Il meccanismo delle cause karmiche che danno origine a risultati karmici
Se comprendiamo correttamente come l’esistenza autostabilita non esista (rang-bzhin-gyis grub-pa, esistenza intrinseca), noi capiremo l’esistenza convenzionale stabilita nei termini dell’origine dipendente. Ma come sorgono i fenomeni in maniera dipendente nei termini di causa ed effetto del nostro comportamento – in altre parole, il karma?
[Secondo Nagarjuna, ed elaborato nel contesto del sistema Vaibhashika da Vasubandhu, esistono sette tipi di karma (las). Nagarjuna elencò i seguenti nei Versi Radice per il Madhyamaka:
(XXVII.4) La parola, il movimento, e quelli che si distinguono come le (forme) non rivelatorie di non aver rinunciato (a commettere un insieme di azioni distruttive), e anche le altre (forme) non rivelatorie registrate di aver rinunciato (a commettere un insieme di azioni distruttive),
(XXVII.5) Similmente, gli (impulsi karmici) meritevoli associati con (altri) che fanno uso (di qualcosa che qualcuno ha dato o creato) e, in maniera simile, gli (impulsi karmici) non meritevoli e anche una spinta karmica mentale – questi sette fenomeni sono registrati come ciò che viene indicato dagli impulsi karmici.
Nei termini della mente, (1) il karma si riferisce alle pressanti spinte mentali (sems-pa) che attirano il nostro corpo, parola e mente nei sentieri karmici delle spinte (las-lam), ovvero le azioni. Nei termini del corpo e della parola, il karma – (2) costruttivo o (3) distruttivo – si riferisce ai movimenti compulsivi del corpo o alle espressioni compulsive dei suoni delle parole con cui le azioni sono implementate. Queste sono le forme rivelatorie (rnam-par rig-byed-kyi gzugs) delle azioni fisiche e verbali – forme ovvie che rivelano la struttura motivante delle azioni. In aggiunta, il karma include le (4) forme non rivelatorie costruttive o (5) distruttive (rnam-par rig-byed ma-yin-pa’i gzugs) delle azioni fisiche e verbali – forme oscure, come i voti che cominciano e continuano con il continuum mentale dopo che l’implementazione delle azioni è cessata, continuando a influenzare e plasmare il nostro comportamento. Ultimo, il karma include le forme non rivelatorie “di mezzo” (bar-ma) costruttive (6) e distruttive (7) delle azioni fisiche e verbali di creare e fornire agli altri qualcosa che possono utilizzare. Essi continuano con il continuum mentale, continuando a servire come una condizione affinché altri possano utilizzare ciò che abbiamo fatto.
Una volta che uno qualunque di questi impulsi karmici associati ad un’azione compulsiva cessa – genericamente denominati come le “cause karmiche” – sorgono vari tipi di conseguenze karmiche. Le conseguenze karmiche includono potenziali karmici positivi (bsod-nams, merito), potenziali karmici negativi (sdig-pa), tendenze karmiche (sa-bon) e abitudini karmiche costanti (bag-chags). Tutte e quattro le tipologie di conseguenze karmiche possono essere genericamente chiamate “abitudini karmiche”, oppure le prime tre come “tendenze karmiche”. È per via del risultato dell’attivazione delle loro conseguenze karmiche che le cause karmiche danno origine, come loro “effetti karmici”, alla nostra esperienza di varie situazioni e oggetti con la felicità o l’infelicità del momento.]
Gli effetti karmici sorgono dalle tendenze karmiche. Le tendenze karmiche sono variabili influenzanti non congruenti (ldan-min ’du-byed). In generale, la coscienza mentale è presa come base su cui le tendenze karmiche esistono come fenomeni d’imputazione. La scuola Chittamatra ipotizza una coscienza basilare alaya (kun-gzhi rnam-shes, scr. alayavijnana) come loro base. Chandrakirti afferma che la loro base provvisoria (gnas-skabs-kyi kun-gzhi) è la coscienza mentale, ma che la loro base ultima (mthar-thug-gi rnam-shes) è il mero “io” (nga-tsam), un “io” convenzionalmente esistente che è esso stesso un fenomeno d’imputazione sulla base della coscienza mentale e, più in generale, sulla base dei cinque aggregati.
[Una tendenza karmica, avendo alla sua base come un fenomeno d’imputazione “l’abilità di dare origine a un effetto quando le cause e le condizioni per la nascita di un effetto sono complete” (‘bras-bu ‘char-ba’i nus-pa), sorge come un fenomeno d’imputazione sulla base del mero “io” contemporaneamente alla “morte” (‘jig-pa) della sua causa karmica. La “morte della causa karmica” è un fenomeno d’imputazione sulla base della coscienza mentale. Contemporaneamente alla “morte della causa karmica” sorge anche, come fenomeno d’imputazione sulla base della coscienza mentale, una “assenza” (med-pa) della causa karmica. Con la cessazione della “morte della causa karmica”, sorge sulla base di questa “assenza della causa karmica” un fenomeno d’imputazione conosciuto come “essendo morta” la causa karmica (zhig-pa). “Essendo morta la causa karmica” è equivalente alla “causa karmica non più in corso” (‘das-pa).
Sebbene la “tendenza dalla causa karmica” sia un fenomeno d’affermazione (sgrub-pa) e “essendo morta la causa karmica” sia un fenomeno di negazione (dgag-pa) – e pertanto non c’è un denominatore comune (gzhi-mthun) che sia entrambe – ciononostante la tendenza karmica serve come “base avente la caratteristica distintiva” (mtshan-gzhi) dello stato “essendo morta la causa karmica”. Sebbene l’esistenza di “essendo morta la causa karmica” non sia stabilita dal potere della sua caratteristica distintiva (rang-mtshan ma-grub-pa), ciononostante la tendenza karmica di essere una base avente la caratteristica distintiva di essa indica che la causa karmica è morta.
Contemporaneamente al completamento della tendenza karmica dalla causa karmica che dà origine a tutti i suoi effetti karmici, non c’è più una “capacità di dare origine a un effetto” come un fenomeno d’imputazione sulla base della tendenza karmica. Tsongkhapa afferma che la “presenza (yod-pa) della tendenza karmica” – ora senza questa abilità – continua ancora, tuttavia, come un fenomeno d’imputazione sulla base del mero “io”, ma ora è diventato un cosiddetto “seme bruciato”. In maniera simile, “essendo morta la causa karmica” continua anche come un fenomeno d’imputazione sulla base della persistente “assenza di causa karmica” che è un fenomeno d’imputazione sulla base della coscienza mentale.]
Tsongkhapa ha affermato che qualcosa che “è morto” è un fenomeno influenzato (’dus-byas-kyi chos, fenomeno condizionato), un fenomeno non statico influenzato da cause e condizioni. Quando Chandrakirti spiegò che sia i fenomeni influenzati che quelli non influenzati (’dus ma-byas-kyi chos) sono fenomeni influenzati, si stava riferendo sia a qualcosa di “morente” sia a qualcosa “che è morto”. Non intendeva dire “non influenzato” nel senso di qualcosa [che ha smesso] di essere un fenomeno statico (“è morto”).
[Piuttosto significa che questo “è morto” dimora (gnas-pa) nello stesso stato, senza degenerare (nyams), poiché, attimo dopo attimo, si distanzia progressivamente di più dalla “morte della causa karmica”. Il suo dimorare nello stesso stato non è influenzato da nulla.]
Questo è in contrasto con lo Svatantrika, il Chittamatra, il Sautrantika e i sistemi inferiori, i quali asseriscono che qualcosa che “è morto” è un fenomeno non influenzato nel senso di essere statico.
[Questi sistemi inferiori asseriscono che qualcosa “che è morto” è un fenomeno di negazione statico non implicativo (med-dgag) – semplicemente un’assenza statica – in modo simile a qualcosa “che non accade più”. Il Prasangika, d’altro canto, asserisce che qualcosa che “è morto” sia un fenomeno di negazione implicativo non statico (ma-yin dgag). Il suo “oggetto di negazione” (dgag-bya) è “l’accadimento presente” (da-lta-ba) della morte di qualcosa. Quando i suoni delle parole della negazione hanno precluso l’oggetto da negare, essi gettano nella loro scia (bkag-shul) – in altre parole, lasciano come loro impronta – non soltanto il fenomeno di negazione, “l’accadimento che non avviene più” della morte della causa karmica”, ma anche il fenomeno di affermazione “un sorgere dalla morte della causa karmica”. Un fenomeno di negazione non implicativo getta nella sua scia soltanto un fenomeno di negazione, nessun fenomeno di affermazione.]
Il Prasangika concorda con questi sistemi inferiori che qualcosa “che sta morendo” sia un fenomeno influenzato. Il processo di qualcosa “che sta morendo” avviene perché è affetto da cause e condizioni riunite insieme. Ma questi sistemi inferiori dicono che una volta avvenuta qualcosa “che sta morendo”, il fatto che qualcosa “è morto” non è influenzato da nulla e quindi è statico, non cambia mai. Ma il Prasangika controbatte che proprio come il processo di qualcosa “che sta morendo” avviene a causa di vari fattori, questi stessi fattori sono le cause che determinano “la morte” di qualcosa e il dimorare continuo del fenomeno d’imputazione del suo “essere morto” [sulla base della sua assenza.] Qualcosa “che sta morendo”, essendo sorta da cause e circostanze, dà origine alla “morte” di qualcosa come suo risultato.
Inoltre, né “qualcosa che sta morendo” né “qualcosa che è morto” possono essere trovati dopo l’analisi, convenzionalmente o fondamentalmente – sono la stessa cosa a tal proposito. Entrambi sono privi di essere stabiliti per via di una natura auto-stabilente (rang-bzhin); entrambi sono privi di un’esistenza autostabilita.
Pertanto, Chandrakirti affermò in “Un Supplemento ai (“Versi radice sulla Via di Mezzo”) di Nagarjuna,
(VI.39) Poiché la cessazione di un impulso karmico non è (stabilito) per mezzo di una natura auto-stabilente, sappiate che anche molto tempo dopo la sua cessazione, a un certo momento, per via della sua abilità (di dare origine a un effetto), c’è la nascita di un effetto, anche senza un alaya, (coscienza) deposito.
Pertanto, se non accetti l’esistenza di una coscienza deposito alaya, devi accettare che momenti successivi della causa karmica di “è morto” sono tra le condizioni necessarie per la comparsa di un effetto da “l’abilità di dare origine a un effetto quando le cause e le condizioni per la sua comparsa sono complete”. Tale abilità è un fenomeno di imputazione sulla base della tendenza karmica che sorse come conseguenza karmica dell’impulso karmico. Poi, proprio come il processo di dare origine a un effetto deve dipendere da cause e condizioni affinché avvenga, in maniera simile “avendo dato origine a un effetto” della “abilità di dare origine a un effetto” della tendenza karmica deve anche dipendere da fattori causali.
[Pertanto, se “avendo dato origine a un effetto” è un fenomeno influenzato con una continua presenza sulla sua base d’imputazione (la tendenza karmica), Tsongkhapa argomenta che la tendenza karmica che è la sua base deve anche continuare la sua presenza nella coscienza mentale, ma ora come un “seme bruciato”. La sua presenza cessa soltanto con il raggiungimento di una vera cessazione di esso.]
Se affermi che “l’essere morto” della causa karmica sia un fenomeno non influenzato [un fenomeno statico che non può influenzare o essere influenzato da nulla] e pertanto qualcosa che non ha causa, allora devi accettare l’assurda conclusione che “avendo dato origine a un effetto” della “abilità di dare origine a un effetto quando le cause e le condizioni per la comparsa sono complete” della tendenza karmica, in modo simile, è un fenomeno non influenzato e privo di causa. Pertanto, sia “l’essere morto” della causa karmica sia “avendo dato origine a un effetto” della “abilità di dare origine a un effetto” della tendenza karmica sono sorti in base a cause e condizioni e producono effetti [ovvero momenti successivi nei loro continua dimoranti.]
L’efficacia della consapevolezza discriminante della vacuità che deriva dalla meditazione
La consapevolezza discriminante che deriva dal riflettere così (bsam-byung shes-rab) sull’origine dipendente di causa ed effetto, e la sua vacuità di avvenire sulla base dell’esistenza autostabilita, ci dà fiducia che la spiegazione Prasangika sia corretta. La consapevolezza discriminante che deriva dal meditare con la concentrazione assorta [dell’unione di shamatha e vipashyana] ci dona una forte esperienza che questo sia vero. Credere semplicemente che la vacuità sia vera non ci dona la stessa sensazione. Come risultato di questa consapevolezza discriminante che deriva dalla meditazione, allora anche quando sentiamo semplicemente la parola “io”, automaticamente proviamo che sia priva di un’esistenza autostabilita. Questo è il risultato di avere una grande familiarità [con questa pratica].
In termini dell’ordine in cui stabiliamo tale familiarità, Jetsun Sherab Senge disse innanzitutto di stabilire familiarità con i livelli grossolani dell’assenza di sé e in seguito con quelli più sottili. Kedrub Je spiegò di ottenere familiarità prima con i livelli più sottili, dicendo che coloro che hanno facoltà più acute possono cominciare così. Il metodo di Sherab Senge è per coloro che hanno facoltà mentali meno acute.
Ma quale visione è la più efficace? Aryadeva scrisse questo nel Trattato in Quattrocento Versi:
(XII.19) (I seguaci di questi) tre – gli Shakya (Saggi), i nudi (i Giainisti), e i brahmini – affermano i loro insegnamenti di Dharma (rispettivamente) tramite le loro menti, occhi, e orecchie. Per via di questo, la tradizione dei testi classici dell’Abile Saggio (Buddha) è la più sottile.
Alcune pratiche religiose potrebbero insegnare l’ottenimento della liberazione cambiando o rimuovendo i nostri vestiti e impegnandosi in pratiche ascetiche, alcuni potrebbero insegnare di cambiare la nostra parola e di recitare i Veda, ma il Buddhismo insegna come cambiare la mente – il cambiamento più efficace e sottile tra questi. Il modo migliore per cambiare la mente è sviluppando il bodhichitta e una comprensione corretta della vacuità. La meditazione sulla vacuità, tuttavia, non influenza le nostre emozioni (come il coraggio e la pazienza di sopportare la sofferenza quando aiutiamo gli altri) tanto fortemente quanto la meditazione sul bodhichitta.
Allora la domanda è, quale visione della vacuità è la più profonda? Nel suo testo Sei Opere Complete sul Ragionamento (Rigs-tshogs drug), Nagarjuna confutò le posizioni Vaibhashika, Sautrantika e Chittamatra riguardo la vacuità. Ma potremmo chiederci come questo sia possibile, dato che Asanga, il principale proponente della visione Chittamatra, venne dopo Nagarjuna. Tuttavia, il Buddha aveva già insegnato la visione Chittamatra nel Sutra della Discesa nel Lanka (Lan-kar gshegs-pa’i mdo, scr. Lankavatara Sutra). Quindi già al tempo del Buddha, la visione Chittamatra nonché il punto di vista Madhyamaka dai Sutra sulla Consapevolezza Discriminante Lungimirante (Shes-phyin mdo, scr. Prajnaparamita sutra) erano stati proposti.
Malgrado la confutazione di Nagarjuna sul Chittamatra, c’erano ancora alcune persone che aderivano alla visione Chittamatra in quanto più adatta a loro. Per via di questo, Asanga si assunse il compito di diffondere la visione Chittamatra e, negli Stadi del Bodhisattva, confutò la posizione Madhyamaka. Ma poi, successivamente, Chandrakirti confutò ulteriormente il Chittamatra. Tutti questi grandi maestri stavano semplicemente rendendo più chiari questi sistemi.
Qual è la visione buddhista la più forte?
L’attaccamento e la rabbia rovinano una persona. La maggioranza delle scuole indiane non buddhiste concorda su questo punto, anche se forse non l'edonista, materialista scuola Charvaka. L’attaccamento agli oggetti sul piano degli oggetti sensoriali del desiderio (il regno del desiderio) è dannoso. Pertanto, abbiamo bisogno di trovare le cause dell’attaccamento verso questi oggetti.
Coloro che affermano soltanto l’assenza d’identità delle persone spiegano che se ci aggrappiamo a un “io” che esiste in maniera impossibile, allora su tale base sviluppiamo attaccamento e rabbia. Ad esempio, vediamo che c’è una differenza nel modo in cui consideriamo un certo oggetto prima di comprarlo e dopo che lo possediamo come “mio”. O quando qualcosa di non desiderato ci accade, automaticamente sentiamo che qualcuno ha danneggiato “me”, oppure qualcuno ha danneggiato qualcosa che apparteneva a “me” – la “mia” possessione. Coloro che sostengono questa tesi affermano che tali malintesi provengono dall’aggrapparsi a un “io” che esiste indipendentemente dagli aggregati, come un’entità sostanzialmente esistente e conoscibile in totale autonomia (rang-rkya-thub-pa’i rdzas-yod).
La meditazione sull’assenza totale, la vacuità, di tale “io” sostanzialmente esistente e conoscibile in totale autonomia ci aiuta a superare l’attaccamento. Dopotutto, normalmente, quando pensiamo semplicemente a “me”, è neutrale, ma se pensiamo a “me” come a un’entità sostanziale, che esiste ed è conoscibile indipendentemente dagli aggregati, sviluppiamo uno stato mentale disturbante.
I sistemi di principi buddhisti che affermano, inoltre, l’assenza d’identità di tutti i fenomeni concordano che la confutazione di tale falso “io” sia utile. Tuttavia, anche con tale confutazione, possiamo ancora avere attaccamento e rabbia più sottili focalizzati su un oggetto non connesso o associato con il sé. Pertanto, abbiamo bisogno di meditare ulteriormente sulla vacuità di tutti i fenomeni.
Quando pensiamo a “tutti i fenomeni”, pensiamo principalmente agli oggetti sensoriali esterni. Questi sono oggetti verso cui sviluppiamo attaccamento e odio. Pertanto, abbiamo bisogno di meditare sulla vacuità di questi fenomeni. Con la meditazione Chittamatra, noi vediamo come l’esistenza dei fenomeni esterni possa essere stabilita soltanto nei termini della coscienza sensoriale che li percepisce. Vediamo inoltre che la loro esistenza non può essere considerata attraente, ad esempio, indipendentemente dalla coscienza mentale concettuale che proietta la sua attrattività. Questo ci aiuta a diminuire il nostro attaccamento verso tali oggetti sensoriali esterni. Così, il Chittamatra confuta l’esistenza stabilita esternamente degli oggetti sensoriali.
La scuola Madhyamaka concorda che questo livello di confutazione funziona bene per gli oggetti sensoriali esterni sul piano degli oggetti sensoriali del desiderio ma, secondo questa visione, ancora considereremmo che la mente abbia una vera esistenza, stabilita senza imputazioni. Tutte le sensazioni di felicità o infelicità, in quanto fattori mentali, possono soltanto essere stabiliti in termini della coscienza che li accompagna. Per via di questo, se ancora ci afferriamo ad una vera esistenza della coscienza, stabilita senza imputazioni, (bden-par grub-pa), possiamo ancora sviluppare i fattori mentali dell’attrazione e della repulsione verso queste sensazioni [mentre meditiamo per raggiungere i livelli dhyana della costanza mentale, i quali sono oltre il piano degli oggetti sensoriali del desiderio.] Pertanto, per evitare questo difetto, abbiamo bisogno di meditare sulla vacuità di tutti i fenomeni.
Inoltre, la visione Chittamatra considera che anche la vacuità abbia una vera esistenza, stabilita senza imputazioni. Ma se pensiamo che la vacuità abbia una vera esistenza, stabilita senza imputazioni, come può essere di aiuto? [Se esistesse in questo modo impossibile, non potrebbe essere conosciuta come un oggetto cognitivo.] Pertanto, abbiamo bisogno di realizzare come tutti i fenomeni siano privi di una vera esistenza, stabilita senza imputazioni. Questa visione è molto più forte di quelle precedenti.
La vacuità dell’esistenza autostabilita e la comprensione dell’origine dipendente in termini di etichettatura mentale
La visione Prasangika è che tutti i fenomeni, che siano esterni o interni, sembrano avere un’esistenza autostabilita (esistenza intrinseca), un’esistenza stabilita dalla loro parte (rang-gi ngo-bor-nas grub-pa). Anche se affermiamo che la verità più profonda dei fenomeni è che la loro esistenza è stabilita in termini dell’etichettatura mentale, tuttavia sembra come se la loro esistenza, stabilita in base all’imputazione, sia sulla base dell’etichettatura mentale di qualcosa che possiede un’esistenza autostabilita in termini della sua verità convenzionale.
[La definizione di esistenza autostabilita è l’esistenza di qualcosa stabilita o provata dal fatto che quando uno cerca il referente (btags-don) – la ‘cosa’ effettiva a cui si riferisce il nome o concetto, corrispondente ai nomi o concetti di qualcosa – quel referente è trovabile dal lato dell’oggetto come un supporto focale (dmigs-rten) per l’etichettatura mentale. L’esistenza del referente è stabilita da una natura auto-stabilente (rang-bzhin).]
È questo ciò che deve essere confutato.
Questa è l’affermazione Svatantrika – ovvero, che i fenomeni devono avere la loro esistenza convenzionale stabilita da una natura auto-stabilente dal loro lato affinché l’afferrarsi all’esistenza autostabilita conosca validamente questi oggetti convenzionali come aventi un’esistenza autostabilita. Il Prasangika controbatte dicendo che sebbene i fenomeni sembrino possedere un’esistenza stabilita in questo modo, questo è come appaiono ad una coscienza errata. Dobbiamo differenziare la cognizione valida della verità superficiale, convenzionale, e della verità più profonda, e se affermiamo che i fenomeni possiedono una base auto-stabilente in termini della loro verità convenzionale, possiamo ancora sviluppare attaccamento per essi.
C’è il pericolo di cadere in una posizione di nichilismo quando scopriamo che le cose non hanno un’esistenza autostabilita dal loro lato persino in termini della verità superficiale. Pertanto, come fanno le cose a funzionare come cause e dare origine ad effetti? È semplicemente per il fatto che la loro esistenza è stabilita meramente solo dal potere dell’etichettatura mentale con concetti e la designazione con parole e nomi.
Se otteniamo una certa comprensione di questo, basata sulla riflessione e l’analisi quando ci pensiamo sopra, allora possiamo controllare nella nostra vita quotidiana come le cose sembrano possedere un’esistenza autostabilita [esistenza intrinseca]. Abbiamo bisogno di identificare correttamente come questo modo di esistenza da confutare appaia e indagare come arrivi ad apparire così.
Se le cose avessero davvero un’esistenza convenzionale già stabilita da qualche natura essenziale auto-stabilente (ngo-bo), trovabile dal loro lato [e responsabile della loro apparenza superficiale, convenzionale], che senso avrebbe dire che la loro esistenza, nella verità più profonda, è stabilita in termini dell’etichettatura mentale su tale base? Buddhapalita affermò questo riguardo a un Buddha nel suo commentario ai Versi radice per il Madhyamaka di Nagarjuna (XXII.1)
Se un Buddha è qualcosa da designare mentalmente sulla base degli aggregati, e se questo effettivamente significa che un Buddha non era qualcosa a cui mancava (un’esistenza stabilita) da una natura essenziale (ngo-bo), allora a che serve che lui venga designato mentalmente su qualcosa che ha (un’esistenza già stabilita) da una natura essenziale?
Pertanto, Chandrakirti affermò in Un Supplemento ai (“Versi Radice di Nagarjuna per il) Madhyamaka”:
(VI.35) Siccome qualunque ragionamento che trova irragionevole, nel contesto della talità (vacuità), un sorgere dal sé o altro è lo (stesso) ragionamento che lo trova irragionevole nel (contesto della verità) convenzionale, allora in che modo può avvenire il sorgere?
Quando facciamo una ricerca per vedere se un oggetto abbia la sua esistenza stabilita in una qualunque delle sette modalità [con la sua esistenza stabilita come differente dalle parti, come identica con le parti, come in possesso delle parti, come essere nelle parti, come avere le parti che esistono in esso, come la mera collezione delle parti, o come la forma delle parti], non è trovabile sia convenzionalmente, sia in ultima analisi. L’esistenza convenzionale delle cose, allora, è ritenuta in termini di quando non sono analizzate in relazione alle parti.
Non può esserci nessuna vacuità che è separata da una base di quella vacuità. Nagarjuna affermò questo nei Versi Radice per il Madhyamaka:
(XXIV.10) Senza affidarsi alla (verità) convenzionale, la verità più profonda non può essere mostrata. Se non si accede alla verità più profonda, il nirvana non si può raggiungere.
Pertanto, senza la verità convenzionale, non può esserci la verità più profonda, siccome la verità più profonda è la verità più profonda della verità convenzionale.
Nagarjuna scrisse anche:
(XXII.15) Tutti coloro che proiettano invenzioni mentali sul Buddha, che è oltre l’invenzione mentale e senza declino, non vedono Colui Così Andato, privati della loro invenzione mentale.
Vi sono interpretazioni differenti del significato di “oltre l’invenzione mentale”. Potrebbe significare che un Buddha non possiede invenzione mentale (spros-pa, scr. prapañca) nel senso di non avere [la capacità di] creare apparenze dualistiche (gnyis-snang) o di non avere nessuna [capacità di] creare le apparenze della verità convenzionale. Ma comunque, non c’è nessun accesso alla verità più profonda senza la verità convenzionale.
Il Buddha insegnò come la realtà convenzionale ci dà sia sofferenza che felicità, ma in termini della verità più profonda, la sofferenza o la felicità non può essere trovata. Ciononostante, c’è la loro verità relativa, superficiale.
Pertanto, come scrisse Chandrakirti nel testo “Un Supplemento ai (“Versi radice sul Madhyamaka”) di Nagarjuna:
(VI.34) Dato che, quando questi fenomeni (convenzionali) vengono analizzati, oltre ad avere una natura della talità (vacuità) non si trova nulla che perduri dal loro lato, pertanto la verità convenzionale del mondo di tutti i giorni non dovrebbe essere soggetta ad un’analisi accurata.
In altre parole, quando gli oggetti convenzionali non possono essere trovati con qualcosa di trovabile che ne stabilisca l’esistenza dal loro lato, in termini della loro verità più profonda o della verità convenzionale, questo significa che la loro esistenza può essere stabilita meramente in termini delle loro etichettature mentali. Al di fuori del contesto dell’analisi accurata, dovremmo essere soddisfatti, allora, con la loro semplice convenzionalità. In questo modo entriamo in una comprensione della verità più profonda.
[Quindi Tsongkhapa distingue tra la verità superficiale (kun-rdzob bden-pa) dei fenomeni convenzionali, ovvero la loro apparenza ingannevole di avere un’esistenza autostabilita, e la loro “mera convenzionalità” (tha-snyad-pa-tsam) o “mera superficialità” (kun-rdzob-pa tsam).]
Per apprendere di più sull’etichettatura mentale [designazione mentale], Chandrakirti consigliò questo nel testo Parole Chiarite:
Siccome la presentazione dell’etichettatura mentale in termini dell’origine dipendente è presentata in modo esteso nel testo Un Supplemento ai (“Versi Radice di Nagarjuna per il) Madhyamaka”, dovrebbe essere cercata proprio da lì.
Se volessimo studiare i Versi Radice per il Madhyamaka di Nagarjuna, dovremmo studiare il commentario di Buddhapalita su questo testo. Per maggiori dettagli, avremmo bisogno di consultare il commentario di Chandrakirti al testo di Nagarjuna, Parole Chiarite. Bhavaviveka, nel suo commentario al testo di Nagarjuna, Un faro per la Consapevolezza Discriminante (Shes-rab sgron-me, scr. Prajnapradipa), sollevò alcuni dubbi sull’interpretazione di Buddhapalita, e allora Chandrakirti confutò le affermazioni di Bhavaviveka nel suo testo Parole Chiarite.
Dobbiamo studiare questi testi e non rimandare trovando scuse. Una volta al maestro Gungtangpa fu chiesto da un discepolo di raccontare la sua illuminante autobiografia. Questo grande maestro rispose: "I miei primi vent'anni passarono senza nemmeno essere consapevole di fare alcuna pratica. I venti seguenti sono passati pensando: “A volte la farò, la farò”. E ora più di dieci anni sono passati lamentandomi con rammarico che non ho avuto modo di fare nulla (prima). Questa è la mia storia di come ho sprecato un'esistenza umana."
Pertanto, abbiamo bisogno di studiare approfonditamente. C’è molto da imparare. Nagarjuna elencò venti vacuità in Un Compendio dei Fenomeni (Chos-bsdud, scr. Dharmasamgraha).
Nello studiare i sistemi di principi riguardo la vacuità, dobbiamo evitare una visione settaria riguardo a questi sistemi di principi. Chandrakirti spiegò in Un Supplemento ai (“Versi Radice di Nagarjuna per il) Madhyamaka”:
(VI.118) Qualunque attaccamento al proprio punto di vista e ostilità verso le visioni degli altri è il pregiudizio della concettualità. Pertanto, libera (la tua mente) da attaccamento e rabbia; l’analisi (ti) porterà velocemente alla liberazione.
Queste discussioni dei punti di vista dei vari sistemi di principi, allora, non servono per promuovere argomenti, ma vengono studiati per aiutarci ad ottenere la liberazione dalla sofferenza. La visione Prasangika è la più sottile e, se cerchiamo di essere ancora più sottili, cadremmo certamente nell’estremo del nichilismo. Tuttavia, dipende anche dalla nostra disposizione e dal nostro livello di intelligenza, quindi non dovremmo sforzarci di adottare la visione Prasangika. Se possiamo confutare la vera esistenza, stabilita senza imputazioni, attraverso la visione Svatantrika, o con quella Chittamatra, confutare l'esistenza stabilita esternamente, questo può essere molto utile. Il punto principale è quello di addestrarci in un punto di vista che è più appropriato per le nostre menti.
La comprensione della vacuità è un'arma, ma se distruggerà gli oscuramenti che impediscono la liberazione, e anche quelli che prevengono l'illuminazione, dipende dal nostro maneggiare quest'arma con il bodhicitta quale nostra motivazione. Anche se abbiamo una debole comprensione della vacuità, possiamo pregare che diventi un antidoto per entrambe le oscurazioni.