Il Concetto Buddista di Realtà

Nel buddismo, la questione di cosa sia la realtà è centrale al proprio approccio alla vita. C’è una grande differenza tra il mondo delle apparenze che la nostra mente crea e il mondo della realtà a cui le leggi di causa ed effetto danno origine. Quando confondiamo il primo con il secondo e crediamo che il modo in cui le cose ci appaiono corrisponda a realtà, creiamo problemi e sofferenza per noi stessi e per gli altri. Ma nessuno vuole essere infelice e soffrire; tutti vogliono essere felici. Questo è lo scopo di tutta la vita, e in tal senso, siamo tutti uguali - esseri umani ed animali. Tutta la vita mira al benessere e alla felicità; e tutte le religioni, sia quelle che affermano l’esistenza di un Dio creatore sia quelle che, come il buddismo e il giainismo, non lo fanno, e anche tutti i sistemi secolari, condividono questo scopo e così forniscono vari metodi per realizzare questo obiettivo comune.

L’Enfasi Buddista sull’Analisi con la Logica

L’approccio buddista per conseguire questo obiettivo comune, in modo particolare nelle tradizioni indo-tibetane, si concentra sull’analisi di come le cose ci appaiono e, attraverso l’uso della logica e della ragione, decostruisce tutte le false apparenze che la nostra mente proietta. Poi, basandosi sul vedere e l’accettare la realtà, l’enfasi è sull’impiego di metodi razionali e realistici per raggiungere questo scopo di felicità e benessere.

Nella nostra epoca attuale, cosiddetta “post-verità”, in cui abbondano le teorie della cospirazione e la disinformazione, questo approccio è cruciale, indipendentemente dalla nostra religione o sistema di credenze. È essenziale anche se non seguiamo alcuna religione. Così, nel buddismo, la questione dell’esistenza di Dio, non sorge in relazione alla preoccupazione principale, che è quella di realizzare la liberazione di tutti gli esseri dalla sofferenza ricorrente e incontrollabile. Poiché sia il mondo delle false apparenze che il mondo della realtà sorgono in dipendenza da causa ed effetto, ognuno è influenzato causalmente dagli atteggiamenti e comportamenti di coloro che li sperimentano. Perciò, superare la sofferenza causata dal credere nella realtà della prima e creare la felicità causata dal credere nella realtà della seconda può solo sorgere in dipendenza dei nostri sforzi causali. Questo è il nucleo centrale del credo buddista.

In termini di realtà, tutti noi viviamo in quella che possiamo dire essere la “realtà vera o effettiva”, verificabile con il metodo scientifico, che il buddismo condivide. Dopotutto, il Buddha ha detto di non accettare ciò che ha insegnato solo per fede, ma di esaminarlo, come quando si compra l’oro. Perciò, nel buddismo, l’esame e l’analisi sono i metodi supremi per scoprire e verificare la realtà. I problemi sorgono quando le persono si inventano una realtà alternativa falsa e la confondono per ciò che è effettivamente la verità. Possiamo vedere che questo accade nella sfera politica, ma il buddismo guarda questo fenomeno ad un livello più ampio ed universale.

La Falsa Realtà Che Siamo Speciali

Una falsa realtà che molte persone creano è che sono in qualche modo speciali. Questo porta ad un atteggiamento egocentrico con il quale pensiamo che qualsiasi cosa ci accada, specialmente le cose brutte, accada soltanto a noi. Sentiamo, per esempio, che siamo gli unici ad ammalarci, a perdere il lavoro, a perdere i nostri cari o ad affrontare la morte. Come ha fatto Buddha ad aiutare qualcuno così a vedere la realtà? Guardiamo un esempio che può aiutarci a comprendere l’approccio buddista.

Una volta una madre portò il suo bambino morto al Buddha e gli chiese di riportare il figlio in vita. Buddha acconsentì, ma le disse di portargli prima un chicco di riso da una famiglia che la morte non avesse mai visitato. La donna andò per tutto il villaggio, casa per casa, alla ricerca di una tale famiglia, ma presto scoprì che ogni famiglia aveva avuto qualcuno che era morto, sia giovane che vecchio. Rendendosi conto che non era sola ad aver perso una persona cara, finalmente comprese e accettò la realtà che la morte arriva per tutti. In questo modo, fu in grado di lasciar andare e lasciare che suo figlio fosse cremato.

Quando le persone affrontano una situazione difficile - che sia una dipendenza, un tumore, avere un figlio con la sindrome di Down e così via - spesso si sentono sole. Pensiamo di essere gli unici ad aver mai avuto questo problema. Credere a questa falsa realtà ci porta ad isolarci emotivamente dagli altri e a grandi turbamenti mentali. La vera realtà è che ci sono molti altri che affrontano una situazione simile. Un modo per rendersi conto di questa realtà è partecipare ad un gruppo di sostegno con altri che condividono lo stesso tipo di situazione. È stato scientificamente dimostrato che partecipare a tali gruppi è estremamente benefico nell’affrontare tali problemi. Questo è chiaramente il caso, non importa quale sia la nostra difficoltà.

Non abbiamo neanche bisogno di partecipare ad un gruppo di sostegno per comprendere che non siamo gli unici a dover avere a che fare con la difficoltà che stiamo affrontando. Vedere questa realtà ci aiuta ad ampliare la nostra prospettiva per includere gli altri e, così facendo, ci rendiamo conto che proprio come noi vogliamo superare la nostra difficoltà ed essere felici, lo stesso vale per tutti gli altri. Questo ci aiuta a sviluppare la compassione.

Compassione

La compassione è il desiderio che tutti siano liberi dalla loro sofferenza ed infelicità, compresi noi stessi. Quando pensiamo strettamente solo a noi stessi, mentalmente ci contraiamo e quindi comprimiamo le nostre energie emotive. Sperimentiamo questo disturbo come ansia, angoscia e insicurezza. Aprire il nostro cuore agli altri rompe questa sindrome. La compassione, più la consapevolezza che non siamo soli, ci calma. Ci consente di vedere più chiaramente la realtà effettiva della nostra situazione e quali misure realistiche possiamo prendere per alleviare i problemi in questione. Così, la compassione ci dà la fiducia in noi stessi per affrontare qualsiasi sfida.

Dopotutto, come esseri umani siamo animali sociali. Questa è la realtà. Il nostro benessere dipende dagli altri, a partire dall’ infanzia e nel corso di tutta la nostra vita. Ogni oggetto di cui facciamo uso o che consumiamo quotidianamente proviene dal lavoro di altri e, senza gli altri, non sopravviveremmo. Inoltre, le vite di tutti sono interconnesse. Ciò che colpisce le persone in una parte del mondo, colpisce tutti. I problemi globali, come il cambiamento climatico e l’insufficiente attenzione a ciò che Sua Santità il Dalai Lama chiama “igiene emotiva”, riguardano tutti su questo pianeta. Questa è la realtà. Perciò, un approccio olistico alla risoluzione dei problemi, basato sulla sollecitudine compassionevole al benessere di tutti, è l’unico modo realistico per andare avanti nel portare la felicità e il benessere che tutti desideriamo. Questi punti e questo approccio non sono esclusivamente buddisti, ma come sottolinea Sua Santità il Dalai Lama, sono basati sul buon senso e i valori universali.

Decostruire le False Apparenze

Ma passiamo ora all’approccio distintamente buddista per decostruire le apparenze ingannevoli della falsa realtà che, quando ci crediamo, causano a noi e agli altri problemi e sofferenza.

In realtà, la questione delle false apparenze e delle false realtà è stratificata e abbastanza complessa. Il buddismo analizza la questione innanzitutto classificando i vari tipi di false apparenze che potremmo erroneamente credere corrispondano alla realtà. Il principio alla base di questo approccio è che non è possibile risolvere alcun problema senza prima identificare e comprendere il problema.

In generale, alcune false realtà sono basate su apparenze distorte o ingannevoli di ciò che esiste, mentre altre sono pure proiezioni di fantasia. Alcune false apparenze sono sensoriali, e quindi vengono percepite non concettualmente, mentre altre sono puramente concettuali. Alcune sorgono in base all’indottrinamento da fonti di disinformazione fuorvianti, mentre altre sorgono automaticamente, come le distorsioni derivanti dalla rabbia abituale. Esaminiamo alcune di queste distorsioni.

Decostruire le Apparenze Sensoriali di una Falsa Realtà

Le false apparenze sensoriali possono sorgere da quattro diverse fonti: il loro affidamento, il loro oggetto, la situazione in cui si verificano e la condizione immediata della mente che le proietta:

  1. L’affidamento di una falsa apparenza sensoriale è l’equipaggiamento cognitivo attraverso il quale essa sorge e viene percepita. La falsa apparenza sensoriale può essere una distorsione di ciò che esiste. Per esempio, a causa dell’astigmatismo, possiamo vedere apparenze sfocate, e a causa di un udito difettoso, possiamo sentire suoni indistinti di persone che parlano chiaramente. Queste false apparenze sensoriali possono anche essere di qualcosa che non esiste. Per esempio, dopo un’amputazione, possiamo ancora sentire la sensazione di un arto fantasma o qualche sensazione in una protesi.
  2. Le false apparenze derivanti dall’oggetto includono illusioni ottiche di modelli di colore e luce che confondono il cervello, nonché cose come una torcia che vortica rapidamente che appare come un cerchio di luce.
  3. Le false apparenze derivanti da situazioni possono essere dovute a circostanze esterne come la nebbia o il buio, o possono essere dovute alle circostanze di chi le percepisce, come essere su un treno in movimento e vedere oggetti esterni che sembrano muoversi all’indietro.
  4. Le false apparenze che derivano dalla condizione immediata della mente possono essere allucinazioni causate da febbre, droghe o paura.

Il metodo buddista per provare che queste false apparenze sensoriali non corrispondono alla realtà è quello di basarsi sul fatto che esse sono contraddette dalla cognizione sensoriale valida di coloro che non sono soggetti a tali cause di inganno. Quando ci mettiamo gli occhiali, non vediamo più una macchia. Quando il treno si ferma, non vediamo più gli oggetti fuori dal finestrino che si muovono all’indietro. Inoltre, come per il metodo scientifico, la corretta percezione della realtà deve essere corroborata e verificata dall’osservazione ripetuta di molte persone, non solo noi stessi e non una volta sola.

Vacuità 

Il buddismo parla molto di voidness, solitamente tradotto come “vuoto”. La vacuità si riferisce a una totale assenza di qualcosa, cioè la totale assenza di qualsiasi cosa che corrisponda a queste false apparenze che le nostre menti creano. Le cose esistono, ma non esistono in nessuna delle false maniere in cui la nostra mente le fa apparire.

Per esempio, un albero fuori dal nostro treno in movimento esiste, ma un albero che ci appare come muoversi all’indietro non corrisponde a niente di reale. Non esistono alberi che si muovono all’indietro; ma questo non significa che non esistano gli alberi. Pertanto, la vacuità non è una visione di nichilismo; non nega tutto. Non nega nemmeno il fatto che queste false apparenze sorgano nella mente delle persone e che le persone ne sperimentino la conoscenza e rispondano in base a ciò che sperimentano. La vacuità si limita a confutare ciò che è impossibile – cioè una realtà effettiva che corrisponda alle false e ingannevoli apparenze che la nostra mente crea.

Decostruire le Apparenze Concettuali di una Falsa Realtà

Per decostruire e correggere le apparenze concettuali di una falsa realtà, il buddismo impiega una metodologia simile a quella usata per decostruire le false apparenze sensoriali, non concettuali. Se ciò a cui corrispondono tali apparenze si scopre essere contraddetto da una cognizione valida attraverso l’osservazione o la logica, le apparenze sono di una realtà falsa. Queste false apparenze variano da grossolane a estremamente sottili e devono essere decostruite strato per strato, come quando si sbuccia una cipolla. Ma prima, dobbiamo comprendere cosa sia una cognizione concettuale.

L’Esempio di un Amico

Una cognizione concettuale è esclusivamente mentale e avviene per mezzo di una categoria. Per esempio, abbiamo la categoria concettuale di “un amico”, con una definizione da dizionario di cosa sia un amico o forse una nostra variazione su quella definizione. In termini occidentali, diremmo che abbiamo un’ “idea” di ciò che è un amico e, in realtà, “un’idea fissa”. Se ci chiedessero di pensare ad un amico, potremmo rappresentare quella categoria con un’immagine mentale, come un ologramma mentale, di qualcuno che corrisponde a quella descrizione – un buon amico ideale. L’ologramma mentale potrebbe non essere un’immagine mentale di un amico specifico che abbiamo, e potrebbe anche non essere una chiara immagine mentale, ma più come una sensazione emotiva, o anche solo la rappresentazione mentale del suono della parola “amico”.

Vediamo come avviene la cognizione attraverso tale concetto di amico. Quando incontriamo qualcuno che consideriamo un amico e sperimentiamo che fa o dice qualcosa di indesiderato, come non fare ciò che gli abbiamo chiesto di fare, lo sperimentiamo con infelicità e forse ci arrabbiamo con lui. Spinti da quella rabbia, possiamo rimproverarli con parole dure. Se analizziamo come è sorta la nostra risposta, è perché abbiamo conosciuto il nostro amico concettualmente attraverso la categoria che abbiamo di un amico e cosa un buon amico dovrebbe essere e dovrebbe fare. Poiché in questo momento non rientra in quella categoria e quindi non soddisfa le nostre aspettative, rispondiamo con infelicità e fastidio. Le cattive abitudini allora prendono il sopravvento e diciamo impulsivamente cose di cui potremmo pentirci in seguito.

Per superare o evitare questa risposta compulsiva, dobbiamo comprendere che anche se questa persona è un amico, la nostra immagine mentale di un amico ideale – qualcuno che soddisfi sempre le nostre aspettative che, in effetti, si basa su come definiamo un “amico” – non corrisponde a nessuno di reale. Con questa constatazione in mente, possiamo decostruire la situazione a molti livelli e quindi evitare di arrabbiarci o persino rimanere delusi col nostro amico; o almeno possiamo temperare e superare rapidamente la nostra rabbia se è già sorta. Per fare ciò, dobbiamo analizzare le false apparenze che la nostra mente ha costruito e scoprire la realtà di ciò che è accaduto.

Innanzitutto, al livello più elementare, dobbiamo indagare se le nostre informazioni sono corrette o meno. In effetti, non hanno fatto ciò che gli abbiamo chiesto di fare, o semplicemente non ce l’hanno riferito, o semplicemente non abbiamo notato o riconosciuto ciò che hanno fatto. Per rettificare qualsiasi malinteso e false accuse, dobbiamo esaminare le prove. Questa è la stessa metodologia che viene usata nei processi legali per evitare false accuse.

Se, in effetti, non hanno fatto quel che abbiamo chiesto loro di fare dobbiamo poi, esaminarne le ragioni. L’aspetto concettuale che la nostra mente ha creato è che non sono un buon amico, perché nella nostra immaginazione sembra che l’essere un buon amico sia stabilito dalla caratteristica che definisce un buon amico che si trova dalla parte della persona. Qui, una delle caratteristiche distintive di un buon amico che abbiamo inventato è essere qualcuno che è sempre lì per noi e fa sempre quello che gli chiediamo di fare. Ma è questa una caratteristica ragionevole?

Quando analizziamo, ci rendiamo conto che il comportamento delle persone nasce in dipendenza da cause e condizioni. Non è governato da qualche caratteristica distintiva che si trova dentro di loro e che determina il loro comportamento indipendentemente dalle circostanze. Questo è impossibile; altrimenti tutti, compresi noi stessi, saremmo sempre coerenti nel nostro comportamento, indipendentemente dalle circostanze. Per esempio, arriveremmo sempre in orario anche quando siamo rimasti intrappolati in un ingorgo a causa di un incidente sulla strada. L’evidenza, anche sulla base solo della nostra esperienza personale, contraddice chiaramente l’aspettativa che il comportamento di chiunque sia sempre lo stesso e che rimanga inalterato da cause e condizioni.

Per arrivare alla realtà della situazione e decostruire ogni falsa realtà che la nostra mente potrebbe aver creato – come che non ha fatto quello che gli abbiamo chiesto perché non gli piacciamo e non è più nostro amico – allora dovremo semplicemente chiedere al nostro amico perché non ha fatto ciò che gli abbiamo chiesto. Ci potrebbe essere una grande varietà di circostanze che potrebbe averli indotti a non assecondare i nostri desideri. Potrebbero spiegare che erano troppo occupati o troppo stressati, o che erano saltate fuori altre cose molto più urgenti, o che erano preoccupati per qualcosa, o che erano malati, che si erano semplicemente dimenticati, o che per pigrizia avevano continuato a rimandare. Potrebbe anche essere che ritenevano, a ragione o a torto, che ciò che chiedevamo fosse irragionevole, e così, essendo infastiditi da noi, semplicemente ignoravano la nostra richiesta. Analizzando più a fondo, scopriremmo che ognuno di questi motivi era esso stesso sorto per molte cause e circostanze. Per esempio, erano troppo occupati e stressati perché nel loro lavoro era saltato fuori molto lavoro urgente e avevano una scadenza da rispettare.

La realtà, allora, di ciò che è successo è che il loro non fare ciò che abbiamo chiesto loro di fare era ciò che il buddismo chiama “un evento che nasce in modo dipendente”. È sorto in dipendenza da molte cause e condizioni, e non a causa di qualche caratteristica distintiva in loro, che con il suo stesso potere, li ha resi “un cattivo amico”. Inoltre, non era perché erano intrinsecamente autocostituiti come un “cattivo amico” che non si adattavano al nostro concetto e idea di ciò che un buon amico dovrebbe essere. Era perché il nostro concetto di buon amico si basava su una caratteristica definitoria irragionevole e, a causa di ciò, nessuno rientra in quella categoria. L’immagine mentale che abbiamo di un buon amico non corrisponde a nessuno di reale.

L’assenza di qualcosa che corrisponda a questa falsa apparenza è il vuoto dell’apparenza. Quando ci concentriamo su quel vuoto – sul fatto che non esiste una cosa simile - la falsa apparenza non sorge più. Anche quando rivediamo il nostro amico, sebbene quel vuoto non appare più, dobbiamo rimanerne consapevoli mentre lo guardiamo con la comprensione della natura del sorgere interdipendente del suo comportamento. In questo modo, non ci arrabbiamo più o non rimaniamo arrabbiati e affrontiamo la situazione con calma, razionalità e compassione.

Se non sono stati in grado di fare ciò che abbiamo chiesto a causa di qualche situazione urgente o stressante nel loro lavoro o nella loro vita personale, rispondiamo con empatia e compassione, il desiderio che  siano liberi da quella difficoltà. Se erano solo sotto il controllo della pigrizia, anche proviamo compassione, augurando che la superino, e offrendo consigli su come farlo. Se hanno trovato la nostra richiesta irragionevole, esaminiamo il perché. Se la nostra richiesta era, infatti, irragionevole o appariva come una pretesa, chiediamo scusa e ci adoperiamo per smettere di fare richieste o pretese irragionevoli. Se l’hanno trovata irragionevole a causa della loro definizione di ciò che è ragionevole aspettarsi da un amico rispettiamo il loro punto di vista e ne discutiamo con loro per trovare forse una definizione di compromesso. Tutti questi metodi sono condivisi dai mediatori per la risoluzione dei conflitti in generale.

L’Esempio di Essere Qualcuno con il Cancro 

La precedente analisi delle false apparenze concettuali ci aiuta a capire l’esempio citato prima di immaginare e credere che siamo gli unici a sperimentare qualche difficoltà nella vita, per esempio il cancro. In questo esempio, abbiamo il concetto di qualcuno con il cancro e, all’inizio, non vogliamo nemmeno riconoscere che rientriamo in questa categoria. Siamo in fase di negazione. Ma quando abbiamo un tumore, èchiaramente una falsa realtà che siamo qualcuno che non rientra nella categoria di una persona con il cancro.

Ma supponiamo di riconoscere finalmente che rientriamo in questa categoria. Se creiamo la falsa realtà che siamo l’unico esempio di tale persona, allora anche se intellettualmente sappiamo che questa realtà non è vera, potremmo ancora aderire ad essa emotivamente e, di conseguenza, sentirci isolati e crogiolarci nell’autocommiserazione e nella depressione. Ma quando espandiamo la nostra consapevolezza e includiamo tutti gli altri che rientrano in questa categoria, sia prendendo parte a un gruppo di sostegno per il cancro, che attraverso la nostra stessa analisi, ci permettiamo di respingere questa falsa realtà che abbiamo creato. Se continuiamo a sviluppare compassione per tutti gli altri malati di cancro, diventiamo capaci di dissipare anche la nostra autocommiserazione e depressione.

Creiamo un’ulteriore falsa realtà se aggiungiamo alla categoria di qualcuno con il cancro la caratteristica di qualcuno che è inevitabilmente condannato a morire a causa della malattia. Credere che noi e tutti gli altri con il cancro rientrino in questa categoria aggiunge un elemento emotivo di paura alla nostra esperienza della malattia. Possiamo negare questa inappropriata caratteristica definitoria esaminando le statistiche riguardanti i sopravvissuti al cancro. L’evidenza verificabile contraddice la nostra errata convinzione. 

Due Aspetti delle Apparenze e due Aspetti della Realtà Effettiva

Il buddismo va ancora più in profondità nella sua analisi delle false realtà e della realtà effettiva. Riguardo a questo problema, il buddismo asserisce due aspetti di ciascuna di queste realtà. C’è l’apparenza di ciò che qualcosa è e la realta’ effettiva di ciò che è. Poi c’è l’apparenza di come si stabilisce l’esistenza di qualcosa – sia come cosa è, che come oggetto validamene conoscibile in generale - e la realtà effettiva di come si stabilisce. Questi due aspetti di ciascuna delle due realtà sono inseparabili; appaiono sempre insieme.

Inoltre, entrambi gli aspetti del mondo delle apparenze possono essere esatti, nel qual caso essi corrispondono ai due aspetti inseparabili della realtà effettiva; oppure possono essere inesatti, nel qual caso non corrispondono. Per esempio, se abbiamo una malattia, può essere esatto che si tratta di cancro e inaccurato che si tratta semplicemente di un’infezione. Il modo in cui la sua esistenza è stata stabilita come un cancro o come un’infezione è esatto se è stato stabilito e corroborato come se fosse sorto in dipendenza da cause e condizioni e sulla convenzione che tali e tali sintomi sono le caratteristiche che definiscono un tumore o un’infezione. Un modo impreciso sarebbe da qualcosa di riscontrabile sul lato della malattia che per il suo proprio potere lo rende un cancro o un’infezione, indipendentemente da qualsiasi altro fattore. Questo accade spesso con gli ipocondriaci che credono di essere ammalati e di avere il cancro semplicemente perché lo pensano.

Decostruire la Falsa Apparenza di un Sé 

Ma guardiamo un esempio piú profondo, piú tipicamente buddista, cioè l’esempio del sé, ciò che chiamiamo “io”. Secondo il buddismo, esiste una cosa come il sé, “io”. Quando sono malato, sembra che sia “io” ad essere malato, che è un’apparenza esatta di chi è malato. Non è “tu” che sei malato, o nessuno che è malato. Pensare in uno di questi due modi è credere in una realtà falsa. Ma cos’è questo sé, questa persona chiamata “io”, e come si stabilisce la sua esistenza?

Secondo il buddismo, il sé è un fenomeno individuale in continuo cambiamento, che non è né una forma di fenomeno fisico né un modo di essere consapevoli di qualcosa. In tal senso, è come l’età. A volte viene chiamato “fenomeno di imputazione”. Ciò significa che né un sé né l’età possono esistere da soli, ma è il tipo di fenomeno che è sempre legato a e quindi dipendente da qualcos’altro. L’età è sempre legata ad un oggetto; deve essere l’età di qualcosa. Allo stesso modo, un sé è sempre legato ad un continuum individuale e mutevole di un corpo vivente e di una mente che funziona sulla base fisica di quel corpo. In altre parole, il sé è la persona individuale, sperimentata soggettivamente come “io”, che esiste in modo dipendente rispetto a quel continuum come base.

Il buddismo afferma inoltre che ogni sé individuale continua da una vita all’altra, senza inizio e senza fine, cambiando la base grossolana a cui è legato in ogni vita. Ma anche tra una vita e l’altra, è legato ad una base – cioè la coscienza estremamente sottile e l’energia che sostiene la vita.

Il fatto che la coscienza estremamente sottile, l’energia vitale estremamente sottile e il sé non hanno né inizio né fine è la conclusione logica quando si analizzano causa ed effetto. Qualcosa che cambia in ogni momento non può nascere dal nulla, senza causa, e qualsiasi causa da cui sorga deve anch’essa cambiare in ogni momento per darle origine. Ciò significa che qualsiasi causa deve essere influenzata da condizioni precedenti per dar origine a qualcosa. Inoltre, solo qualcosa della stessa categoria di fenomeni può trasformarsi e dare origine, in sequenza, a qualcos’altro della stessa categoria. La rabbia non può trasformarsi in un germoglio, solo un seme può. Così, solo un momento precedente di coscienza più sottile, di energia vitale più sottile e un sé individuale che è legato ad essi può dar origine al primo momento di essi in una vita successiva.

Questi sono alcuni dei punti logici che sorgono nell’analisi buddista della creazione di non solo della materia e dell’ energia, ma anche della coscienza e dei sé, da parte di un Dio onnipotente o di un Big Bang. Un inizio assoluto dal niente, di qualsiasi cosa che cambia di momento in momento contraddice la logica. L’affermazione che come ciò sia possibile è un mistero al di là della nostra comprensione non è compatibile coi principi buddisti.

Quando analizziamo ulteriormente, vediamo che il sé non è né identico alla sua base né totalmente separato e non collegato alla sua base. Crediamo ad una falsa realtà quando ci identifichiamo, per esempio, con il nostro corpo sano e giovane quando in realtà siamo vecchi e malati di cancro, o quando rifiutiamo di accettare che il cancro che ci viene diagnosticato non sta succedendo a “me”.

Inoltre, non essendo una forma di fenomeno fisico, il sé non ha alcun aspetto proprio, e perciò non può essere conosciuto senza che qualche aspetto della sua base appaia e sia conosciuto simultaneamente. Non posso vedermi senza vedere qualche parte del mio corpo; non posso pensare a me stesso senza almeno pensare al suono mentale della parola “io”. Non posso solo “conoscermi” indipendentemente dal sapere qualcosa di me stesso. Ma, che io mi percepisca o pensi a me stesso o meno, non smetto mai di esistere. Il mio percepirmi o pensarmi non mi crea.

Come facciamo a stabilire che esista una cosa come un sé, una persona individuale chiamata “io”? Se sezioniamo il corpo, il cervello, o la coscienza stessa, non possiamo trovare un sé. Non possiamo neanche trovare una caratteristica distintiva di un sé, né nel sé stesso né in alcuna parte della sua base, che da parte sua sia la caratteristica distintiva di un sé, indipendentemente dal fatto che venga designata come la caratteristica distintiva di un se’.

Etichettatura mentale

Analizziamo questo più da vicino. Tutti noi abbiamo il concetto di un sé, che designiamo con la parola “io”. Come categoria, questo concetto sorge automaticamente ogni qualvolta pensiamo un qualsiasi pensiero in cui esiste la rappresentazione mentale del suono della parola “io” o “me”, come quando vediamo una serie di foto che attraversano la nostra vita e pensiamo di ognuna di esse: “Quello sono io”. Ciascuno di questi suoni mentali “me” è una rappresentazione concettuale di quella categoria “me”.

Come abbiamo detto prima, tutte le apparenze hanno due aspetti: ciò che sembrano essere e come sembrano essere stabilite come esistenti. Ricordate, entrambi gli aspetti sono inseparabili. Quando pensiamo a tutte quelle foto come “quello sono io”, può essere o non essere esatto che ogni “io” pensato verbalmente si riferisca effettivamente a me e non a mio fratello che mi somigliava molto quando eravamo piccoli. Ma che dire di come questi “io” sono stabiliti come esistenti?

Al livello più grossolano, sembra come se il ”me” che appare in ognuna di quelle foto sia sempre stato lo stesso “me” che è stato lì per tutta la mia vita senza essere mai stato influenzato da ciò che è successo, indipendentemente da qualsiasi parte o fase della vita, e andrà avanti così per il resto della durata di questa vita e poi sempre dopo, indipendentemente da un corpo o una mente. Ma quando analizziamo, ci rendiamo conto che niente di tutto ciò ha senso. Forse ci hanno insegnato che esistiamo così, ma questo non corrisponde a realtà. Non esiste un sé che sia stabilito come esistente in questo modo. C’è il vuoto di un tale sé.

Ad un livello più sottile, che sorge automaticamente, sembra, quando penso semplicemente “io” dopo aver guardato queste foto, che posso pensare “io” senza pensare simultaneamente a qualche base per l’ ”io”, anche se è soltanto il suono mentale della parola “io”. Un sé che può apparire ed essere pensato tutto da solo è impossibile. Non esiste niente del genere.

Ad un livello ancora più sottile, le nostre cognizioni concettuali quando guardiamo queste vecchie foto etichettano mentalmente la categoria “io”, rappresentata dal suono mentale “me”, sulla base di ciascuna di esse. Se, infatti, tutte queste foto sono effettivamente di noi, e quindi il nostro etichettarle mentalmente tutte come foto di “me” corrisponde alla realtà, allora cosa stabilisce che sono tutte “me”? Esse sembrano essere “me”, ma come facciamo a provarlo? 

Quando analizziamo ogni foto, non riusciamo trovare nessuna caratteristica definitoria immutabile presente in ognuna di esse che per suo stesso potere stabilisca o provi che la persona nella foto sia “io”. Ogni foto ha un aspetto diverso. Noi designiamo ognuna di esse ugualmente come “io”, ma non c’è alcuna entità immutabile “io” che sia stata fotografata e che corrisponda ugualmente ad ognuno di questi suoni mentali “io”. Allora, chi è stato fotografato in ognuna di esse? Convenzionalmente dovremmo rispondere: “io”.

Per quanto riguarda ciò che stabilisce che sono tutte foto di “me”, è stabilito o provato semplicemente dal potere del loro essere mentalmente etichettate e designate come “me” e non contraddicendo ciò che possono confermare coloro che ci hanno conosciuto durante la nostra vita. La persona “io” è semplicemente ciò a cui la categoria e la parola “io” si riferiscono sulla base di tutte queste foto, senza che ci sia un “io” individuabile dietro ognuna di esse che corrisponda a ciò che l’essere chiamate tutte “io” sembra suggerire. La totale assenza di un’entità individuabile con una caratteristica definibile che sostenga le cognizioni di un sé, persino quelle sensoriali non concettuali, è la  visione più profonda della vacuità.

Ma la vacuità è solo un aspetto della realtà, perché noi tutti esistiamo e le leggi di causa ed effetto operano. L’esistenza convenzionale di tutto ciò che è validamente conoscibile, quindi, sorge in dipendenza dalle cause, dalle condizioni, dalle parti e da ciò a cui si riferiscono i concetti e le parole per esse. Con questa analisi della realtà falsa e vera, il buddismo non ha bisogno di includere il ruolo di un Dio creatore.

Riassunto 

In sintesi, l’approccio buddista per differenziare la realtà dalla fantasia è di far affidamento all’analisi con logica e ragione. La via alla felicità e al benessere di tutti dipende dal fatto che ognuno veda e accetti la realtà e, nel lavorare insieme, trovi e metta in pratica metodi realistici per risolvere i problemi universali che ci affliggono tutti. Grazie.

Top