Oggi parleremo della compassione, la grande compassione, e il bodhichitta. Cercherò di essere conciso. C’è molto materiale da approfondire.
Sviluppare la compassione
Sebbene potremmo sapere qualcosa su come praticare, quello che ci manca nella vita quotidiana è l’azione reale. Il motivo è che ci manca la rinuncia, la determinazione ad essere liberi dalla sofferenza. Se non c’è rinuncia, nemmeno un poco, la nostra pratica non avrà molto impatto nella nostra vita. Per sviluppare la rinuncia, la cosa più importante è contemplare l’impermanenza.
Non contemplare l’impermanenza indebolisce la nostra pratica. Ecco perché il Buddha e altri grandi maestri ci esortano sempre a meditare sull’impermanenza, in modo tale da poter vedere su cosa stiamo sprecando il nostro tempo. Certamente, una volta che abbiamo questa determinazione ad essere liberi dalla sofferenza, sentiremo di voler spendere più tempo nella pratica del Dharma. Quando pratichiamo e vediamo come sia possibile eliminare le cause della sofferenza, comprenderemo come sia anche possibile non rinascere più nel samsara. E allora punteremo al moksha – la liberazione – uno stato dove non c’è più sofferenza. Questa è la felicità autentica.
È come quando qualcuno ha un’emicrania, siamo dispiaciuti per lui, ma ci sentiamo anche fortunati di non averne una. Siamo molto fortunati. È la stessa sensazione. Se sapessimo come curare l’emicrania, sarebbe terribile se non dicessimo alla persona come fare. È questo ciò che fanno i bodhisattva. Cercano di capire immediatamente come possono aiutare qualunque essere che incontrano. Ci vuole molto tempo per avere una motivazione del genere, che chiamiamo bodhichitta. Una volta ottenuta la liberazione, vorremo dare questa stessa liberazione a tutti gli altri esseri.
La grande compassione proviene dalla compassione. Tutti noi abbiamo un po’ di compassione dentro, e questa è la nostra grande speranza. È uno dei fattori della “natura di Buddha” che noi tutti abbiamo. Il problema è che la nostra compassione è limitata e solitamente mischiata all’attaccamento. Una compassione del genere non è pura e, fondamentalmente, non è di grande beneficio. Ad esempio, quando una madre vede che sta accadendo qualcosa a suo figlio, lei si preoccuperà molto. Ma quando accade qualcosa agli altri bambini, potrebbe sentirsi triste, ma non farà molto per aiutare. Al momento, è difficile mettersi nei panni degli altri e sentire la loro sofferenza. Una delle ragioni principali è che in effetti non vogliamo farlo. Di solito vogliamo ignorare la sofferenza degli altri. Siamo egoisti. Per prenderci cura degli altri, dobbiamo valorizzarli in un modo differente.
Nel Buddhismo tibetano, amiamo dibattere. Dibattiamo molto sulla differenza tra la compassione degli arhat e quella dei bodhisattva. Gli arhat hanno molta compassione, molta di più di noi, ma è limitata; si concentrano principalmente sul liberarsi dall’esistenza che si ripete in maniera incontrollabile, e sebbene certamente cerchino di aiutare gli altri, diciamo che la loro compassione sia ‘misurabile’ perché c’è un limite. Oggi potrebbero praticare per cento esseri, domani per duecento, e poi finisce lì. I bodhisattva non sono così. La loro compassione è totalmente incommensurabile. Non lascia fuori un singolo essere.
È come una madre che vede il figlio annegare nel fiume. La compassione di un bodhisattva è come quella di una madre con le braccia – si tufferebbe immediatamente nel fiume per cercare di salvare suo figlio. La compassione di un arhat viene descritta come quella di una madre senza braccia. La madre vede il figlio che annega e vuole aiutare, ma sente che “Se mi tuffo e poi non riesco a nuotare, non sarò in grado di aiutarlo molto, non c’è molto che io possa fare”. Perde la speranza perché c’è ancora un po’ di egoismo.
Lama Tsongkhapa ne scrive nel suo Lam-rim chen-mo, una Grande Presentazione del sentiero graduale per l’illuminazione. Per sviluppare grande compassione nelle nostre menti, abbiamo bisogno di vedere innanzitutto che ci sia in effetti un metodo per uscire dall’esistenza che si ripete incontrollabilmente. E poi abbiamo anche bisogno di conoscere un po’ la verità più profonda – il fatto che ogni cosa è priva di modi impossibili di esistere. Dobbiamo vedere questa verità, questa realtà dell’esistenza. Vedendo questa realtà, e il fatto che c’è una via d’uscita dall’esistenza che si ripete incontrollabilmente, proviamo grande speranza. Riusciamo a capire che è possibile aiutare veramente gli altri.
Quando vediamo come non ci sia nessuna vera esistenza a cui aggrapparsi, sentiamo come tutto sia simile a un’illusione. Vedere questo crea meno attaccamento al sé e diminuisce anche la distanza che abbiamo con gli altri.
La comprensione della vacuità toglie via la colla che ci vincola al samsara. Quando conosciamo la verità più profonda di tutto, ci rendiamo conto come non ci sia nulla a cui aggrapparsi. Poi, sedendoci sul nostro cuscino, possiamo facilmente scambiare noi stessi con qualcun altro senza nessun problema, e possiamo prendercene cura proprio come ci prenderemmo cura di noi stessi.
Uno dei problemi più grandi creati dal non conoscere la verità più profonda è l’egoismo. Siccome sentiamo di essere così indipendenti e solidi, ci prendiamo cura soltanto di noi stessi e di qualunque cosa o persona vicina a noi. Anche quando possiamo vedere come gli altri esseri senzienti siano così gentili con noi, il pensiero di ripagare realmente la loro gentilezza è molto difficile. Questo è tutto dovuto al nostro egoismo.
Tutti gli esseri sono stati nostra madre
Per liberarci dall’egoismo, dobbiamo cercare di considerare tutti gli esseri come fossero nostra madre. Ovviamente, nel Buddhismo, siccome crediamo nelle rinascite senza inizio, logicamente può significare che a un certo punto, ogni singolo essere sia stato nostra madre. Non possiamo dire che ci sia una grande differenza tra la gentilezza di nostra madre in questa vita e la gentilezza di nostra madre in una vita differente. È semplicemente un fatto di ricordarla o meno. Abbiamo bisogno di riflettere molto su questa domanda, in modo tale da arrivare a comprendere come gli altri esseri siano come nostra madre, e pertanto dobbiamo ricordarci della loro gentilezza. La cosa più difficile da fare è ripagare effettivamente la loro gentilezza. Al giorno d’oggi, sembra che i figli non abbiano la capacità di prendersi cura dei loro genitori offrendo loro tempo, pazienza, o anche solo un sorriso. Dunque, se è difficile fare questo per i nostri stessi genitori, immaginiamo quanto sia difficile sviluppare il pensiero di ripagare la gentilezza di tutti gli esseri senzienti.
Tuttavia, una volta che abbiamo sviluppato una compassione molto forte e compreso l’assenza di un sé che possa esistere in modi impossibili, vediamo tutti i fenomeni come se fossero un’illusione. Quando sentiamo come non ci sia nulla di solido nell’esistenza, sentiremo automaticamente come tutto sia interdipendente e connesso. Vediamo come tutto sia connesso a tutto il resto. E vedremo anche il bisogno di prendersi cura gli uni degli altri.
La pratica del bodhichitta è così importante. Senza il bodhichitta, ci fermeremmo a questo livello in cui desideriamo ripagare la gentilezza degli altri. Ma, per iniziare, abbiamo davvero bisogno di contemplare come tutti gli esseri siano stati nostra madre e pensare a quanto siano stati gentili con noi. La prossima volta che usciamo e diamo qualche spicciolo a un mendicante, invece di pensare solo che saranno in grado di farsi una tazza di tè caldo, cercate di pensare: “Questa persona mi ha aiutato molte volte nelle mie vite precedenti, questa è la mia possibilità di ripagare la sua gentilezza”.
Lo scopo della nostra vita è di raggiungere l’illuminazione piena. Dare un po’ di soldi a un mendicante è qualcosa, ma effettivamente, l’unico modo per poter aiutare gli altri pienamente e veramente è di raggiungere l’illuminazione piena e perfetta.
A volte quando siamo fuori, potremmo notare una formica che cammina sulla nostra pelle. Prima di soffiarci sopra per farla andare via, riflettete per un attimo, pensate a come vorreste aiutare questo piccolo essere. Quando il grande maestro Atisha vedeva un asino, con tutta la sua attenzione si avvicinava dicendo “Ciao mamma”. Questa era la sua pratica. E Sua Santità il Dalai Lama, dovunque vada e chiunque incontri, tiene per mano le persone. Questa è la pratica del bodhichitta. Potrebbe semplicemente salutare come il presidente Trump, ma Sua Santità prende per mano le persone, per mostrare la sua connessione con ciascun essere.
Abbiamo bisogno di seguire a poco a poco gli schemi comportamentali che notiamo in questi grandi esseri, in modo tale che anche noi potremo valorizzare gli altri esseri senzienti. Poi cominceremo a sentire che lo scopo principale di nascere in questo mondo come esseri umani con un cervello molto intelligente è di aiutare gli altri. Non vorremo sprecare questa opportunità che abbiamo. Questa preziosa vita umana che abbiamo è buona non solo per me, ma anche per tutti gli altri.
Quando i grandi maestri pregano, quando visualizzano gli esseri senzienti, li immaginano tutti, a prescindere dalle loro forme differenti. Quando parliamo di sviluppare la compassione in noi stessi, abbiamo bisogno di concentrarci sugli esseri senzienti – tutti gli esseri senzienti. Con il nostro cuore umano e un cervello intelligente, possiamo far rientrare tutti gli esseri senzienti nelle nostre preghiere. Anche se odiamo il nostro nemico o qualcuno non ci piace, grazie alla nostra grande intelligenza umana, con la compassione possiamo includere tutti nei nostri pensieri. Se possiamo farlo, non dovremmo sentirci come una persona comune. Ora diventiamo persone straordinarie, perché la nostra pratica del bodhichitta è superba. Non appena sviluppiamo il bodhichitta, quando vediamo qualcuno, sentiremo automaticamente di volerli abbracciare. Proveremo naturalmente amore per gli altri, e ci sentiremo vicini a tutti. Questo dovrebbe essere il regalo della nostra pratica.
Il Buddha diede un voto speciale ai bodhisattva, perché gli disse di non rimanere per troppo tempo in meditazione, ma di uscire e aiutare gli altri. Come fanno ad aiutare gli altri? In assorbimento totale, vedono la vacuità di tutti i fenomeni. Quando riemergono da tale stato di concentrazione assorta, hanno il potere di vedere tutti i fenomeni come un’illusione. Grazie a questo, senza afferrarsi a nulla, possono aiutare gli esseri senzienti. Questo è il metodo principale per aiutare tutti gli altri. Ora siamo pronti a tornare al testo.
Affrontare l’arroganza
(17) La pratica di un bodhisattva è, anche se un individuo, nostro pari o inferiore, dovesse trattar(ci) in modo offensivo per il potere della sua arroganza, di riceverlo sulla cima della nostra testa con rispetto, come un guru.
Vedere il nostro nemico come il nostro guru è davvero difficile. Ma se manca questo alla nostra pratica, non possiamo raggiungere l’illuminazione piena.
Assumersi la sofferenza di tutti gli esseri senzienti
(18) La pratica di un bodhisattva è, anche se siamo privi di mezzi di sostentamento e insultati sempre dalla gente, o ammalati con terribili malattie, o afflitti da fantasmi, di accettare su noi stessi, in risposta, le forze negative e le sofferenze di tutti gli esseri erranti e non scoraggiarsi.
Qui stiamo parlando della meravigliosa pratica di dare e ricevere, conosciuta come tonglen in tibetano. Quando dovremmo praticarla? Beh, dovremmo sempre praticarla, ma è specialmente utile quando ci sentiamo disperati. Sapete, a volte dobbiamo giocare un po’ con la nostra mente. Immaginate di provare molto dolore e qualcuno viene da noi e ci dice, “Tu stai soffrendo, ma c’è qualcun altro che sta soffrendo più di te”. Paragonano la nostra sofferenza a quella di qualcun altro. La nostra sofferenza fisica non diminuirebbe necessariamente, ma al livello mentale, questo ci offre un segno che la nostra sofferenza è piccola se la paragoniamo a sofferenze più grandi. In un certo senso, automaticamente il nostro dolore diminuisce.
Quando Sua Santità ebbe problemi con dei dolorosi calcoli biliari, fu portato in ospedale e, dal finestrino della macchina vide molti mendicanti indiani impotenti. Vide che non avevano nulla, nemmeno qualcosa da mangiare. Eppure, ridevano e giocavano. Sua Santità vide che la loro condizione era terribile, ma comunque riuscivano a sorridere, e così il dolore di Sua Santità diminuì automaticamente.
I bodhisattva non se ne stanno con le mani in mano quando gli esseri soffrono. Cercano realmente di farsi carico delle sofferenze degli altri. Si sentono così tristi quando vedono la sofferenza di tutti gli altri, tanto che le sofferenze che provano sono nulla al confronto. Così cercano di farsi carico delle sofferenze degli altri, dando in cambio piacere e felicità. Questo è un metodo di visualizzazione. Nella pratica, non possiamo dare la nostra felicità o farci carico delle loro sofferenze. La felicità che abbiamo ottenuto è nostra; non possiamo darla agli altri.
Gli insegnamenti si concentrano sulla legge di causalità. Il Buddha ha affermato nei sutra che per tutte le emozioni negative che abbiamo, dobbiamo studiare la vacuità e ottenere l’illuminazione noi stessi. Non possiamo purificarci lavandoci nel Gange. E certamente non posso posare le mie mani su di voi eliminando tutti i vostri problemi e le sofferenze. Questa è una regola ferrea della causalità.
Quando scambiamo la nostra felicità per la sofferenza degli altri, questo nella pratica è una cosa molto positiva per noi. Grazie a questo metodo, la compassione può aumentare in noi, possiamo fare più spazio nei nostri cuori per gli altri. Ovviamente, si avvicineranno pure alcune persone cattive, e abbiamo bisogno di essere pronti per loro. In effetti, abbiamo bisogno di essere pronti per tutti gli esseri senzienti. Una volta che apriamo i nostri cuori in questo modo, è come essere ricchi e dare la nostra carta di credito a tutti lasciando che la usino per i loro acquisti. I bodhisattva condividono qualunque cosa posseggano. E la condividono con tutti, non solo con le persone che sono gentili con loro. Vedono come non ci sia nulla a cui afferrarsi. Qualunque cosa abbiano, è proprietà di tutti. Si sentono connessi a tutti.
Questo non significa che permettono agli altri di sfruttarli. Hanno la saggezza e la fiducia di poter affrontare tutti gli esseri senzienti. Questa è la pratica del bodhisattva. Grazie a questa saggezza e fiducia, aprono i loro cuori a tutti, danno agli altri tutte le loro buone cose, e si fanno carico di tutto il dolore degli altri. Se non abbiamo questa saggezza e fiducia per affrontare gli altri, è meglio non correre il rischio. Non siamo ancora dei bodhisattva, ma ci possiamo provare. Abbiamo i nostri limiti, ma possiamo ampliare lentamente i nostri orizzonti.
Dare via la nostra felicità a tutti gli esseri senzienti
(19) La pratica di un bodhisattva è, anche se siamo dolcemente elogiati, con molti esseri erranti che si inchinano a [noi] con le loro teste, o abbiamo ottenuto (ricchezze) paragonabili alla fortuna di Vaishravana (il Guardiano della Ricchezza), di non essere mai presuntuosi, vedendo come la prosperità mondana non abbia nessuna essenza.
Può essere molto pericoloso quando siamo famosi e ricchi, quando abbiamo tutto quello che potremmo mai desiderare. Questo è in effetti il pericolo più grande, perché ci fa sentire orgogliosi e arroganti. Alcuni potrebbero studiare il tibetano e pensare di conoscere così bene la lingua, da sentirsi migliori di altri buddhisti che non parlano tibetano. Oppure potrebbero avere un dottorato in letteratura e, quando ascoltano gli insegnamenti di grandi maestri, automaticamente i loro cervelli giudicheranno l’inglese del maestro. È molto difficile imparare dagli altri se ci sentiamo migliori di loro.
È come Sua Santità il Dalai Lama, che in effetti parla molto bene in inglese, ma ovviamente non è madrelingua e non ha studiato molta grammatica. Dunque, se ascoltiamo il suo inglese, potremmo notare alcuni errori. Ma a persone come noi, che hanno la motivazione di ascoltare realmente gli insegnamenti di Sua Santità per aiutare noi stessi e gli altri, non importa affatto. Non giudicheremmo mai il suo inglese.
Penso che la maggior parte degli esseri umani voglia mettersi in mostra. Quando compro qualcosa, noto che il piacere più grande sembra essere l’attesa del pacco che ho ordinato. Non appena apro il pacco, il piacere svanisce! Ma poi, il prossimo piacere arriva quando faccio una festa con i miei amici e voglio mostrare il mio nuovo acquisto. Questo sono io! Beh, forse non sono l’unico ad avere questo problema, forse lo avete anche voi. Con questo verso, Togme Zangpo dice che qualunque ricchezza abbiamo in questo mondo – anche se possedessimo la ricchezza non solo degli umani ma di tutti gli dèi – dobbiamo sempre rimanere umili.
Questo è davvero un consiglio eccellente. A Dharamsala, ho sentito che alcuni anziani tibetani dicono ai loro figli e nipoti che devono stare molto attenti a non mettersi in mostra. Come rifugiati, i tibetani ricevono molte donazioni da varie organizzazioni internazionali e ci sono persino fondi speciali del governo. Quindi ho sentito dire da questi anziani che dovrebbero essere molto umili perché se ci mettiamo in mostra, agli indiani locali questo non piacerà. Le condizioni di vita dei locali non sono granché, ma la gran parte di loro non riceve nessuna assistenza speciale, e dunque se noi veniamo nella loro comunità costruendo hotel e negozi sofisticati, questo potrebbe creare problemi. Mettersi in mostra crea nemici. E poi ci sarebbe maggiore competizione. Questi anziani tibetani stavano dando davvero dei buoni consigli alle generazioni più giovani.
Non sto dicendo che non dovremmo avere ricchezza, Certamente, è importante avere un po’ di ricchezza e usarla per aiutare gli altri e la nostra famiglia. Ma se ci sentiamo ansiosi quando dobbiamo separarci da essa e pensiamo che “Questa ricchezza è solo mia”, allora questo è segno di un forte attaccamento.
Questo mi fa pensare al VII Dalai Lama. Era il re del Tibet e viveva nel magnifico palazzo del Potala, ma era anche un grande praticante che diceva: “Anche se sono un re e un monaco, ci sono solo due cose che desidero: la mia tonaca gialla e la ciotola per l’elemosina. Queste sono le uniche due cose che possiedo. Tutte le altre cose nel Potala sono proprietà del popolo tibetano”. È meraviglioso vivere così, senza nessuna presunzione.
Superare l’ostilità e l’attaccamento
(20) La pratica di un bodhisattva è di domare i nostri continua mentali con le forze armate di amore e compassione perché, se non abbiamo soggiogato il nemico, che è la nostra stessa ostilità, allora anche se abbiamo soggiogato un nemico esterno, ne arriveranno di più.
Direi che sebbene questo verso citi le forze armate di amore e compassione, parla anche della pazienza. Se non abbiamo pazienza, se qualcuno dice anche una piccola cosa su di noi, vogliamo contrattaccare o ottenere giustizia. Ma quando siamo pazienti, un grande beneficio è che non avremo molti nemici. Quando pratichiamo la pazienza, non ci sono nemici che possano danneggiarci. Questa comunque non è una pratica semplice. Ma una volta che abbiamo praticato la pazienza e l’amore anche verso gli altri, saremo pronti a perdonarli facilmente.
Qualche anno fa in America, una famiglia tibetana che stava viaggiando in macchina con un bambino appena nato ebbe un terribile incidente e il bimbo morì, la madre fu gravemente ferita, e il padre rimase incosciente. Questa notizia fece scalpore. Il padre rilasciò un comunicato, dicendo che la persona che aveva causato l’incidente non aveva nessuna intenzione di uccidere suo figlio. Nel comunicato, il padre scriveva inoltre che lo perdonava e che non doveva sentirsi in colpa di quanto accaduto per il resto della sua vita. Questo era un chiarissimo segno della pratica di questa persona. Erano pronti a perdonare qualcuno, anche per qualcosa di così devastante.
Poi una volta, al Tibetan Children’s Village [il villaggio dei bambini tibetani], stavano praticando per la celebrazione di un anniversario. C’era un muro grande e un bambino lanciò una freccia, che per caso colpì il corpo di un altro bambino che stava facendo altre cose dall’altro lato del muro. Portarono il bambino in ospedale dove lo operarono d’urgenza, ma sfortunatamente il bambino morì. Avevano sentito che il padre del figlio era un grande e grosso Khampa – i Khampa sono spesso dei feroci guerrieri – e quindi tutti erano preoccupati che sarebbe impazzito. Il padre chiese cosa fosse accaduto e ascoltò attentamente. Poi, sorprendentemente, chiese di vedere il bambino che aveva lanciato la freccia. Lo abbracciò dicendogli di non preoccuparsi perché non aveva nessuna intenzione di fare del male a suo figlio: “Ho perso mio figlio, ma ora puoi essere tu mio figlio? Dovresti continuare a studiare e non dimenticarti mai di chi sei e della tua tradizione”. Ci vuole pratica per arrivare a questo.
Questi padri non hanno nemici. Non provano rancore per le persone che hanno causato le loro perdite. Se sconfiggi il nemico interiore, fuori non troverai un nemico.
Abbandonare gli oggetti del desiderio
(21) La pratica di un bodhisattva è di abbandonare immediatamente qualunque oggetto che provochi l’aumento del nostro attaccamento e dell’aggrapparsi, poiché gli oggetti del desiderio sono come l’acqua salata: più ci siamo concessi (a loro, la nostra) sete (per questi) aumenta (a sua volta).
Questo è un verso molto importante. Il Buddha creò vari voti per i monaci e le monache, inclusi i voti del celibato, per liberarsi da cose che creano più attaccamento. Il Buddha lasciò il palazzo, sua moglie e suo figlio perché sentì che andandosene avrebbe potuto fare molto di più per loro. Stavo parlando con alcuni amici miei in California della storia del Buddha e uno aveva una faccia triste e mi interruppe. Disse, “Se il Buddha fosse ancora vivo, lo manderei in tribunale! Come osa lasciare suo figlio neonato e la moglie!”.
Ovviamente, questo è un modo di pensare. Da un punto di vista, potremmo pensare che il Buddha sia stato molto egoista a lasciare la famiglia. Ma in effetti, il Buddha non stava pensando affatto al suo benessere. Voleva davvero cercare una via d’uscita per la sofferenza di tutti gli esseri, sua moglie e suo figlio inclusi. Certamente, sarebbe stato molto più comodo per lui se non se ne fosse andato. Viveva nel palazzo reale, dopotutto, con tutti i suoi bisogni soddisfatti. E invece decise di andarsene per cercare un modo di porre fine alla vecchiaia, la malattia, e la morte. Come sappiamo, ebbe successo nella sua missione.
È molto difficile indicare quello che crea maggiore attaccamento in noi. Per la maggior parte delle persone, penso sia il corpo. Altre cose sono ovviamente più temporanee. Lo sappiamo. Compriamo cose e poi le buttiamo, quindi anche se proviamo attaccamento per queste cose, non è difficile per noi lasciarle andare. Ma questo corpo è sempre con noi, fino a quando siamo vivi. Quando la coscienza lascia il corpo, sentiamo come se stessimo perdendo il mondo intero.
Per molti di noi è difficile morire. Non tutti possono essere come Milarepa e morire in uno stato di totale felicità e gioia. Ma, grazie alla guida e l’ispirazione di Sua Santità il Dalai Lama e altri grandi maestri, possiamo addestrare la nostra mente per essere capaci di affrontare la morte. Prima di morire, ovviamente, dobbiamo allenarci a diminuire il nostro attaccamento. Il nostro attaccamento è illimitato! Il Buddha era molto intelligente, e in molti sutra parlava della vacuità del Buddha. La vacuità di ogni cosa e di tutti. Quindi non c’è nulla a cui aggrapparsi. Fidanzati e fidanzate, nulla a cui aggrapparsi. Ed è la stessa cosa per i maestri. Alcune persone sono molto attaccate ai loro maestri e quando questi parlano ad altri studenti, si ingelosiscono!
Vi condivido ora una storia interessante. Una volta un grande rinpoche, che non è più in vita, fu invitato a Taiwan da un milionario, un uomo d’affari, che chiamiamo Uomo d’affari A. Uomo d’affari A aveva un amico milionario, Uomo d’affari B, che era anche studente di rinpoche. Il rinpoche era ospite dell’Uomo di affari A, e Uomo di affari B voleva avere un’udienza con rinpoche, ma Uomo di affari A disse, “Non puoi venire a casa mia, ma puoi aspettare fuori dalla porta”. Uomo di affari B era molto rispettoso, tuttavia voleva venire per salutare rinpoche prima che lasciasse Taiwan. Aspettò al cancello con una khata in mano. Rinpoche stava per andarsene e salutò tutti, e poi improvvisamente notò Uomo di affari B che aspettava al cancello. Disse che sarebbe uscito a dargli una benedizione in testa, ma Uomo d’affari A corse e si mise tra i due, prese la mano di rinpoche e disse, “Non puoi dargli una benedizione perché sono stato io ad invitarti e a pagare per tutto!”. Questo ci fa capire il potere dell’attaccamento, e il modo in cui può spingerci ad agire, anche nei confronti dei nostri maestri spirituali.
Ma tutti noi abbiamo questo. Magari Uomo di affari A potrebbe avere più attaccamento di noi, ma sicuramente anche noi proviamo attaccamento. Dunque, dobbiamo ricordarci che un giorno dovremo lasciare il nostro corpo. Non c’è nulla a cui aggrapparsi. Quando beviamo acqua salata, ne vogliamo sempre di più. Molti di noi vivono in questo modo, vogliamo sempre qualcosa in più. Ma al termine della nostra esistenza, capiremo che dovremo lasciare indietro tutto quello che abbiamo avuto e apprezzato. E non solo questo, ma la nostra sete costante per qualcosa di più è stata una totale perdita di tempo. Non c’era nulla che ci desse una vera soddisfazione. Shantideva fa l’esempio di quando ci grattiamo. Quando hai prurito, cominci a grattarti e poi provi sollievo. Ti senti felice. Ma Shantideva diceva: “Questa non la chiamo felicità”. Ti piace sentire prurito? Ovviamente no, ecco perché ci grattiamo. Quindi non dovremmo confondere il prurito con la felicità!