Il livello iniziale della meditazione mahamudra

La definizione di mente: considerazioni generali

Dopo aver discusso i preliminari, passiamo ora alla pratica vera e propria di mahamudra – la meditazione sulla natura della mente. Quando solleviamo questo tema dobbiamo prima esplorare cosa intendiamo per “mente” perché, se ci viene chiesto di concentrarci e meditare sulla natura della mente o sulla mente stessa, potremmo trovare non molto ovvio ciò che intendiamo fare. Pertanto dobbiamo esaminare la definizione di “mente” nel Buddhismo.

Se guardiamo la definizione classica scopriamo che il Buddhismo parla di qualcosa di molto diverso da ciò che intendiamo con qualsiasi delle nostre corrispondenti parole occidentali. Anche nelle lingue occidentali non c'è accordo sul significato di “mente”; solo se consideriamo l’inglese e il tedesco, c'è una grande differenza tra la parola inglese “mind” e quella tedesca “Geist”. “Geist” ha anche la connotazione di “spirito” che non è presente nel concetto inglese di “mente”. Le lingue buddhiste asiatiche classiche, il sanscrito e il tibetano, parlano di qualcosa di molto diverso da entrambe e la differenza tra ciò che chiamano “mente” e ciò a cui si riferiscono i corrispondenti termini occidentali è molto maggiore di quello tra i referenti dei termini equivalenti inglese e tedesco. Il problema di come tradurre il concetto buddhista in una parola occidentale è, ovviamente, molto impegnativo.

Nelle lingue occidentali distinguiamo chiaramente tra mente e cuore, o intelletto e sentimenti. Pensiamo al lato intellettuale e razionale come “mente” e al lato emotivo e intuitivo come “cuore”, qualcosa di completamente diverso dalla mente. Molti occidentali direbbero che sebbene un cane abbia emozioni, non ha mente. Nel Buddhismo, tuttavia, non esiste un divario così ampio tra intelletto ed emozioni, le funzioni di entrambi sono incorporate in un'unica parola – “citta” in sanscrito o “sem” in tibetano – e includiamo nell'ambito del suo significato anche tutte le percezioni sensoriali, come la vista, l'udito, l'olfatto e così via. Così, anche se “citta” e “sem” sono entrambe tradotte con la parola “mente”, “mind” in inglese o “Geist” in tedesco, i termini sanscrito e tibetano racchiudono una portata di significato molto più ampia di quella della loro traduzione italiana, inglese o tedesca.

Il problema non si limita alle lingue occidentali, anche il mongolo distingue tra il lato intellettuale e quello emotivo ma, a differenza dell'inglese, nei testi buddhisti usa il termine “setgil” per il secondo. Anche i traduttori cinesi scelsero una parola che significa cuore, “xin”, che anche i giapponesi accettarono e usarono. La questione di cosa sia la mente fa emergere molte differenze fondamentali nelle visioni culturali del mondo.

Se vogliamo trovare un sinonimo migliore per i termini indo-tibetani nelle lingue europee, forse l'equivalente più vicino è la parola "esperienza", sebbene anche questa parola non sia del tutto precisa. Non includiamo qui nel suo significato l'esperienza nel senso di familiarità e competenza attraverso la ripetizione, come in “Questo medico ha molta esperienza”. Inoltre, nelle lingue occidentali, sperimentare qualcosa implica spesso provare emozioni al riguardo, sia positive che negative. Sentiamo di non aver realmente sperimentato qualcosa di profondo a meno che non ne siamo stati consapevolmente commossi a livello emotivo. Anche questo non è incluso nella nozione buddhista, né vi è alcuna connotazione di valutazione come in “Ho imparato molto da quell'esperienza”. Nel contesto buddhista l’esperienza è ciò che ci accade, qualunque cosa.

Nella discussione buddhista sulla mente, quindi, non si parla di una sorta di “cosa” o di un organo che si trova nella nostra testa, come il cervello, né di uno spazio, come suggerisce l’espressione occidentale “Immagina nella tua mente questo o quello” – come se la mente fosse un palcoscenico o una stanza nella nostra testa attraverso la quale sfilano i pensieri o in cui sono immagazzinati i ricordi. Si intende piuttosto una sorta di evento che avviene a livello del cervello e del sistema nervoso.

Cosa succede quando vediamo, sentiamo o pensiamo qualcosa? Anche se possiamo descrivere l'evento dal punto di vista biochimico o elettrochimico, possiamo anche descriverlo soggettivamente. Quest'ultimo è ciò che nel Buddhismo si intende con “mente”. Quando vediamo, ascoltiamo, pensiamo o sentiamo emotivamente qualcosa, c'è un'esperienza momento dopo momento, è ciò che accade. Inoltre, l'esperienza ha sempre dei contenuti, in altre parole, la mente ha sempre un oggetto. Infatti, “mente” in sanscrito e tibetano è anche chiamata “ciò che ha un oggetto”.

La non dualità di soggetto e oggetto

Buddha insegnò la non dualità di ciò che ha un oggetto e il suo oggetto, solitamente tradotta come “non dualità di soggetto e oggetto”. Dobbiamo comprendere correttamente questo punto altrimenti potremmo erroneamente pensare che Buddha si sia contraddetto quando ha insegnato che la mente ha sempre un oggetto. Potremmo pensare che ciò implichi che, poiché i due sono diversi, sono duali. Se ci arrabbiamo con il tavolo, la non dualità di soggetto e oggetto, tuttavia, non significa che la mia rabbia sia il tavolo. La non dualità non rende la mente e i suoi oggetti totalmente identici – una sola e stessa cosa.

L'esperienza ha sempre dei contenuti, non possiamo avere un’esperienza senza sperimentare qualcosa; un pensiero non esiste senza un pensare un pensiero e nessuno può pensare senza pensare un pensiero. Non duale, quindi, significa che in ogni momento queste due cose – la mente e il suo oggetto, o l’esperienza e i suoi contenuti – si uniscono sempre in un’unica entità. In un linguaggio semplice e quotidiano, possiamo dire che sono sempre riuniti nello stesso pacchetto, non può esserci l’uno senza l’altro. Pertanto nel Buddhismo “mente” si riferisce sempre all'esperienza con contenuti.

La chiarezza: il sorgere dei contenuti di un'esperienza

La definizione buddhista classica di mente o esperienza contiene tre parole: “chiarezza”, “consapevolezza” e “meramente” e di solito è resa con “mera chiarezza e consapevolezza”. Poiché ogni parola della definizione è significativa, esploriamo attentamente ciascun significato; consideriamo innanzitutto il termine “chiarezza”.

Il punto più importante da notare è che questa parola deve essere intesa come un sostantivo verbale con un oggetto, non come un sostantivo quantitativo che si riferisce a qualcosa che può essere misurato. La chiarezza non è una sorta di luce nella nostra testa con intensità variabile ma è piuttosto l'azione, o il verificarsi dell'azione, dell’essere chiari in relazione a qualcosa o del rendere chiaro qualcosa. Mettere in chiaro qualcosa, però, non implica un atto cosciente di volontà, semplicemente accade. Inoltre, anche la stessa parola “chiarezza” è fuorviante. Esaminiamone anche il significato.

In tibetano il termine “chiarezza” significa “sorgere” – la stessa parola usata per il sorgere del sole o l'alba. “Essere chiari in relazione a qualcosa” o “rendere chiaro qualcosa” quindi si riferiscono effettivamente al “sorgere di qualcosa” o all'evento del “far sorgere qualcosa” anche se, ancora una volta, non vi è alcuna implicazione di passività o mancanza di responsabilità da una parte, o volontà cosciente dall'altra. L'espressione “dare origine a qualcosa” forse minimizza la connotazione di questi due estremi.

Cosa accade quando sperimentiamo qualcosa? C'è il dare origine a qualcosa. Per comodità diciamo “la mente dà origine a qualcosa”. È preferibile dire “qualcosa sorge” ma ciò pone troppa enfasi su ciò che accade dal lato dell'oggetto, mentre l'accento deve essere più sul lato del soggetto. La frase “la mente dà origine a qualcosa”, tuttavia, ha anche i suoi difetti, è solo un modo conveniente di esprimersi. La mente non è un'entità o una “cosa”, quindi non c'è nulla che sia effettivamente un agente che dà origine a qualcosa. La parola “mente” è solo un termine mentalmente attribuito al verificarsi dell’evento soggettivo del far sorgere qualcosa.

Quando sperimentiamo qualcosa la mente dà origine a una vista, un suono, un odore, un gusto, una sensazione tattile o corporea, un pensiero, un sentimento, un'emozione o un sogno. Anche quando dormiamo senza sogni la mente dà origine all'oscurità. Soggettivamente c'è sempre il sorgere di qualcosa, ciò che emerge però non deve necessariamente apparire direttamente. Quando sentiamo che la signora grassa non mangia durante il giorno, sappiamo che allora mangerà di notte, perché è grassa. La nostra mente, tuttavia, non dà origine alla vista di lei che mangia di notte, anche se sorge la comprensione di questo fatto.

Il principale difetto dell'uso della parola “chiarezza” in questo contesto è che implica che tutto ciò che è chiaro, se visivo, è a fuoco o se concettuale, è compreso. Ma non è necessariamente così. Quando ci togliamo gli occhiali e guardiamo qualcuno la nostra mente si confonde, e quando non capiamo cosa dice qualcuno crea confusione. In entrambi i casi c’è il sorgere di qualcosa. Convenzionalmente, sarebbe imbarazzante dire che una sfocatura o una confusione sono chiare.

La consapevolezza: impegnarsi nei contenuti di un’esperienza

Il sorgere di immagini avviene anche attraverso uno specchio, una lastra fotografica o lo schermo di un computer. Pertanto, per differenziare la mente da uno specchio, alla definizione viene aggiunta la parola successiva, “consapevolezza”. Ancora una volta questo è un sostantivo verbale con un oggetto, non quantitativo. Si tratta di “essere consapevoli di qualcosa” o “fare di qualcosa un oggetto di consapevolezza”, ma non necessariamente come atto cosciente di volontà.

Ma anche il termine italiano “consapevolezza” è fuorviante, in tibetano è spiegato come impegno o relazione con un oggetto. Tuttavia, a differenza delle parole italiane “essere impegnati” o “relazione”, il tibetano non ha alcuna connotazione di legame emotivo. Anche l’essere distaccati rispetto a qualcosa è una forma di impegno o un modo di relazionarsi con essa. La parola tibetana qui tradotta come “impegno” o “relazione” significa letteralmente “entrare in qualcosa”. Connota il fare qualcosa di cognitivo con un oggetto per esempio vederlo, ascoltarlo, pensarlo o sentirlo. Questo è ciò che accade quando sperimentiamo qualcosa: c'è il sorgere di qualcosa e l'impegno in esso in modo cognitivo. C'è il sorgere della vista e il vederla, il sorgere di un pensiero e il pensarlo, e così via. Per facilità di espressione diremmo, con tutte le qualifiche menzionate sopra, che la mente fa sorgere qualcosa e lo percepisce.

La parola italiana “consapevolezza” è qui fuorviante nel senso che implica che comprendiamo qualcosa e ne siamo consapevoli, ma non è necessariamente così. Non capire qualcosa è una forma di essere impegnati in un oggetto tanto quanto capirlo. Che siamo consci o meno di qualcosa, possiamo comunque sperimentarlo. Ad esempio, possiamo parlare con qualcuno con ostilità inconscia e la nostra ostilità esiste comunque, la sperimentiamo comunque e produce un effetto. Pertanto è molto più ampia la portata del concetto buddhista solitamente tradotto come “consapevolezza” di quella della parola italiana equivalente.

In ogni momento, quindi, c'è un sorgere e un impegno cognitivo in qualcosa. Questi due però non si verificano uno dopo l'altro. Non è vero che prima nasce un pensiero e poi lo pensiamo. Il processo non è costituito da due eventi che accadono consecutivamente, ma da due funzioni che accadono simultaneamente. La mente dà origine a un pensiero e lo pensa simultaneamente. Questo avviene in ogni momento per ogni essere dotato di mente e tale è l'esperienza non solo della vita, ma anche della morte.

Meramente

La terza parola della definizione, "meramente", stabilisce il minimo fondamentale che deve verificarsi affinché ci sia esperienza. La mente deve semplicemente dare origine a qualcosa e impegnarsi cognitivamente in esso in qualche modo. "Meramente", quindi, esclude la necessità che ci sia una forza significativa di attenzione ai contenuti di un'esperienza – nella terminologia occidentale, coscienza di essi. Esclude inoltre la necessità che vi sia un livello significativo di comprensione, emozione o valutazione. Un’esperienza è semplicemente un evento cognitivo.

Quindi anche il sonno profondo senza sogni è un'esperienza. Non possiamo dire che quando dormiamo senza sogni non abbiamo più una mente, o che la mente non funziona più. Se la mente fosse spenta durante il sonno, come potrebbe mai percepire il suono della sveglia per potersi riaccendere? L'esperienza del sonno profondo, quindi, implica che la mente dà origine a un'oscurità e si impegna in essa nel modo da essere assorbita con solo un'attenzione minima alla percezione sensoriale.

Inoltre, la parola “meramente” esclude anche che ci sia (1) un “io” o “mente” solido e concreto all'interno della nostra testa che sperimenta o controlla l'esperienza come suo agente, (2) un oggetto solido e concreto come contenuto “là fuori” che si sta sperimentando, e (3) una “esperienza” solida e concreta che si sta verificando tra i due. Gli eventi cognitivi semplicemente hanno luogo. Convenzionalmente possiamo dire che “io” sto avendo “l'esperienza” di “questo” o “quello”, e soggettivamente appare così, ma nessuno degli elementi coinvolti può esistere indipendentemente l'uno dall'altro. In altre parole le tre sfere coinvolte in un’esperienza – un soggetto (persona o mente), un contenuto e un'esperienza stessa – sono tutti privi di questo modo di esistere impossibile. “Meramente”, tuttavia, non esclude che l'esperienza avvenga effettivamente e sia sempre individuale. Proprio come Tsongkhapa sottolineò nella sua presentazione della vacuità, dobbiamo stare attenti a non confutare troppo o troppo poco, allo stesso modo dobbiamo essere cauti con la parola “meramente” e non escludere né troppo né troppo poco.

Riassunto della definizione buddhista di mente

In sintesi, la mente nel Buddhismo si riferisce all'esperienza, vale a dire al mero sorgere e all'impegno cognitivo con i contenuti dell'esperienza. La continuità dell'esperienza è conosciuta come flusso mentale o “continuum mentale”. È sempre individuale, ogni momento dell’esperienza segue i momenti di esperienza precedenti secondo le leggi karmiche di causa ed effetto comportamentali. C'è ordine nell'universo e la “mia” esperienza non è mai la “tua” esperienza. Se provo a mangiare, io e non tu sperimenterò successivamente la sensazione fisica di essere pieno. Il Buddhismo non asserisce una mente universale o collettiva.

L’evento incessante, momento dopo momento, del sorgere e dell’impegnarsi che costituisce l’esperienza, quindi, si riferisce al sorgere di una vista e semplicemente al vederla, al sorgere di un suono e semplicemente all’ascoltarlo, al sorgere di un pensiero e semplicemente al pensarlo, il sorgere di un'emozione e semplicemente al sentirla, e così via. Questa è la natura convenzionale della mente: dà origine alle cose e le percepisce. La sua natura più profonda è la sua vacuità, ovvero è priva dell’esistere in qualsiasi modo impossibile, dall'essere essa stessa un'entità fisica fino a coinvolgere un soggetto, un contenuto o un'esperienza solidi e concreti. Una tale mente, quindi, con queste due vere nature – o “due verità” – è l'argomento di cui si occupa la meditazione mahamudra.

La natura della meditazione mahamudra

Per impegnarci correttamente nella meditazione mahamudra sulla natura della mente dobbiamo comprendere chiaramente non solo il significato di mente, ma anche cosa significa meditare su qualcosa. Non intendiamo il meditare su qualcosa come un cuscino, né più astrattamente meditare sulla base di qualcosa. La meditazione mahamudra non è condotta semplicemente sulla base della natura della mente ma è una meditazione focalizzata su quella natura. In tedesco evitiamo questa confusione perché ci sono due diverse preposizioni che possono essere usate con il verbo “meditare”, cioè “uber” e “auf”, mentre in inglese ce n'è solo una “on”, “sulla”.

In generale meditazione significa costruire uno stato mentale o un atteggiamento benefico attraverso una attenta ripetizione. Il tibetano lo glossa con “familiarizzarsi o abituarsi a qualcosa”, mentre la connotazione del termine sanscrito originale è semplicemente “far sì che qualcosa sia”. Esistono due principali varietà di meditazione: quando meditiamo sulla visualizzazione di un Buddha ci concentriamo su un oggetto, quando meditiamo sull’amore invece non ci concentriamo su un oggetto, ma piuttosto rimaniamo concentrati mentre dimoriamo in un certo stato mentale. Possiamo generare consapevolmente uno stato d'animo che prima non c'era, come nel caso dell'amore, oppure concentrarci attentamente rimanendo in uno stato mentale sempre presente. La meditazione sulla natura della mente è un esempio di quest'ultimo caso.

Quando meditiamo sulla natura della mente, quindi, il processo esperienziale momento dopo momento del semplice sorgere e impegnarsi con i contenuti dell'esperienza non è un oggetto statico su cui ci concentriamo come in una visualizzazione di un Buddha, e nemmeno un oggetto in movimento come nella pratica della sadhana tantrica quando visualizziamo una sequenza fluida di immagini mentre recitiamo un testo o dei mantra. Nemmeno ci concentriamo attentamente mentre siamo in uno stato mentale come l’amore che abbiamo creato e generato nel senso dell’aver coltivato quel sentimento, direttamente o attraverso la memoria, su un ragionamento come “tutti gli esseri sono stati mia madre nelle vite precedenti e sono stati gentili con me”. Non dobbiamo generare o fabbricare artificialmente la natura della mente. È sempre così. L'esperienza accade sempre - non dobbiamo crearla.

Pertanto, con la meditazione sulla mente ci concentriamo attentamente su qualcosa che accade continuamente ed è sempre stato così, ma non nel senso di osservarne il processo; anche questo significherebbe trasformare la mente in un oggetto, come una visualizzazione, e si basa sul fraintendimento, conscio o inconscio, di una dualità tra l’osservatore e l'evento che sta accadendo. Piuttosto ci concentriamo con attenzione, ma non con consapevolezza di noi stessi, sull'essere in quel processo – semplicemente facendolo “dritto su e giù”, come direbbe mia madre.

L'analogia della torcia elettrica

Poiché è molto difficile comprendere correttamente cosa dovremmo fare con la meditazione mahamudra, consideriamola in termini di analogia con una torcia elettrica. Se puntiamo una torcia su qualcosa ci sono tre punti su cui possiamo focalizzare l'attenzione: cosa viene illuminato, la persona che tiene la torcia o la torcia stessa. Concentrarsi su ciò che viene illuminato da questa torcia è il modo in cui normalmente viviamo la vita e siamo coinvolti nei contenuti della nostra esperienza. Entriamo nella stanza di nostro figlio, vediamo vestiti e giocattoli sparsi ovunque, ci fissiamo su di loro e gridiamo; ci arrabbiamo così tanto perché siamo intrappolati e bloccati nei contenuti della nostra esperienza del vedere la stanza disordinata; ci concentriamo solo su ciò che la torcia illumina.

Possiamo anche guardare la vita dal punto di vista della persona che tiene in mano la torcia. Con una tale prospettiva ci liberiamo dall’esperienza e, in senso soggettivo, ci sediamo nella parte posteriore della nostra testa e osserviamo semplicemente ciò che sta accadendo. Questo è un pericolo che può insorgere quando pratichiamo lo stile vipassana della meditazione consapevole in modo sbilanciato. Per decostruire la nostra esperienza e diventare consapevoli dell'impermanenza momento per momento o cambiamento, nella meditazione vipassana notiamo – a volte anche con parole mentali – che ora sta sorgendo questa sensazione, ora sta passando, ora ne sorge un’altra e così via. Il semplice fatto di notare "Ora vedo questo e ora vedo quello", tuttavia, potrebbe facilmente degenerare fino all'estremo di osservare semplicemente che la stanza di nostro figlio è sporca senza dirgli di riordinarla, né di pulirla noi stessi.

Con la meditazione mahamudra non ci concentriamo né su ciò che la torcia illumina né sull'essere la persona che tiene la torcia, guardiamo dal punto di vista della torcia stessa. In un certo senso, ci concentriamo sull'essere la torcia. Ma cosa significa? Non si tratta semplicemente di osservare il processo che dà origine all’apparenza o al verificarsi di qualcosa: semplicemente lo fai. Non si tratta di “farlo”, tuttavia, in modo attivo e volontario, né semplicemente di lasciare che accada passivamente, come se potessimo controllarlo ma ci astenessimo dal farlo. Non esiste alcun fattore di controllo, nemmeno nel senso che il processo sia “fuori controllo”, che potrebbe far precipitare ansia e paura. Né lo si fa semplicemente senza pensare, come una mucca che guarda il muro di una stalla. Lo si fa con perfetta chiarezza e consapevolezza nel senso del significato usuale delle due parole italiane – con chiara concentrazione mentale e attenta consapevolezza. Cerchiamo di concentrarci con freschezza, consapevolezza, prontezza e piena attenzione su ciò che sta accadendo in ogni momento dell'esperienza, senza essere autocoscienti, senza lasciarci coinvolgere né da ciò che stiamo vivendo né dall'essere colui che lo sta sperimentando.

Le fasi iniziali della meditazione mahamudra

Sebbene la pratica di mahamudra possa sembrare semplice – “stabilirsi semplicemente nello stato naturale della mente” – in realtà è estremamente difficile da eseguire correttamente. Se fosse così semplice, non ci sarebbe bisogno di pratiche preliminari per indebolire i blocchi mentali e accumulare forza positiva. Tuttavia, anche con una minima quantità di pratica preliminare possiamo iniziare la nostra pratica a un livello iniziale come spiegato, ad esempio, in Mahamudra che elimina l’oscurità dell’inconsapevolezza del nono Karmapa.

Il primo stadio della pratica è lavorare con l’esperienza del vedere le cose. La meditazione mahamudra viene sempre eseguita con gli occhi ben aperti. Guardiamo tutto intorno a noi, lentamente, come se fossimo una torcia, concentrandoci attentamente sul processo cognitivo che si verifica al semplice sorgere e interagire con una vista. Ancora una volta “processo” qui non significa una sequenza di azioni o eventi, ma piuttosto una singola azione o evento che comporta due aspetti simultanei, un sorgere e un impegnarsi, senza un agente cosciente che desideri che accada o che lo faccia accadere. C’è una grande differenza, da un lato, tra il decidere di spostare il centro della nostra attenzione in modo da guardare un oggetto diverso e, dall'altro, concentrarci su quell'oggetto desiderando consapevolmente che sorga la sua vista sorga e abbia luogo il vederlo. Succedono e basta.

Poi indaghiamo, dal punto di vista della torcia, la differenza tra vedere il muro o il pavimento, o qualcosa di blu o di giallo. Qual è la differenza tra il vedere il vaso di fiori sul tavolo e i piatti sporchi accanto con i tovaglioli pieni di briciole macchiati inzuppati negli avanzi di cibo? Dal punto di vista del sorgere e dell'impegnarsi con i contenuti di un'esperienza – con una vista – c'è qualche differenza in termini del processo cognitivo stesso?

Dal punto di vista della torcia non c'è differenza. Se ci lasciamo prendere dai contenuti ne rimaniamo coinvolti emotivamente in modo disturbante, ma se li sperimentiamo dal punto di vista della torcia stessa, non saremo turbati né dall’attrazione e dall’attaccamento, né dalla repulsione e dalla rabbia. Smettiamo di essere così ossessionati dai contenuti della nostra esperienza e ci concentriamo invece sul lato esperienziale dell'esperienza.

Possiamo quindi provare lo stesso esperimento su esempi più impegnativi. Qual è la differenza tra vedere una persona o il muro adiacente, vedere una persona o una sua foto, vedere un uomo o una donna, vedere qualcuno carino o qualcuno brutto, vedere un bambino che dorme o che è agitato, vedere il nostro migliore amico o il nostro peggior nemico, vedere una parola stampata o un pezzo di carta bianco, vedere la scrittura in una lingua che conosciamo o in una che non conosciamo, vedere la scrittura in un alfabeto conosciuto o in uno sconosciuto, vedere qualcosa in televisione o qualcosa di giusto accanto ad essa, e così via? Dobbiamo essere creativi con la nostra meditazione.

Dobbiamo però fare attenzione quando lo facciamo. Non vogliamo concentrarci solo sul lato esperienziale separato dai contenuti, perché così non reagiamo né rispondiamo ad alcunchè. Dal punto di vista del processo cognitivo è vero che non c’è differenza tra vedere un’auto che scende per strada o vedere che non arriva alcunchè, tuttavia ciò non nega il fatto che dal punto di vista del nostro voler attraversare la strada la differenza è molto grande. Se ignoriamo il punto di vista convenzionale e rimaniamo bloccati sul lato esperienziale del vedere, è probabile che verremo investiti da un’auto se proviamo ad attraversare. Credere che a tutti i livelli non ci sia differenza e poi non reagire alle differenze che di fatto esistono significa arrivare all'estremo di fissarsi sul lato esperienziale di un'esperienza come se esistesse separata dai suoi contenuti. Dobbiamo quindi cercare di evitare entrambi gli estremi: essere troppo presi dai contenuti di un'esperienza o troppo separati da essi.

Dopo aver indagato sulla vista, seguiamo una procedura simile con il sentire i suoni. Qual è la differenza tra sentire il suono degli uccelli o del traffico, la musica o il suono disordinato di un bambino che batte sul tamburo, una musica delicata o il trapano del dentista, una canzone che ci piace o una che odiamo, una voce o il vento, la voce di una persona cara o di qualcuno che non sopportiamo, parole che comprendiamo o che non riusciamo a capire, una zanzara che ci ronza intorno o una dall'altra parte della zanzariera vicino al nostro orecchio, e così via? Lo stesso con odori diversi, come quelli del borotalco profumato e del pannolino sporco del bambino; gusti, come quelli dell'arancia e dell'aceto; sensazioni tattili, come il solleticare e il grattare molto forte il palmo della mano. Passiamo poi ai vari pensieri, come quello verbale e quello pittorico; vari sentimenti, come felicità e tristezza; varie emozioni, positive e disturbanti come l'amore e l'odio; e vari livelli di stati meditativi di concentrazione con il silenzio mentale. Successivamente confrontiamo i sensi, come la vista e l'udito; poi la mente stabile nella concentrazione e quella che si muove con il pensiero. Alla fine ci sediamo e seguiamo la stessa procedura con qualunque esperienza avvenga attraverso uno qualsiasi dei sensi o solo con la mente. Rimaniamo attenti al processo del mero sorgere e impegnarsi, senza essere catturati dai contenuti o ignorarli completamente. Questa è la prima fase della pratica di mahamudra.

I benefici della fase iniziale della pratica

Anche se non procediamo oltre nella nostra pratica mahamudra, questa fase iniziale è estremamente utile. Andiamo in vacanza al mare, entriamo nella stanza dell’albergo in riva al mare e dalla finestra c'è una vista terribile. Riusciamo a vedere solo il lato dell'edificio accanto e siamo molto turbati. Quindi facciamo questo tipo di meditazione. Qual è la differenza tra il vedere un panorama bello o uno brutto? Dal punto di vista del vedere, è semplicemente vedere. Pensare in questo modo ci aiuta a non diventare attaccati o arrabbiati; poi, in uno stato di calma applichiamo il consiglio di Shantideva alla nostra situazione "Se possiamo cambiare la nostra stanza, perché arrabbiarci? Cambiamola e basta. E se non possiamo cambiare la nostra stanza, perché arrabbiarci? Non aiuterà. Inoltre, che differenza fa? Se vogliamo vedere l'oceano, possiamo salire sul ristorante sul tetto o uscire”.

Supponiamo di riuscire a cambiare la stanza e di prenderne una che si affaccia sulla spiaggia, entriamo, sentiamo il forte rumore delle macchine sulla strada trafficata di fronte all'hotel e ci sentiamo di nuovo agitati. Ancora una volta ci concentriamo su qual è la differenza tra ascoltare il traffico o il rumore delle onde? Quindi applichiamo ancora una volta il consiglio di Shantideva oppure, se decidiamo di non cambiare di nuovo la stanza e di mantenere questa, ricordiamo a noi stessi il primo vero fatto nella vita: la vita è difficile! Senza applicare metodi efficaci per affrontare la situazione, rovineremo l’intera vacanza.

Pertanto il livello iniziale della pratica di mahamudra può essere uno dei metodi più efficaci per affrontare il rumore. Spostando il focus della nostra attenzione dal rumore stesso e dal soffermarci morbosamente su di esso, al processo cognitivo che avviene del mero sorgere di un suono e del sentirlo, ci rendiamo conto che il sorgere del rumore del traffico è solo il sorgere di un altro suono, e sentirlo è solo un'altra esperienza dell'udito. Niente di più. Con tale spostamento di attenzione, sperimentiamo soggettivamente lo stesso evento del sentire il traffico in un modo qualitativo totalmente diverso. La nostra esperienza del sentire un rumore ora può essere accompagnata da indifferenza, pace mentale o addirittura felicità, invece che da rabbia, infelicità e autocommiserazione.

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