra di parlare con Claudia e di ascoltare Claudia. La persona “Claudia” sembra conoscibile in modo autosufficiente e ritengo che quell’apparenza ingannevole corrisponda alla realtà.

In altre parole, una base deve apparire prima che conosciamo, pensiamo o vediamo una persona e, poi, nello stesso momento in cui ciò accade. Tuttavia, a noi sembra semplicemente di conoscere e vedere una persona. Quando iniziamo ad analizzare tutto ciò, e a renderci conto del fatto che effettivamente ci afferriamo all’esistenza delle persone in quel modo sbagliato, scopriamo la varietà di pensieri ed emozioni disturbanti che ne deriva. “Povero ‘me’, nessuno ‘mi’ ama”. A che cosa stiamo pensando? A un corpo? A una mente? A che cosa? Stiamo pensando soltanto a “me”. “Voglio che qualcuno ami ‘me’ per come ‘io stesso’ sono, non per i miei soldi, non per il mio bell’aspetto, non per il mio corpo, non per la mia intelligenza. Voglio che si ami semplicemente ‘me’”, come se ci fosse un “io” che potrebbe essere amato separatamente, da solo – separato da tutte queste cose. E non solo l’“io” esiste separatamente, ma può anche essere – ad esempio – conosciuto e amato separatamente. Il fatto che una persona possa essere amata separatamente da un corpo, una mente, dei possedimenti, un senso dell’umorismo, ecc. è qui usato da me come esempio. Noi diciamo: “Amami per quello che ‘io’ sono”.

“Non conosci il vero ‘me stesso’: conosci soltanto la mia scrittura”, “Non conosci il vero ‘me stesso’”, come se ci fosse un vero “io” che qualcuno potrebbe conoscere, separatamente da tutto questo. È divertente, no? A volte la questione si fa leggermente più complessa, e quindi pensiamo: “Il vero ‘io’ è la mia vita emotiva: è soltanto questo aspetto, non quello professionale”. E qui giungono diverse varianti: derivano da un’altra visione errata, secondo cui il vero “io” può essere conosciuto soltanto sulla base di alcuni specifici aspetti, e non di altri – che non sono il vero “io”. Questa è la forma che sorge spontaneamente dell’afferrarsi a un “io” o a un’anima impossibile di una persona.

Prendiamoci qualche momento per provare a riconoscerla e comprenderla. Quando parliamo di vacuità, di solito è descritta come la mancanza di un “io” impossibile. Un simile “io” è totalmente assente perché non esiste nulla del genere. Ci sono davvero numerose conseguenze di questo punto. Spesso diciamo che amiamo qualcuno, ma ciò si basa soltanto su alcuni aspetti di quella persona: di solito ne esageriamo gli aspetti positivi e non consideriamo quelli negativi. Pensiamo di poter conoscere qualcuno semplicemente sotto questi aspetti, e quindi sorge la considerazione scorretta: “È semplicemente fantastico”, quando magari potrebbe essere piuttosto normale.

È come la sindrome: “Oggi non sono ‘me stesso’” o “Non eri ‘te stesso’”. Riflettiamo, ora, su tutto questo.

[Meditazione]

Domande

Qual è il tuo consiglio per portare questa consapevolezza nella vita di ogni giorno?

Il mio consiglio è rendersi conto che è ridicolo se, come nel nostro esempio, pensando alla nostra relazione con qualcuno, vogliamo che ci ami per “noi stessi”, e non per tutti gli altri aspetti. Ciò, infatti, non corrisponde a nulla di reale: non esiste un simile “me stesso”. Se quella persona ama “me”, quel “me” può essere conosciuto solo sulla base della mia personalità, dei miei possedimenti, di ciò che ho realizzato, del mio corpo e di tutte queste altre cose. Non c’è niente di sbagliato in questo. Deve accadere su questa base: non può che essere su questa base.

Inoltre, se amo qualcuno: ebbene, non posso amare semplicemente quella persona, anche se potrebbe sembrare: “Ti amo, semplicemente, e voglio te”. Abbiamo l’intero pacchetto di tale persona: tutti i suoi punti di forza e punti deboli, le sue relazioni familiari, il suo livello di intelligenza e forza fisica. Riceviamo l’intero pacchetto: non possiamo amare semplicemente quella persona. Spesso però vogliamo negare e non avere a che fare con alcuni aspetti che riteniamo spiacevoli, e li ignoriamo al più presto. Non possiamo farlo, poiché arrivano con l’intero pacchetto. Non esiste un “io” che sia separato e che possa essere amato separatamente da tutto ciò. Se il nostro amore per qualcuno è basato sull’interezza della sua base di designazione, allora diventa molto più realistico.

Inoltre, so che alcune persone qui presenti sono coinvolte nel training di Tara Rokpa, in cui si rivede tutta la propria vita dell’esistenza presente, passando dalla situazione attuale ai primi giorni, quindi tornando di nuovo al presente, e poi ancora ai primi giorni. Non solo si comprende – non ho seguito di persona il training, ma immagino che si comprenda – la non-immutabilità, e il fatto che cambiamo e siamo influenzati, e influenzati da molte cose diverse, e così via; alla luce di ciò di cui abbiamo discusso qui, ci si renderebbe anche conto del fatto che l’“io” è una designazione su tutta questa storia, e non possiamo conoscere veramente l’“io” quando sosteniamo che esista un “io” conoscibile e che funziona separatamente da tutto ciò. Un simile training può aiutarci a integrare tutta la nostra storia, tutto ciò che abbiamo studiato, tutti coloro che abbiamo incontrato, tutte le esperienze che queste persone hanno avuto, e da cui sono state influenzate, e quelle che noi stessi abbiamo vissuto.

Capisco che l’“io” non è un istante, e che non è l’intero film visto in un istante, perché questo è impossibile. Ma allora che cosa ci rimane? Che cos’è l’io? Capisco che cosa non è, ma non che cosa è. La seconda domanda riguarda la considerazione scorretta che sorge spontaneamente di un “io” impossibile. Perché dovrebbe sorgere spontaneamente? Ci dev’essere una ragione per cui sorge spontaneamente.

Prima di tutto, ciò che rimane è un “io” che esiste come una designazione sull’enorme base dei cinque aggregati in continuo cambiamento, e che può essere conosciuto soltanto sulla base di questi. Approfondire ciò che rimane ci conduce al prossimo argomento, che è la vacuità di tutti i fenomeni, ed è solo nel contesto di tale discussione che possiamo approfondire la domanda: “Che cosa rimane?” e “Possiamo ulteriormente affinarlo?”

Perché ha luogo l’afferrarsi a questo “io” impossibile che sorge spontaneamente? Ebbene, come ho spiegato prima, dal punto di vista delle cause della considerazione scorretta: abitudine, tendenza, rinforzo da altre persone, influenza degli oggetti, ad esempio – come un telefono, quando sentiamo solo una voce e non vediamo una persona, ecc. Questa è la cosa orribile: la nostra mente crea tale apparenza senza che ciò abbia avuto un primo inizio, quindi l’abitudine è profondamente radicata. Ogni causa precedente ha il proprio insieme di cause precedenti. È così.

Non è strano?

Sì, è strano. Questo è il samsara, privo di un inizio.

Con l’esempio di una relazione, hai parlato di come vogliamo che qualcuno ci ami in un certo modo e di come vogliamo che qualcuno sia. Penso che il più delle volte non sia così, in una relazione. Cerchiamo di vedere l’altra persona in un modo “olistico”, conoscendo e accettando “l’intero pacchetto” dell’altro, con gli aspetti positivi e quelli non così positivi, e il fatto che possa cambiare giorno dopo giorno. Non abbiamo un’immagine dell’altro, accettandolo solo per questo aspetto e non per quest’altro, e restando tutto il tempo abbindolati da un’illusione. Il più delle volte, nei rapporti con amici o partner, cerchiamo di vedere spontaneamente gli altri in tutti i loro aspetti, senza distinguerli tra quelli che vogliamo e quelli che non vogliamo.

Se sei in grado di farlo, è meraviglioso. Tuttavia, penso che per la maggior parte di noi si presenti una certa situazione in cui: “Ecco, l’hai fatto!” o “Mi hai deluso!” E ci ritroviamo infastiditi e arrabbiati. Pensiamo proprio a quel tipo di “tu”: “Tu l’hai fatto”. Non pensiamo alla base, nella sua globalità: “Beh, forse l’altra persona era presa da altro. Forse non si sentiva bene”, forse questo o forse quello. Quindi tale idea sbagliata sorge spontaneamente: è questo il punto dell’idea di una persona conoscibile in modo autosufficiente. Un altro esempio: “Vorrei che tu fossi qui”. Che cosa c’è dietro?

Un grande desiderio.

Ciò che c’è dietro è soltanto il “tu”. Non pensiamo a tutte le altre cose che sono la base del tu.

Non ho avuto la possibilità di esporre la mia domanda.

“Non ho avuto la possibilità di esporre la mia domanda” è un altro buon esempio. Che cosa significa? Il tuo corpo non ha avuto la possibilità di farlo? La tua voce?... No. Soltanto l’“io”. Io non ho avuto la possibilità di formularla. Quindi ora, quando rispondo: “Qual è la tua domanda?”, a chi o che cosa lo sto chiedendo? Lo sto chiedendo al corpo? Alla mente? No, lo sto chiedendo soltanto a “te”. E ora risponderai. Che cosa o chi risponderà? Una voce proveniente da un corpo sulla base del quale, come designazione, esiste la persona Lisa.

La mia domanda è: quando parliamo di proiezioni, proiettare è di per sé sbagliato, oppure ci sono proiezioni sbagliate e proiezioni giuste? Proietto qualcosa di permanente, mentre si tratta di qualcosa di impermanente. Proietto felicità, mentre si tratta di infelicità. Ora, hai spiegato che anche queste sono considerazioni scorrette. Le considerazioni sono proiezioni? Le proiezioni sono sbagliate, oppure ci sono proiezioni giuste e sbagliate?

Mi spiace se ti ho confuso, ma stavo cercando di semplificare le cose, e quindi ho usato la parola “proiezione”, ma non come termine tecnico. Molti termini tecnici sono qui inclusi nel discorso, ma all’inizio non li ho propriamente differenziati.

Ad esempio, abbiamo l’espressione “interpolazione”: significa aggiungere qualcosa che non c’è. Ciò è descritto come porre una piuma all’estremità di una freccia. La piuma, di suo, non si trovava lì. Fondamentalmente, potremmo aggiungere qualcosa di impossibile, che non c’è mai stato, come un modo impossibile di esistere; oppure potremmo aggiungere qualcosa che potrebbe esistere, ma che ora, lì, non esiste; oppure potremmo esagerare qualcosa che è lì presente. Aggiungiamo o esageriamo le buone qualità di qualcosa quando proviamo attaccamento o desiderio. Aggiungiamo o esageriamo le qualità negative di qualcosa quando proviamo rabbia e repulsione.

L’opposto dell’interpolazione è detto “rifiuto”: neghiamo qualcosa che è lì presente. Neghiamo che ci sia qualcosa di sbagliato nella nostra relazione quando è malsana. Neghiamo che esista qualcosa come la morte. Molti problemi derivano da uno stato di negazione.

Inoltre, nell’ampia e generica parola “proiezione” è inclusa l’“etichetta mentale di una categoria”, ossia ciò che è implicato nella cognizione concettuale. Prendiamo, ad esempio, la categoria “tavolo”: possiamo etichettarla mentalmente, in modo concettuale, su questo oggetto che è accanto a me, quell’oggetto laggiù, che ha una forma leggermente diversa, e ciascuno di questi oggetti di fronte a voi. Possiamo inserirli tutti in questa categoria, con cui mentalmente li etichettiamo. Inoltre, possiamo concettualmente “designare” un nome sulla categoria, ad esempio “tavolo”, e, attraverso la categoria, designarlo su ogni elemento che mentalmente etichettiamo come incluso in tale categoria. Ovviamente, nelle diverse lingue abbiamo nomi distinti con cui poter designare una stessa categoria.

Tali categorie e nomi possono essere convenzionalmente precisi o meno. Se guardiamo questo oggetto e lo consideriamo come un tavolo, ciò è convenzionalmente corretto. Tutti qui sarebbero d’accordo. Tuttavia, se lo guardassimo e lo etichettassimo come “un cane”, altre persone non sarebbero d’accordo e non potrebbe funzionare come un cane. Se lo lascio in prossimità del cancello perché abbai e allontani la gente, non lo farà; quindi, qui c’è qualcosa di sbagliato. ”Considerazione scorretta” è un termine molto tecnico, ma potrebbe includere, ad esempio, considerare questo oggetto un cane anziché un tavolo.

L’“io” è designato sugli aggregati o è etichettato sugli aggregati?

L’“io” – o una persona – è una designazione sugli aggregati; può essere conosciuto concettualmente o non concettualmente – possiamo pensare a una persona o vedere una persona. La categoria “io” o “una persona” può essere etichettata, invece, su molte singole persone; la categoria può essere conosciuta soltanto concettualmente. Indagheremo ulteriormente sul significato di questo.

Se andiamo in un ospedale psichiatrico, vediamo che i pazienti hanno molti problemi con l’“io”. L’“io”, allora, dovrebbe essere qualcosa di più di una designazione sugli aggregati. Se non è qualcosa di più, perché ci sono così tanti problemi? Il loro “io” non è ben strutturato, quindi a loro va bene perché non decostruiscono l’“io”; tuttavia, hanno molti problemi.

Dobbiamo tornare a ciò che ho menzionato. Forse non l’ho sottolineato a sufficienza. C’è una differenza tra l’“io convenzionale” e il “falso io”. Il primo è una designazione sugli aggregati, così come lo è l’età, e ci addentreremo sempre più nel significato effettivo di questo punto. Ciò che in Occidente chiamiamo “un ego sano” è quello che si considera in termini di io convenzionale. Ora, un “falso ego”, un “ego gonfiato”, si ha quando interpoliamo o aggiungiamo a tale io convenzionale delle qualità che gli mancano. Alcune sono qualità che potrebbero esistere, ma nel nostro caso non esistono – ad esempio, la capacità di svolgere un lavoro fisico come se avessimo venticinque anni, quando ne abbiamo settantacinque. Alcune qualità che interpoliamo sono impossibili, come quella di essere la persona più importante del mondo, che dovrebbe sempre averla vinta o essere conoscibile in modo autosufficiente. Con entrambi i tipi di interpolazione, avremmo un ego gonfiato. Le persone che hanno molti problemi psicologici o hanno un ego tremendamente gonfiato o non hanno un ego sano – nel qual caso non hanno nemmeno il senso dell’io convenzionale.

Non so se operate questa distinzione nella lingua italiana, ma quantomeno in inglese esiste una differenza tra “ego” e “io”. L’ego è un modo di essere consapevoli di sé stessi come “io”. Con un ego sano, siamo consapevoli di noi stessi come un io convenzionale. Con un ego gonfiato, siamo consapevoli di noi stessi come un falso io. È così che uniamo la spiegazione buddhista con la psicologia occidentale. L’io convenzionale e il falso io sono in realtà gli oggetti, rispettivamente, di un ego sano e di un ego gonfiato. Ego e “io” non sono equivalenti; sono in relazione tra loro.

Ecco perché è molto importante che, quando approfondiamo lo studio del Buddhismo, siamo idonei a essere studenti. Le qualifiche principali sono la maturità e un senso sano dell’“io”. Perché, se decostruiamo l’“io” e non ne abbiamo un senso sano, poi non ci resta nulla. Pertanto, non è consigliabile insegnare la vacuità ai bambini o ai giovani adolescenti, che non hanno ancora sviluppato un senso sano di un “io” individuale, perché decostruirebbero troppo. Negli insegnamenti ascoltiamo ripetutamente questo avvertimento e possiamo prendere dei voti per non insegnare la vacuità a coloro che non sono pronti. Questo è il pericolo: che arrivino a confutare tutto, e che ciò sfoci in vere e proprie psicosi.

Esiste anche il pericolo che l’ego possa diventare ancora più forte?

Sì: con l’arroganza di chi ha effettivamente compreso la vacuità, quando in realtà non l’abbiamo capita, a causa di questa interpolazione l’ego potrebbe diventare pieno di sé e più forte.

Hai parlato della sofferenza che nelle relazioni risulta dalle emozioni disturbanti, derivanti dalla proiezione di modi impossibili di esistere di una persona o di un “io”. Tuttavia c’è un altro – forse più profondo – tipo di sofferenza, che deriva dalla mancanza di uno scopo, dalla mancanza di un senso o significato. Lo vedo nei miei figli.

Intendi il non trovare un significato nella vita? Ancora una volta, questo è non avere un sano senso dell’io convenzionale. Qui ci sono diversi fattori coinvolti. Uno di questi riguarda quello che chiamiamo “rifugio”, e che io chiamo “direzione sicura” nella vita. Con il Buddhismo, la direzione in cui stiamo andando nella vita è quella dell’ottenimento di una vera cessazione di tutte le emozioni disturbanti – e così via – che causano sofferenza, e del conseguimento di una vera mente-sentiero – la comprensione e le realizzazioni che ci porteranno non soltanto felicità ma anche la capacità di aiutare gli altri. Vediamo tutto ciò realizzato nella sua pienezza nel Buddha, e in parte nella comunità dell’Arya Sangha. Avendo questo come nostro obiettivo, abbiamo una direzione, una direzione sicura: ci dà un senso nella vita.

Il termine “rifugio” è troppo passivo, poiché ha a che fare con la ricerca di qualcuno o qualcosa che si assuma la responsabilità di proteggerci, mentre noi, dal canto nostro, non dovremmo fare nulla se non sottometterci a esso. Non è questo ciò in cui consiste il rifugio. Piuttosto, se immettiamo una direzione sicura nella nostra esistenza – una in cui più ci addentriamo, più ci proteggiamo dalla sofferenza – sappiamo dove stiamo andando, nella vita. Questo ci aiuta a stabilire un senso dell’io convenzionale. Certo, potremmo gonfiarlo: “Vado a salvare il mondo perché sono Santo Alex”. Tuttavia, avere questa direzione sicura e positiva nella vita è davvero, davvero fondamentale. Ecco dove iniziamo nel Buddhismo. È assolutamente essenziale.

Ai bambini non è necessario fornire un gergo tecnico. Parliamo con loro semplicemente sul piano di ciò che può essere il loro scopo e significato nella vita. Ad esempio: crescere, diventare persone buone e gentili, non arrabbiarsi, imparare il più possibile in modo da poter essere di aiuto agli altri, e così via. Così facendo – e penso che un bambino possa capire, senza che si debbano introdurre gli elementi di Buddha, Dharma, Sangha e tutte queste cose – un bambino avrà la sensazione: “Sto facendo qualcosa”, “Nella mia vita sto andando da qualche parte”. Questo lo aiuterà a costruire un ego sano, basato sull’io convenzionale.

Non dobbiamo spiegare utilizzando termini quali “designazione”, “io convenzionale” e così via. Avere una direzione sicura e positiva nella vita aiuta a stabilire il senso di un “io” avente uno scopo. Potremo preoccuparci poi, in un secondo momento, dell’esagerazione dello stesso. Naturalmente, il modo in cui spieghiamo e presentiamo questo aspetto a un bambino dipende dalla sua età: non adotteremo la stessa modalità per un bambino di tre anni e per uno di dieci.

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