Rinunciare alla sofferenza

Ripasso dei tre sentieri principali

Tsongkhapa ha sottolineato che ci sono tre sentieri fondamentali, ovvero tre percorsi principali della mente, o modi di pensare, modi di comprendere che sono l’essenza del sentiero graduale. Questi sono la rinuncia o la determinazione ad essere liberi, un obiettivo di bodhichitta, e una comprensione corretta della vacuità.

La rinuncia è uno stato mentale che guarda in due direzioni. Guarda nella direzione della sofferenza e le cause della sofferenza, e nell’altra direzione, guarda verso la liberazione. Nella direzione della sofferenza e delle sue cause, ha la volontà di lasciarle andare, di sbarazzarsene, non solo temporaneamente, ma per sempre. Nell’altra direzione, è determinata a raggiungere quello stato di liberazione.

Nella presentazione consueta della rinuncia, l’oggetto a cui vogliamo rinunciare è innanzitutto la nostra sofferenza. Quando è rivolta alla sofferenza degli altri, si chiama compassione. La sua presentazione standard o più consueta è che è rivolta alla nostra sofferenza del samsara in generale e alle sue cause, e specificatamente alla nostra esperienza samsarica. Il samsara vuol dire la rinascita che si ripete in modo incontrollabile, assieme a tutti i vari problemi e sofferenze e difficoltà che sono parte di questo.

La sofferenza dell’infelicità e del cambiamento

Quando esaminiamo la presentazione generale della sofferenza nel Buddhismo, parliamo di tre tipi di sofferenza. Abbiamo la sofferenza dell’infelicità. Questa la conosciamo tutti; sappiamo bene cosa si prova, con tutti i suoi vari aspetti – tristezza, infelicità, dispiacere e così via. Il desiderio di esserne liberi e di essere felici è qualcosa che provano anche gli animali, quindi averla non è un gran risultato come esseri umani; il Buddhismo non si concentra specificatamente su questo.

È sempre molto utile e importante, io penso, e Sua Santità il Dalai Lama lo sottolinea tutto il tempo, distinguere tra quelle che sono le caratteristiche comuni che troviamo negli insegnamenti buddhisti e ciò che è specificatamente buddhista. Questo desiderio di non essere affamati, di non aver freddo e di cercare di evitare queste cose, di essere al sicuro, di essere fuori pericolo, come ho detto, non è particolarmente buddhista; non è nemmeno solamente un comportamento umano.

Il secondo tipo di sofferenza è ciò che si chiama “la sofferenza del cambiamento”, o il problema del cambiamento. Questo si riferisce alla nostre forme comuni di felicità, e sebbene ovviamente siano molto piacevoli, ci sono alcuni problemi associati ad esse. Il primo problema è che non durano. Il secondo è che non soddisfano mai; non abbiamo mai abbastanza affetto, amore, piacere, eccetera. Altrimenti, perché ne vogliamo sempre di più? Poi, quando non abbiamo più queste cose, soffriamo tantissimo. Ogni momento di felicità ordinaria che abbiamo è insicura perché non sappiamo mai cosa proveremo il momento successivo, come ci sentiremo. Potremmo sentirci felici ora, ma il momento successivo, all’improvviso, potremmo sentirci depressi.

Qui, con la rinuncia, ci sentiremmo davvero insoddisfatti per questo tipo di felicità. Non saremmo soddisfatti soltanto da una felicità “di seconda scelta”. Vorremmo una felicità duratura che ci soddisfa e non ci lascia mai, vero? Beh, non c’è nulla di particolarmente buddhista nemmeno in questo. Abbiamo questo tipo di desiderio per la felicità eterna in molte altre religioni. In termini di questi due aspetti della sofferenza, dobbiamo anche affrontarla in modo realistico e sobrio.

Ovviamente, siccome liberarsi dall’infelicità non è la cosa più profonda che facciamo, ciò non vuol dire che non proviamo a farlo; quando siamo affamati, mangiamo. In termini di felicità ordinaria, quando diciamo che vogliamo rinunciare ad essa, questo non significa che ora non faremo nulla di carino, non rideremo e non ci divertiremo più. Certamente non significa questo. Il punto è non vedere questo come l’obiettivo finale che sarà la cosa più grande del mondo. Lo vediamo per quello che è. Non durerà, non sappiamo cosa accadrà in seguito, e non sarà mai soddisfacente. “Ok, lo accetto, ma ciononostante, se mi trovo in questa situazione relativamente più felice, posso trarne vantaggio”.

Questo fa parte degli insegnamenti sulla preziosa vita umana e gli otto fattori di una vita davvero preziosa. In altre parole, siamo in grado di vivere in maniera confortevole e avere abbastanza da mangiare e soldi a sufficienza; possiamo partecipare a insegnamenti, possiamo studiare, possiamo fare ritiri, possiamo usare ciò che abbiamo per aiutare gli altri senza essere sopraffatti da sofferenza e problemi. A volte è molto importante rilassarsi e godersi un po’ il tempo libero, ma con la comprensione che non è nulla di speciale. Ci dà più energia, più spazio per respirare, in modo tale da poterci dedicare sempre di più al sentiero spirituale, ad aiutare gli altri.

Se soffriamo in maniera esplicita, cerchiamo di trasformarla e persino di utilizzarla sul sentiero. Ciò che intendo è, innanzitutto, cerchiamo di uscirne fuori, ma se è difficile, ad esempio se siamo ammalati, allora quando prendiamo le medicine o qualunque cosa, cerchiamo di usare quella circostanza in una maniera favorevole. Ci aiuta a sviluppare la compassione e la comprensione per altre persone che sono ammalate in maniera simile o invalide.

Ricordo un amico che aveva sviluppato una malattia che l’aveva costretto a rimanere su una sedia a rotelle. Disse che era stata una delle cose più utili che gli fosse accaduta perché, invece di correre in giro per il mondo come un folle per fare ogni sorta di cose, ciò gli diede la circostanza per lavorare davvero su sé stesso, per meditare e seguire il sentiero spirituale.

Se proviamo una felicità ordinaria generale, poi come ho detto, la utilizziamo come una circostanza per aiutare gli altri. In entrambi i casi, cerchiamo di non esagerare la sofferenza o la felicità ordinaria. Non ne facciamo una tragedia.

Distinguere tra i due livelli di rinuncia

Quando pensiamo al tipo comune di sofferenza che abbiamo, la sofferenza dell’infelicità, e poi a quanto persino la felicità ordinaria che abbiamo ci lasci insoddisfatti, li possiamo considerare in termini di due intervalli di tempo. La più ampia portata della rinuncia, che è la descrizione standard, è la determinazione ad allontanarsi da tutte le sofferenze in tutte le rinascite che si ripetono in maniera incontrollabile. Questo include sia l’infelicità che anche la felicità ordinaria che potremmo provare in qualunque tipo di rinascita, e avere la determinazione a liberarsi da entrambe.

Tsongkhapa, nel suo testo I tre aspetti principali del sentiero, fa una distinzione tra due livelli di rinuncia. Tuttavia non fa questa distinzione nelle sue presentazioni molto più vaste del lam-rim, gli stadi graduali del sentiero. Lì parla soltanto della rinuncia in termini di un solo livello. In questo breve testo presenta due fasi differenti. Sebbene il livello più avanzato sia quel desiderio di liberarsi dalla sofferenza e le sue cause in tutte le vite future e raggiungere il nirvana, la liberazione, c’è una fase precedente che lui descrive, ovvero di liberarsi dalla nostra ossessione per quello che accade in questa vita – non soltanto la sofferenza dell’infelicità e della felicità temporanea – ma la nostra ossessione con questa vita e tutte le cose che avvengono in questa vita, e di essere più interessati ad avere una situazione più favorevole nella rinascita immediatamente seguente, o in generale nelle rinascite future.

Ora, l’obiettivo che abbiamo con quel tipo di rinuncia non è particolarmente buddhista, vero? Ci sono molte religioni che ci insegnano di non essere ossessionati da questa vita e di puntare alla rinascita in un paradiso, ad esempio. Questo non è proprio tipicamente buddhista. Nel Buddhismo, il nostro obiettivo sarebbe di ottenere uno dei tipi di rinascita migliori come un passo temporaneo, perché ci rendiamo conto che sebbene stiamo puntando a rinunciare a qualunque tipo di rinascita, ci vorrà molto tempo per ottenere la liberazione.

Prendiamo noi stessi e il nostro sentiero spirituale seriamente e abbiamo un atteggiamento realistico al riguardo. Con una comprensione della rinascita – che è ovviamente un presupposto qui nel Buddhismo, ma che non può certamente essere data per scontata con gli occidentali – in questo contesto, allora vogliamo assicurarci che nelle rinascite future, nelle vite future, continueremo ad essere in grado di avere le circostanze favorevoli per continuare a lavorare per la liberazione. Lo prendiamo molto seriamente. Non è che vogliamo vite sempre migliori ogni volta, come un nuovo modello di macchina che ogni anno deve essere migliore, affinché la migliore rinascita che avremo sia il nirvana, la liberazione. Questo è un fraintendimento su ciò che significa la liberazione.

Quello che vogliamo è di non avere troppa felicità mondana, perché se ne abbiamo troppa, allora diventeremo molto pigri. Non abbiamo nessuna motivazione per uscirne, perché è molto confortevole. Per rinunciare ad essa, dobbiamo davvero esaminare in profondità tutte queste situazioni per scoprirne i problemi; solitamente le persone molto ricche hanno tanti problemi emotivi e mentali, quindi è abbastanza ovvio. Vogliamo semplicemente un po’ di felicità. È come avere abbastanza cibo, buon cibo che ci nutre. Quindi vogliamo soltanto abbastanza felicità, circostanze favorevoli a sufficienza che ci consentiranno di dedicare realmente la nostra energia e il nostro tempo a fare ulteriori progressi – non troppo e non troppo poco.

Come dicevo durante la nostra discussione del Dharma “light”, pure questo livello di rinuncia è davvero molto avanzato per noi occidentali, con tutte queste difficoltà che abbiamo riguardo il concetto della rinascita. Abbiamo bisogno di trovare un passo preliminare che ci consenta di accedere al sentiero buddhista. È come cercare di salire su un treno che si sta muovendo a grande velocità. Il sentiero buddhista si muove a grande velocità e non possiamo davvero raggiungerlo molto facilmente, e quindi in qualche modo dobbiamo saltarci sopra in una fase precedente. Il treno deve davvero rallentare per consentirci di salire.

Come ho detto, quando aggiungiamo un passo antecedente, dobbiamo essere molto chiari che “Beh, questo non è incluso negli insegnamenti originali”. Tuttavia, stiamo cercando di aggiungere qualcosa che non viola o compromette in nessun modo gli insegnamenti del Buddha. La cosa più importante nel garantire questo è che non neghiamo o rifiutiamo il resto del sentiero, il vero Dharma, ma che vediamo qualunque passo preparatorio che facciamo semplicemente per quello che è, una preparazione. Penso che in questo contesto, con questo approccio onesto, possiamo parlare di ciò che è solitamente il nostro obiettivo iniziale da praticanti occidentali: semplicemente migliorare il nostro samsara in questa vita attraverso i metodi del Dharma.

Possiamo formularlo in maniera simile al modo in cui lo esprime Tsongkhapa in questo testo. Tsongkhapa ha elaborato le due fasi nel senso di allontanarsi dalla nostra ossessione con questa vita per interessarsi maggiormente alle vite future. Sua Santità dice sempre 50/50 è un buon approccio in questo caso. Non siate dei fanatici. Dobbiamo prenderci cura pure di questa vita perché ci troviamo qui. Il secondo livello più avanzato consiste nell’allontanarsi dalla nostra ossessione per le rinascite future, puntando alla liberazione completa.

Ci prendiamo cura delle rinascite future perché non sappiamo se potremo raggiungere la liberazione in questa vita. Ovviamente, se puntiamo ad un obiettivo più elevato, come sottoprodotto, ciò ci aiuta a realizzare gli obiettivi minori.

Un’elaborazione simile che penso possa essere il nostro passo salutare del Dharma “light” consisterebbe nell’abbandonare la nostra ossessione per questo momento immediato, la nostra gratificazione immediata, e pensare maggiormente alle conseguenze di lungo termine nella nostra vita. Ci interessiamo a cosa ci accadrà nella nostra vita, e così non abuseremo il nostro corpo prendendo droghe e ogni sorta di cose quando siamo giovani, oppure tenere una postura orribile senza pensare “Come questo influenzerà la mia salute in futuro?”. Ad esempio, ci viene l’artrite perché siamo continuamente piegati su un computer a vent’anni.

Ovviamente, potremmo aggiungere un po’ di Mahayana qui, pensando alle conseguenze di ciò che stiamo facendo sugli altri. Potremmo persino aggiungere qualche considerazione sulle vite future che sarebbe accettabile per la nostra mentalità occidentale: questo potrebbe essere un ottimo passo intermedio per pensare in termini di vite future. Questo vorrebbe dire di abbandonare la nostra ossessione semplicemente per questa situazione immediata e di interessarci alle conseguenze che questo avrà sulle generazioni future. 

Ad esempio, invece di sfruttare tutte le risorse e distruggere l’ambiente, ci chiediamo “Quale sarà l’effetto di questo sui nostri figli e nipoti, e sulle generazioni future oltre la nostra vita?”. Penso che questo sia un passo intermedio valido, in modo simile a come fece Tsongkhapa quando aggiunse un passo intermedio per la rinuncia, in cui si abbandona la nostra ossessione soltanto per questa vita.

La sofferenza onnipervasiva

Come ho detto, ci sono tre tipologie di sofferenza menzionate dal Buddha. Per superare le prime due, i problemi della sofferenza e i problemi del cambiamento o della felicità ordinaria, questo non è particolarmente buddhista. Ciò che è particolarmente buddhista qui è la terza tipologia di sofferenza, che è chiamata “sofferenza onnipervasiva”, il problema onnipervasivo, e avere la determinazione ad essere liberi da questo. Questo si riferisce alla nostra rinascita samsarica che si ripete in maniera incontrollabile, con un corpo e una mente che proveranno i primi due tipi di sofferenza. Per rinunciare a questo problema onnipervasivo, abbiamo bisogno di abbandonare le sue cause.

Qual è la vera causa di tutta la sofferenza? La vera fonte, la vera causa di tutti i nostri problemi, tutta la nostra sofferenza in ciascuna vita samsarica, è ciò che chiamiamo “inconsapevolezza”, solitamente tradotta con “ignoranza”; ma questo, almeno in inglese, ha la connotazione di essere stupidi. Qui non c’è assolutamente questa connotazione di essere stupidi; è solo che non sappiamo, o pensiamo o sappiamo in modo errato. Non vuol dire che c’è qualcosa di sbagliato in noi, quindi non c’è nessun senso di colpa qui, nessun giudizio morale.

In generale nel Buddhismo facciamo una distinzione tra due livelli di inconsapevolezza. Una riguarda l’inconsapevolezza del karma, causa ed effetto del comportamento. Non stiamo parlando delle leggi della fisica, dove sappiamo che se calciamo una palla, andrà ad una certa distanza in base alla forza e all’angolo. Non stiamo parlando di quel tipo di causa ed effetto. Stiamo parlando di causa ed effetto del comportamento, e non stiamo necessariamente parlando dell’effetto del nostro comportamento sugli altri; stiamo parlando degli effetti del nostro comportamento su noi stessi in termini di cosa sperimenteremo in futuro come risultato delle nostre azioni compiute ora.

Dunque siamo inconsapevoli e ingenui riguardo le conseguenze delle nostre azioni, del nostro comportamento, in termini di cosa sperimenteremo in futuro. O non lo sappiamo, oppure non pensiamo nemmeno a cosa potrebbe essere l’effetto. Pensiamo che non avrà nessun effetto, come ad esempio: “Posso abusare del mio corpo, esagerare e prendere droghe e stare alzato tutta la notte, e questo non avrà nessun effetto”. Oppure abbiamo una conoscenza errata e pensiamo: “Se mi ubriaco e prendo droghe tutto il tempo, questo mi renderà felice. Risolverà i miei problemi”.

Quando pensiamo in termini di abbandonare la nostra ossessione solo per una gratificazione immediata, abbiamo bisogno di lavorare sulla nostra inconsapevolezza delle conseguenze del comportamento e cominciare a pensare in termini di ciò che proveremo in futuro nella nostra vita. Molto spesso, tuttavia, non sperimenteremo davvero i risultati del nostro comportamento attuale in questa vita, perché non stiamo semplicemente parlando di ciò che si chiama i “risultati creati dall’uomo” del nostro comportamento oppure semplicemente il risultato immediato – ad esempio, stupriamo qualcuno e sperimentiamo il piacere e la felicità di un orgasmo. Non stiamo parlando di quel tipo di risultato del comportamento in termini della nostra esperienza immediata. Non stiamo parlando semplicemente di ciò che accade immediatamente quando ci arrabbiamo e ci sentiamo un po’ meglio perché abbiamo urlato a qualcuno o gli abbiamo dato un pugno in faccia.

Qui stiamo parlando di “risultati che maturano”. Questo è un termine tecnico. In altre parole, stiamo considerando le tipologie di tendenze che accumuliamo da questo tipo di comportamento e abitudini che influenzeranno molto il nostro comportamento futuro e la nostra esperienza futura in termini di come ci comportiamo e in quali tipi di situazioni e relazioni tendiamo a entrare. Influenzano anche se siamo di buono o cattivo umore eccetera, a prescindere da ciò che stiamo facendo effettivamente, e in una prospettiva più ampia, [condizionano] il tipo di situazioni di rinascita verso cui tenderemo ad andare – questi sono i tipi di risultati che maturano, i quali maturano soprattutto nelle vite future. Questo è qualcosa davvero di molto importante da capire, ma non è così facile da comprendere.

Come stavo cercando di indicare in precedenza, non possiamo proprio escludere la rinascita dalla presentazione buddhista, perché potremmo essere dei praticanti molto sinceri, lavorare molto duramente durante la nostra vita e poi sviluppare un cancro terribile e doloroso e morire in modo orribile. E allora diciamo “Non me lo meritavo”, perché non stiamo esaminando ciò che proviamo dalla prospettiva delle vite precedenti. Tuttavia, questo è un modo molto confuso di vederlo.

Ovviamente, ciò che non abbiamo qui nella presentazione buddhista è che ciò che sperimentiamo sarà come una ricompensa o una punizione, ovvero un’etica basata sul seguire le regole. Non è questo il modo in cui funziona l’etica buddhista. Nelle nostre culture occidentali, l’etica proviene da due fonti. Innanzitutto ci sono certe leggi, certe regole che sono divine, stabilite da un essere divino onnipotente, e dobbiamo seguirle. Se non le seguiamo, siamo cattivi; siamo colpevoli e verremo puniti. Se obbediamo alle leggi, siamo buoni e verremo premiati. Questo è un aspetto della nostra etica occidentale, la tradizione biblica. Possiamo vedere che tutto il problema dell’etica è fondamentalmente un problema di obbedienza. È molto interessante e specifico della nostra cultura. Questa è una caratteristica di una cultura specifica; non è affatto un principio generale e universale. 

L’altra tradizione che abbiamo proviene dall’antica Grecia. Qui c’erano leggi che furono stabilite non da qualche essere divino, ma da un re o un gruppo di persone, una legislatura. Queste sono leggi civili. Con esse abbiamo lo stesso problema dell’obbedienza alle leggi, le leggi civili, e se siamo dei buoni cittadini, siamo premiati e tutto va bene, e se disobbediamo alle leggi civili, siamo dei criminali e verremo puniti.

L’etica buddhista non si basa affatto sull’obbedienza, pertanto quando facciamo qualcosa di non etico, non è perché siamo disobbedienti e cattivi. Al contrario, quando ci comportiamo in modo distruttivo, è perché stiamo agendo sulla base delle emozioni disturbanti – avarizia, attaccamento, odio, rabbia, ingenuità eccetera. Questi tipi di emozioni sono distruttivi e si basano sull’inconsapevolezza, mentre il comportamento costruttivo non si basa sull’avarizia, la rabbia, l’ingenuità eccetera. Almeno al livello più fondamentale potrebbe basarsi ovviamente sulle buone intenzioni, ma spesso le buone intenzioni sono mischiate ad una totale ingenuità.

Quando agiamo in maniera distruttiva, o qualcun altro agisce in modo distruttivo, la ragione per cui fanno così non è perché sono disobbedienti e sono cattive persone; la ragione è che sono solo inconsapevoli delle conseguenze, semplicemente non sapevano. È un difetto della loro comprensione. La falena vola nella fiamma non perché è cattiva e ha disobbedito alla legge “Non andare nella fiamma”. Ha volato dentro la fiamma perché non aveva nessuna idea; era completamente inconsapevole. Questo è un esempio molto chiaro. La falena che vola nella fiamma ci ispira o ci porta a provare compassione, non a provare una rabbia indignata: “Sei una falena cattiva, devi essere punita!”.

Dunque il primo tipo di inconsapevolezza è l’inconsapevolezza di causa ed effetto del comportamento, e ciò che possiamo includere qui non è soltanto l’inconsapevolezza delle conseguenze del nostro comportamento su noi stessi, ma anche come questo processo effettivamente funziona. Le conseguenze non sono ricompense e punizioni dovute all’obbedienza o alla disobbedienza.

Quando si differenziano questi tre livelli o tre passi in cui si amplia progressivamente la rinuncia – rinuncia all’ossessione per il momento presente, solo per questa vita, o tutte le vite future – allora la prima causa di sofferenza a cui rinunciamo o che vogliamo abbandonare è la nostra inconsapevolezza di causa ed effetto. Agiamo in maniera distruttiva, magari desideriamo soltanto una gratificazione immediata e non sappiamo come questo influenzerà la nostra esperienza più avanti in questa vita, oppure agiamo in maniera distruttiva in questa vita in generale perché non capiamo, e siamo inconsapevoli di come questo influenzerà la nostra esperienza nelle vite future.

Distinguere il falso “io” dall’“io” convenzionale

C’è un secondo tipo di inconsapevolezza che è molto più profondo, che è l’inconsapevolezza della realtà, la realtà delle persone, di come noi e gli altri esistono. Nella gran parte delle spiegazioni buddhiste, questo è un tipo fondamentale di inconsapevolezza che trattiamo, ma nella presentazione buddhista più sofisticata, diciamo che è un’inconsapevolezza non soltanto di come esistono le persone, io e te, ma è anche l’inconsapevolezza di come tutto esista.

Questo ora ci porta a tutta la discussione sulla vacuità. Quello che avviene è che la nostra mente proietta fantasie di modi impossibili in cui le cose esistono. Ad esempio, riguardo “io” come persona, la mente tende a proiettare l’apparenza che ci sia un io separato e solido – un’entità che esiste in maniera indipendente, separata dal corpo, separata dalla mente, separata dalle emozioni. Possiamo parlare di questo su molti livelli differenti, ma il livello effettivo di cui si parla qui è che c’è un io conoscibile in modo autosufficiente, uno che può essere conosciuto da solo. Ciò significa che può essere conosciuto da solo senza conoscere, allo stesso tempo, nessun’altra cosa.

Quando ci guardiamo allo specchio, ad esempio, che apparenza abbiamo? “Io vedo me stesso nello specchio”. Diciamo questo, giusto? Sembra proprio così. Non pensiamo “Io vedo un corpo nello specchio, e sulla base di quel corpo, io vedo me stesso”. Quando sbattiamo il piede contro la gamba del tavolo nell’oscurità, noi diciamo “Mi sono fatto male”, come se potessimo conoscere quell’io indipendentemente dal piede e dal dolore. Quando diciamo “io conosco Patricio”, è come se potessimo conoscere Patricio a prescindere dal sapere l’aspetto del suo corpo, o dal conoscere qualunque cosa su di lui. È come se potessimo semplicemente conoscere Patricio. In maniera simile, noi crediamo “Io mi conosco”, oppure “Io non mi conosco”, o “Non sono me stesso oggi”, oppure “Devo trovare me stesso”.

Tutte queste cose sono indicative di questo tipo di apparenza che la nostra mente automaticamente produce come un io conoscibile, autosufficiente, che esiste in maniera indipendente. L’inconsapevolezza è che non sappiamo, siamo inconsapevoli del fatto che questo non corrisponda alla realtà. Con l’inconsapevolezza, in effetti crediamo che sia vero, che ci sia un io conoscibile in maniera autonoma, una certa entità con una grande linea solida attorno. Siccome ci identifichiamo con ciò che chiamiamo il “falso io” nel Buddhismo, noi agiamo in base a questo. Ci sentiamo insicuri al riguardo, e quindi dobbiamo difenderlo, dobbiamo affermarlo, dobbiamo provarlo, e dobbiamo migliorare noi stessi. Questo io solido e falso deve sempre avere ragione. È la cosa più importante nell’universo perché c’è una linea solida attorno ad esso: “Ci sono loro là fuori contro di me che sto qui”. “Devo avere ragione”. Poi ci arrabbiamo quando non otteniamo ciò che vogliamo, e in base a questo agiamo in modi distruttivi.

Questa è la forma più comunemente accettata di inconsapevolezza in questo contesto. È accettata da tutte le presentazioni buddhiste. Questo tipo di io con una linea solida attorno ad esso, che è davvero un’esagerazione, è impossibile. Non corrisponde a nulla di reale. Quando parliamo della vacuità, ciò di cui stiamo parlando è l’assenza di questo modo impossibile di esistere di questo io impossibile. Inoltre, quando diciamo “assenza”, non intendiamo semplicemente che ad esempio qualcuno sia assente da questa stanza ma sia presente altrove. Stiamo parlando di un’assenza assoluta, che non c’era mai una cosa del genere. È questa la vacuità, in parole povere. Non vuol dire tuttavia che non esistiamo affatto. Noi esistiamo; l’“io” che esiste è ciò che si chiama l’“io” convenzionale.

Possiamo comprendere la differenza tra l’“io” convenzionale e il falso io con un esempio molto semplice: sono seduto su questa sedia. Beh, questo corpo è seduto sulla sedia, giusto? Ci sono due cose differenti che sono sedute su questa sedia, il corpo e io? Sono due cose separate, indipendenti? Ci sono grandi linee solide attorno ad essi? Puoi vedere un io che si siede sulla sedia indipendentemente dal vedere il corpo sulla sedia? No, ovviamente no; questo è impossibile, eppure sembra così. Sembra che Io, con una grande linea attorno, sono seduto su questa sedia. Non entra nemmeno nel mio modo di pensare che c’è un corpo su questa sedia. Ma andiamo addirittura oltre a questo. Pensiamo: “È la mia sedia, non la tua sedia, quindi tu non sederti sulla mia sedia!”.

Il falso io, l’io impossibile, è uno che esiste in maniera separata ed è conoscibile separatamente, indipendentemente dal corpo, in questo caso. L’“io” convenzionale è uno che si conosce in relazione al corpo, e non come un’entità separata, solida e indipendente.

Questo è molto profondo quando pensiamo in termini degli stati mentali: “Io sono depresso”, “Io sono triste”,  come se ci fosse un io separato dall’esperienza di una sensazione mentale, un sentimento mentale, che cambia ogni momento. “Osserva quella persona triste, quella persona depressa”. “Io sono una persona così triste e depressa”, indipendente dai momenti mutevoli dell’esperienza. L’io impossibile è questo separato,  “povero me”, mentre quello convenzionale, che esiste veramente, è un “io” che si conosce nei termini dei momenti mutevoli dell’esperienza.

Noi crediamo in questo falso io, che è impossibile, perché sembra che ci sia un io separato, conoscibile in sé e per sé, indipendente dal corpo, dalla mente, dalle emozioni, tutte queste cose. Noi ci crediamo, siamo inconsapevoli che è falso, e in base a questo, agiamo in modi distruttivi oppure in modi costruttivi ma ingenui. Per difendere questo io, spesso agiamo in maniera distruttiva: “Mi sento minacciato da ciò che hai appena detto, quindi devo urlarti contro”. Oppure agiamo in maniera costruttiva, ma con un sottofondo di ingenuità: “Sono carino con te, faccio belle cose per te perché voglio essere amato, voglio essere apprezzato”. 

Alla fine, tutta questa confusione gira attorno alla credenza in questo io falso. Come risultato di crederci e di agire su questa base, sperimentiamo la rinascita che si ripete in maniera incontrollabile come la base continua per provare la sofferenza dell’infelicità e la sofferenza del cambiamento, questa felicità ordinaria. Questa è la sofferenza onnipervasiva. Ogni cosa che sperimentiamo – stiamo parlando del samsara – è il risultato del comportamento basato su questa inconsapevolezza, attraverso ciò che chiamiamo il karma. La cosa più orribile riguardo a questo è che si perpetua da solo. Continua ad esserci questa sensazione di un io solido che sta sperimentando questo karma, e sulla base di questo risultato karmico, produciamo più cause. Ne accumuliamo di più perpetuando il processo. Per questo le situazioni samsariche sono così orribili, perché continuano sempre a meno che non facciamo qualcosa al riguardo.

Identificare correttamente la causa della sofferenza

La sofferenza onnipervasiva, ovvero il samsara, la rinascita che si ripete in maniera incontrollabile, e qualunque cosa che accade in ogni rinascita, continua semplicemente ad avere alti e bassi, alti e bassi, e non va da nessuna parte. Questa è la sofferenza onnipervasiva, il terzo tipo di sofferenza, che viene spiegata e affermata solo nel Buddhismo. Quando parliamo della vera rinuncia, stiamo rinunciando a questo. Siamo determinati ad essere liberi da questo problema onnipervasivo del samsara e dalla sua causa, questa inconsapevolezza.

Puntiamo alla completa liberazione dal samsara, ovvero il “nirvana”, grazie al quale una simile rinascita non si ripeterà mai più. Non vogliamo semplicemente prenderci una vacanza dal samsara; vogliamo sbarazzarcene completamente; questo si chiama il “vero arresto” o “vera cessazione”, affinché non si ripeta mai più. Questo è specificatamente buddhista.

Ora, semplicemente voler essere liberi dalla rinascita che si ripete in maniera incontrollabile di per sé non è specificatamente buddhista, perché tutte le altre religioni indiane utilizzano le stesse parole: “samsara” e una parola un po’ differente, che utilizza anche il Buddhismo per la liberazione, “moksha”. Puntano alla stessa cosa: la liberazione dal samsara, dalla rinascita che si ripete in maniera incontrollabile. Non c’è nulla di specificatamente buddhista al riguardo. Ciò che è distintamente buddhista è l’identificazione corretta della vera causa della sofferenza, la vera causa del samsara, e rinunciare a questa, sviluppare la determinazione ad essere liberi da tale causa.

Nel processo di avere questa rinuncia, sebbene il nostro focus principale consista nell’abbandonare la sofferenza onnipervasiva, la vera causa, avremmo bisogno di essere disposti ad abbandonare le circostanze che alimentano di più il samsara. In effetti, siamo disposti ad abbandonare qualunque cosa sia necessaria per poterci liberare da questa sofferenza onnipervasiva. Questo è incredibilmente avanzato. Sostanzialmente siamo disposti a liberarci da ogni cosa che conosciamo della nostra esperienza. Questo è davvero molto radicale perché ogni cosa della nostra esperienza è samsara, questa sofferenza onnipervasiva.

Possiamo capire perché Tsongkhapa suggerisce qui uno stadio preliminare a questo tipo di rinuncia. È un po’ troppo passare direttamente a questo livello di rinuncia. Per noi occidentali, persino questo passo preliminare suggerito da Tsongkhapa è troppo avanzato per molti di noi. Abbiamo bisogno di un passo preliminare, e così progrediremo attraverso questi livelli differenti di rinuncia.

Per avere questa rinuncia davvero con sincerità, ricordate che va in due direzioni: una punta alla sofferenza e vuole sbarazzarsene, mentre l’altra mira alla liberazione per raggiungere tale stato. Richiede una corretta identificazione dell’oggetto che siamo determinati ad eliminare, e dell’oggetto o stato che vogliamo ottenere. Dobbiamo riconoscere correttamente entrambi e sapere cosa sono.

Inoltre, dobbiamo essere convinti che sia possibile sbarazzarsi di questa sofferenza e le sue cause per sempre, e che sia possibile raggiungere questo stato di liberazione. I due ovviamente sono interconnessi; non è che possiamo raggiungerne solo uno e non l’altro.  E non possiamo semplicemente basarci sulla fede cieca “Beh, il Buddha disse così”, oppure “Il mio maestro dice così, quindi ci credo. Voglio essere un buon discepolo, obbediente, e obbedirò e non dirò nulla”. Il Buddha stesso disse: “Non accettate mai qualcosa che dico semplicemente per rispetto verso di me ma testatelo voi stessi come se steste comprando dell’oro”. Dobbiamo davvero essere convinti tramite la logica e la ragione che effettivamente è possibile raggiungere la liberazione; altrimenti il nostro desiderio di raggiungerla non sarà sincero, non può essere stabile.

La questione del bodhichitta, che vuol dire abbandonare l’incapacità di aiutare chiunque puntando, invece, a raggiungere l’illuminazione – quello stato in cui saremo in grado di aiutare tutti – ha una struttura simile alla rinuncia. Tuttavia, quando parliamo del bodhichitta, solitamente non includiamo questo aspetto della rinuncia: “Voglio abbandonare questa incapacità”. L’enfasi è sull’ottenere l’illuminazione per un obiettivo specifico: quello di aiutare tutti il più possibile.

Ciononostante, abbiamo bisogno di affrontare la stessa questione sia con la rinuncia che con il bodhichitta, ovvero: è possibile raggiungere effettivamente la liberazione dal samsara, dalla rinascita che si ripete in maniera incontrollabile e dalla sofferenza? È davvero possibile raggiungere l’illuminazione, lo stato in cui saremmo in grado di aiutare tutti al massimo delle nostre capacità? Ovviamente, abbiamo bisogno di riconoscere quali sono questi due stati. In aggiunta, è possibile ottenerli? Dobbiamo anche essere convinti che “io personalmente sono capace di fare questo”, non solamente in generale “È possibile?”. E non, “Il Buddha fu capace di farlo, e queste altre persone sono in grado di farlo, ma sono troppo stupido. Non sono bravo, quindi non posso farcela”.

Per essere convinti di questo, abbiamo bisogno di comprendere la natura della mente e ciò che chiamiamo “natura di Buddha”, e per entrambe è necessaria una comprensione della vacuità.

Domande

Stai parlando di raggiungere l’illuminazione per essere in grado di aiutare gli altri, ma possiamo notare come questi altri sono anche molto, molto confusi in termini di quel falso io, e quando cerchi di aiutarli, si arrabbiano, non si lasciano aiutare eccetera. Come possiamo davvero aiutarli?

Innanzitutto, con la pazienza. Il sentiero dei bodhisattva implica molti differenti stati mentali positivi e costruttivi che abbiamo bisogno di sviluppare che ci consentiranno di aiutare gli altri, e ci offre molti metodi per ottenerli. Abbiamo bisogno di sviluppare l’equanimità, con cui non abbiamo dei favoriti; siamo aperti ad aiutare tutti allo stesso modo. Abbiamo anche bisogno di amore, il desiderio che gli altri siano felici e abbiano le cause per la felicità, e la compassione, il desiderio che gli altri siano liberi dai problemi e dalle cause dei problemi. Inoltre, abbiamo bisogno dell’atteggiamento con cui ci prendiamo la responsabilità di fare effettivamente qualcosa al riguardo e non solo la responsabilità di aiutarli un poco superficialmente, ma la piena responsabilità di aiutarli a raggiungere l’illuminazione. Per fare questo abbiamo bisogno di raggiungere noi stessi l’illuminazione in modo da poterli aiutare il più possibile. Questo è il bodhichitta; puntiamo alla nostra illuminazione individuale.

Sviluppiamo questo atteggiamento per cui “Cercherò di aiutare tutti allo stesso modo, senza scoraggiarmi, e senza abbandonare nessuno solo perché sono difficili”. Poi abbiamo bisogno di ciò che chiamiamo gli “atteggiamenti lungimiranti”, tradotti a volte con le “perfezioni”: l’essere molto generosi, dare agli altri il nostro tempo, la nostra energia, non soltanto dei fiori! Inoltre, l’avere autodisciplina etica per astenerci dal compiere qualunque azione dannosa, la disciplina per addestrarci effettivamente, e la disciplina per aiutare veramente gli altri, anche quando non ne abbiamo voglia. La pazienza di non arrabbiarsi o scoraggiarsi quando non vogliono il nostro aiuto oppure quando ciò che suggeriamo non funziona. La perseveranza che non molleremo, che continueremo sempre, e l’amore per quello che stiamo facendo, lavorare su noi stessi e cercare di aiutare gli altri: questo ci dà tanta gioia.

Poi c’è la stabilità mentale, e ciò non significa semplicemente la concentrazione, è anche la stabilità emotiva. Non avremo sbalzi d’umore tutto il tempo e non ci distrarremo,  “Sono attratto da questa persona perché è così bella”. E ovviamente, la consapevolezza discriminante per essere in grado di distinguere ciò che è utile da ciò che è dannoso, tra la realtà e ciò che è soltanto una proiezione o una fantasia. L’addestramento dei bodhisattva è molto esteso in termini di sviluppare tutti questi aspetti nonché una vasta comprensione dei metodi abili eccetera, perché così saremo in grado di aiutare gli altri il più possibile.

Tuttavia, anche se diventiamo un Buddha, ancora non saremo in grado semplicemente di schioccare le dita ed eliminare in modo onnipotente la sofferenza di tutti. Se questo fosse stato possibile, il Buddha l’avrebbe già fatto. Possiamo dare consigli, possiamo aiutare il più possibile, ma l’altra persona deve accettare i consigli. Gli altri devono essere ricettivi; non possiamo forzare nulla. Come abbiamo visto, la causa più profonda della sofferenza di chiunque è la stessa: questa inconsapevolezza. Se siamo un Buddha, ciò che possiamo fare è spiegare nel modo più abile possibile – secondo il livello della persona – la realtà e tutto il resto. Il Buddha non può comprendere per qualcun altro; le persone stesse devono ottenere questa comprensione.

Hai parlato del fatto di prepararci per le nostre vite future e di lavorare per ottenerle, ma allora sembra che sia molto facile ottenere ulteriori rinascite umane o preziose rinascite umane. Ricordo di aver sentito che è molto, molto difficile. È questo il caso?

È molto, molto difficile ottenere una preziosa rinascita umana se non facciamo nulla per accumularne le cause. Non avverrà così facilmente solo come il risultato di ciò che abbiamo fatto un milione di vite fa. Dobbiamo creare ed accumulare con forza le sue cause ora, nel momento presente. Quali sono le cause principali? La causa più importante è l’autodisciplina etica. Questo è qualcosa che noi, come esseri umani, siamo unicamente in grado di fare. Gli animali non possono farlo. Gli animali sono sopraffatti dai loro istinti – il gatto torturerà il topo, e il leone caccerà. Siamo esseri umani e quindi possiamo esercitare l’autocontrollo.

Inoltre, ciò che è davvero importante è fare delle preghiere sincere per raggiungere una preziosa rinascita umana, il che non vuol dire preghiere come “Oh Buddha, dammene una se sono una brava ragazza o un bravo ragazzo e canto le tue lodi tutto il tempo”. È un modo molto forte di indirizzare la nostra intenzione e la nostra energia positiva, specificatamente con una dedica: “Grazie alla forza positiva di tutte le cose costruttive che ho fatto e sto facendo, che io possa raggiungere l’illuminazione. Per ottenere l’illuminazione, ho bisogno di continuare ad avere preziose rinascite umane che mi consentiranno di continuare a lavorare per raggiungere quella illuminazione. Che io possa sempre avere una preziosa rinascita umana, incontrare sempre il Dharma, che io possa sempre essere curato da insegnanti veramente qualificati in tutte le mie vite fino all’illuminazione”. È importante fare preghiere specifiche.

Al monastero di Ganden in Tibet, c’era un trono, una sedia molto alta del capo dell’ordine Gelugpa, il trono di Ganden. Un giorno – ci sono animali anche nel monastero – una mucca entrò nel tempio e si sedette sul trono. I monaci erano molto sorpresi da questo, e chiesero a un grande maestro del posto, “Qual è la causa di questo?”. Il maestro rispose: “In una vita precedente, questo essere pregò di potersi sedere sul trono di Ganden ma non era stato molto specifico”.

In aggiunta all’autodisciplina etica e alle preghiere specifiche, abbiamo anche bisogno di unire tutto ciò agli altri atteggiamenti lungimiranti di generosità, pazienza, perseveranza, stabilità mentale e consapevolezza discriminante. Queste sono le cause per una preziosa rinascita umana.

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