Il Posto Essenziale della Formazione Etica nel Buddismo
Nel trasmettere il Buddismo da una società all’altra, bisogna essere capaci di identificare gli insegnamenti essenziali in modo da differenziarli dal loro involucro culturale. Sul suo letto di morte Buddha indicò il criterio per fare ciò, così come registrato nel Mahaparinirvana Sutra (mDomya-ngan-las ‘das chen-po). Egli disse ai suoi discepoli riuniti di lasciare che i suoi insegnamenti (il Dharma) e le regole della disciplina (il Vinaya) fossero la loro guida dopo il suo passaggio da questo mondo. Quando gli fu chiesto come sapere quale dei suoi insegnamenti veicolasse i punti più importanti, Shakyamuni avvertì di non lasciare che questo fosse deciso in futuro dall’opinione dei maestri o dal consenso della comunità monastica. Piuttosto, questo dovrebbe essere determinato, disse, acquisendo fiducia su ciò che è più essenziale notando ciò che appare ripetutamente negli insegnamenti e nei testi.
Le quattro nobili verità, i due veri fenomeni, amore, compassione, l’ottuplice sentiero, e i tre addestramenti superiori sono punti importanti sottolineati in tutti gli insegnamenti. Secondo l’orientamento del Buddha stesso, non ci può essere alcun dubbio che queste siano caratteristiche fondamentali. Sarebbe perciò inappropriato eliminare o modificare il loro ruolo centrale, indipendentemente dalla cultura. Tuttavia, Buddha ha anche detto di non credere a nulla di ciò che ha detto solo per fede, ma di analizzarlo e testarlo come quando si testa l’oro. In altre parole, dobbiamo basare la nostra accettazione di ciò che Buddha ha ripetutamente insegnato sull’analisi e la logica, non sulla semplice fede.
Poiché l’osservanza dell’auto-disciplina etica (tshul-khrims, Skt. sila), in quanto uno dei tre addestramenti superiori in disciplina, concentrazione, e consapevolezza discriminante (shes-rab, Skt. prajna, saggezza), è un aspetto indispensabile del buddismo, è importante comprendere cosa significa esattamente autodisciplina etica, quale ruolo gioca sul sentiero spirituale e perchè è importante. L’autodisciplina etica viene spiegata come un fattore mentale, o uno stato mentale, con il quale salvaguardiamo il nostro corpo, la parola e la mente, tenendoli sotto controllo, di solito attraverso l’osservanza dei voti e rispettando i precetti (linee guide per il comportamento). Tutte le forme di buddismo sottolineano ripetutamente la salvaguardia del nostro corpo, parola e mente, astenendoci da azioni fisiche, verbali e mentali distruttive. Con l’obiettivo della liberazione, cerchiamo di evitare qualsiasi atto crei problemi e sofferenza per noi stessi.
Le scuole di buddismo Mahayana enfatizzano inoltre l’astensione da azioni che sono distruttive nel senso sia di essere direttamente nocive ad altri o indirettamente nocive a noi stessi, impedendoci di aiutare altri pienamente. Azioni che feriscono altri hanno conseguenze negative su di noi anche. Così, anche le forme di buddismo non Mahayana insegnano ad evitare di causare danno ad altri. Sebbene parte della motivazione per farlo sia l’amore e la compassione, l’enfasi è sul desiderio di evitare le ripercussioni negative su noi stessi. Altri aspetti dell’autodisciplina etica nel Mahayana consistono nel sorvegliare le nostre attività al fine di assicurare che siano costruttive – costruttive nel senso di essere direttamente utili ad altri o indirettamente utili a noi stessi in quanto contribuiscono alla nostra capacità di essere pienamente utili. Concentriamo, tuttavia, la nostra discussione sul primo tipo di autodisciplina etica, quella comune a tutte le tradizioni del buddismo, astenersi dal comportamento distruttivo.
Esercitare l’autocontrollo per non agire in modo distruttivo è, in un contesto buddista generale, basato sullo stato d’animo con cui rifiutiamo non solo di causare danni con le nostre azioni ma, ad un livello più profondo, di causare danni con la nostra mancanza di consapevolezza (ma-rigs-pa, Skt. avidya, ignoranza) e con emozioni ed attitudini disturbanti (nyon-mongs, Skt. Klesa, afflizioni), che sono la causa per cui agiamo in modo dannoso. All’inizio ci sforziamo con la forza di volontà e l’autocontrollo di ridurre al minimo l’influenza di questi stati mentali debilitanti. Poi, più progrediamo nel nostro addestramento nell’autodisciplina etica superiore, più forte diventa il fondamento per gli altri due addestramenti superiori nella concentrazione e nella consapevolezza discriminante che può eliminare completamente le cause del problema. Questo fondamento è cementato dalla presenza mentale (dran-pa, Skt. smrti) e dalla vigilanza (shes-bzhin, Skt. samprajanya), due fattori mentali che sviluppiamo rimanendo sempre coscienti di ciò che stiamo facendo, dicendo e pensando, distinguendo sempre tra ciò che è di beneficio e ciò che è dannoso.
Ad un livello più profondo, identificando ed astenendoci dalle caratteristiche distruttive nel nostro comportamento grossolano, conseguiamo l’addestramento e la forza che ci permettono di osservare e trattenere la nostra mente dal cedere alla volubilità, all’ottusità, e ad altre sottili variazioni dannose per il conseguimento dell’assorbimento concentrativo (ting-nge-‘dzin, Skt. samadhi). Con una perfetta concentrazione e una comprensione corretta delle quattro nobili verità e dei due veri fenomeni – apparenze, che sono come un’illusione, e vacuità (stong-pa-nyid, Skt. sunyata; vacuità) – possiamo rimanere concentrati sulla mancanza di vera identità o di “anime” impossibili (bdag-med, Skt. nairatmya; assenza di identità, assenza di sé) e così eliminare la causa più profonda della nostra sofferenza e portare liberazione. Perciò, da diversi punti di vista, la formazione etica gioca un ruolo centrale nel sentiero buddista.
Richieste di Modernizzazione dell’Etica Buddista
Molte persone oggigiorno chiedono una modernizzazione dell’etica buddista che comporterebbe l’eliminazione di certi voti e precetti in quanto irrilevanti, o l’interpretazione di altri in modo tale da cambiare completamente il loro obiettivo e, in definitiva, renderli privi di significato. Alcuni addirittura mettono in dubbio la necessità stessa dell’etica in una formazione spirituale che è orientata fondamentalmente alla meditazione e alla psicologia, o che è non dualistica. Nel cercare la liberazione senza davvero sapere cosa la libertà significhi veramente, le persone vogliono essere libere sotto tutti gli aspetti, anche per quanto riguarda le questioni morali.
La loro protesta è comprensibile. Se la loro religione d’origine poneva pesanti restrizioni sul loro comportamento, specialmente sul loro comportamento sessuale, ed essi rifiutano quella religione e si rivolgono al buddismo, spesso portano con sé lo spirito di ribellione contro l’autorità e l’istituzione e lo trasferiscono sul loro credo adottato. Non vogliono ulteriori regole. Specialmente se devono pagare per gli insegnamenti, vogliono un “buon affare”, prendendo soltanto le linee guida permissive che a loro piacciono. Si avvicinano inconsciamente all’etica buddista con una mentalità da consumatore occidentale.
Tali obiettori alla necessità di un’autodisciplina etica a volte indicano la condotta dei grandi maestri tantrici come esempio di come essi stessi dovrebbero agire. Il paragone, tuttavia, potrebbe non essere appropriato. L’autocontrollo etico è un aiuto per diminuire l’essere sotto il controllo di emozioni disturbanti e di comportamenti distruttivi compulsivi e per lo sviluppo della consapevolezza non discriminante dello stato non duale della realtà. Una volta che i praticanti hanno raggiunto il livello di realizzazione e di autosviluppo nel quale non sono più sotto il controllo di emozioni disturbanti e comportamenti distruttivi compulsivi, e hanno una consapevolezza discriminante nuda e non concettuale del modo in cui sono le cose (de-nyid, Skt. tathata, talità), il loro addestramento nell’autodisciplina etica avrà raggiunto il suo scopo. Qualsiasi cosa facciano a questo punto è motivata puramente da compassione e bodhicitta, il desiderio di conseguire l’illuminazione il più velocemente possibile in modo da aiutare gli altri pienamente, accompagnato dalla saggezza. Perciò, anche se il comportamento di una persona di così alta realizzazione, può sembrare non convenzionale, non è affatto irresponsabile o immorale. Non causa mai danno a lungo termine, solo beneficio, specialmente agli altri. Il tantra, dopo tutto, è una pratica mahayana, motivata da grande compassione.
Cercare di imitare la condotta dei grandi maestri prima di aver raggiunto il loro livello di realizzazione, allora, non è soltanto presuntuoso, ma anche pericoloso. Coloro che sono ancora guidati da avidità, attaccamento, rabbia ed orgoglio, possono ferire seriamente se stessi e gli altri, se sminuiscono la necessità dell’autocontrollo e si sottraggono alla responsabilità di addestrarsi nell’autodisciplina etica. Casi del genere hanno, recentemente, causato molti danni alle comunità buddiste in occidente, rendendo solo più ovvia l’importanza della formazione etica per tutti i buddisti, insegnanti e studenti.
Quando analizziamo ad un livello più profondo, possiamo vedere che la ricerca di libertà personale a tutti i costi si basa sull’afferrarsi a un sé (bdga-‘dzin, Skt. atmagraha), “io”, che esiste come un’entità indipendente, autostabilita, sostanzialmente conoscibile che ha il diritto di fare sempre a modo suo, e fare sempre quello che vuole. Non c’è un io del genere che esista in un vuoto, totalmente indipendente dall’essere responsabile e dallo sperimentare le conseguenze delle sue azioni.
Questo non significa che noi non esistiamo; noi esistiamo, e sperimentiamo le conseguenze delle nostre azioni. Ma dobbiamo comprendere cosa significa la ricerca della libertà nel contesto buddista. Significa lavorare per ottenere la liberazione da tutti i problemi e le sofferenze che creiamo per noi stessi, che capiamo provenire dal nostro comportamento compulsivo, guidato, dalle nostre emozioni disturbanti e dalla mancata comprensione di causa ed effetto e di come noi, gli altri e tutto esiste. Non significa il perseguire la libertà di fare tutto ciò che vogliamo, compreso l’agire le nostre emozioni disturbanti, come se il nostro comportamento non avesse alcun effetto su noi stessi o sugli altri.
Differenze tra gli Approcci Occidentali e Buddisti all’Etica
Sebbene il ruolo centrale dell’autodisciplina etica nel buddismo sia indiscutibile, rimane la questione se modificare o meno l’etica buddista nel processo della sua trasmissione alle società moderne, e se si dovesse modificare, come farlo al meglio. Ci sono due possibili punti focali per mirare all’adattamento culturale: l’approccio all’etica e la forma della disciplina. Esaminiamo il primo di questi punti, l’approccio all’etica, in termini di società fondate su valori abramitici e greci antichi e cerchiamo di determinare se l’adattamento culturale rispetto ad esso sarebbe di beneficio. Anche se solo alcuni membri di tali società possono ascrivere consapevolmente ai punti di vista spiegati in seguito, la maggior parte delle persone ne sarà almeno influenzata in modo subliminale.
Nelle culture influenzate dal pensiero dell’Antico Testamento, il modello per i codici etici sono i dieci comandamenti. L’etica si basa su una serie di leggi date da un’autorità superiore. Certe azioni sono giudicate “giuste” e altre “sbagliate”. L’orientamento è giudicante. Coloro che agiscono in modo sbagliato e disobbediscono alle leggi sono persone “cattive” e condannate alla punizione, mentre coloro che rispettano le leggi di Dio sono giusti e “buoni”, e saranno giustamente ricompensati.
Nel pensiero greco antico basato su principi di democrazia, l’etica si fonda su un insieme di leggi fatte dall’uomo promulgate per il governo ordinato di una società. Controlli ed equilibri sono necessari per garantire il corretto funzionamento dello stato e il benessere della popolazione. Nel rispettare queste leggi, ci definiamo come “buoni cittadini”. Nel disobbedire ad esse, ci guadagniamo una punizione ritenuta giusta e necessaria per sostenere il bene superiore della società.
Nelle culture buddiste, invece, l’etica si basa su linee guida che differenziano quelle azioni che portano alla felicità da quelle che portano alla sofferenza. Queste linee guida non sono date da un creatore onnipotente, sia della società che delle sue regole, che ha il potere di premiare o punire. Nè sono legiferate da legislatori eletti che desiderano creare uno stato migliore. Sono insegnate da un Buddha onnisciente che vede tutti gli aspetti delle leggi naturali di causa ed effetto. I Buddha non sono gli esecutori di queste leggi. Queste leggi operano come parte dell’ordine increato dell’universo.
Se vogliamo evitare problemi ed infelicità, ci tratteniamo dal commettere le azioni distruttive che ne sono la causa e, più profondamente, ci tratteniamo dall’agire le emozioni disturbanti che ci spingono ad agire in modo distruttivo. Tale contenimento è un atto puramente volontario basato sulla consapevolezza discriminante. Non è affatto obbligatorio. Esercitiamo l’autocontrollo non perchè sentiamo che dovremmo o dobbiamo astenerci da certe azioni perchè ci è stato comandato di fare così, né perchè questa è la legge del paese e ci devono essere regole perchè la società sia ordinata. Piuttosto, freniamo il nostro comportamento perchè comprendiamo l’ordine naturale dell’universo, che si basa su causa ed effetto, e desideriamo evitare l’infelicità. Seguire l’etica buddista, allora, è simile ad onorare le leggi fisiche dell’universo, come non mettere le mani nel fuoco perchè ci bruceremo. Non sono coinvolti giudizi morali o civili.
In un quadro buddista, coloro che commettono azioni negative, lo fanno o (1) perchè non sanno che questi atti sono distruttivi o (2) perchè sono sotto l’influenza di qualche emozione o atteggiamento disturbante, come la rabbia, il desiderio ardente, l’attaccamento, l’avidità o l’ingenuità, oltre a non avere alcun senso dei valori o scrupoli. Le persone, non agiscono in modo negativo perchè sono disobbedienti a leggi divine o civili e, perciò sono “cattive”, ma perchè sono inconsapevoli o disturbate. La loro mancanza di consapevolezza non le definisce come pagane o infedeli – o, nel migliore dei casi, oggetti da guardare dall’alto in basso con pietà, che forse possiamo convertire e salvare. Il loro agire in modo distruttivo non scatena indignazione e sdegno morale, come se noi stessi fossimo Dio, né genera un sentimento di obbligo morale a punirli in nome di un creatore onnipotente. Non ci induce nemmeno a volerli imprigionare e punire come cattivi cittadini e criminali allo scopo di proteggere il benessere della società. Piuttosto, la loro confusione li rende oggetti di compassione, che vorremmo fossero liberi dalla sofferenza e dalle cause del dolore.
Inoltre, l’etica buddista non implica la colpa. Secondo il pensiero buddista, coloro che agiscono in modo distruttivo si comportano in modo sbagliato e devono certamente assumersi la responsabilità della conseguenza delle loro azioni, anche in termini di diritto civile. Possono pentirsi dei loro errori, ma coloro che sono cresciuti con un approccio buddista tradizionale all’etica non si sentono in colpa. Il senso di colpa, con la sua convinzione sottostante che siamo persone cattive e il suo morboso aggrapparsi a questo senso di sé come la nostra permanente, vera identità, è un sentimento culturalmente specifico che nasce a causa dell’influenza abramitica su una società. Non è un’emozione universalmente sperimentata. Non tutti sentono, come formulato nel Primer del New England del XVII secolo, “Nella caduta di Adamo, noi pecchiamo tutti.” È esattamente il contrario: gli insegnamenti buddisti sulla natura di Buddha implicano che la natura delle nostre menti è pura, e siamo tutti capaci di rimuovere le passeggere nuvole di illusione che ci inducono ad agire in modi distruttivi.
La ragione per sostenere l’etica in una società giudeo-cristiana è fondamentalmente quella di essere una brava persona e di piacere a Dio. Nei paesi che inoltre condividono l’antica eredità greca della democrazia, uno scopo aggiuntivo è quello di essere un buon cittadino e di sostenere “il bene”. Tenere uno di questi obiettivi o entrambi corre il rischio di aggrapparsi in modo moralistico al fatto di dover essere buoni come nostra solida identità. Nelle culture buddiste, invece, la ragione per sostenere l’etica è principalmente quella di ottenere la liberazione dalla sofferenza. I voti etici buddisti di base sono chiamati “pratimoksha” in sanscrito, letteralmente “voti per raggiungere la liberazione individuale” (so-sor thar-pa).
Gli studenti di Dharma cresciuti in una società influenzata dalla Bibbia spesso si avvicinano all’etica buddista con un’inconscia fedeltà mal riposta verso un aspetto inappropriato del loro background, cioè, un ansioso desiderio di imparare cosa è giusto e cosa è sbagliato. Adattare l’etica buddista alle culture giudeo-cristiane fornendo ai praticanti una versione buddista dei dieci comandamenti, tuttavia, potrebbe non essere saggio. Fare ciò non solo contradirrebbe l’approccio buddista alla formazione etica, ma potrebbe anche minare i suoi obiettivi.
Come base per l’etica, il buddismo non insegna una lista di comandamenti e non dice alle persone di obbedire ad essi. La tradizionale lista delle dieci azioni distruttive non è una lista di “tu non devi”. A differenza degli ordini cristiani, l’obbedienza incondizionata non è mai menzionata, nemmeno come voto monastico buddista. Piuttosto, il buddismo insegna le leggi di causa ed effetto del comportamento e poi invita le persone ad esaminare le loro esperienze e le loro menti e a cercare di riconoscere i problemi che sono sorti dalle loro azioni e abitudini compulsive. Hanno bisogno di identificare le emozioni e gli atteggiamenti disturbanti, e la loro sottostante inconsapevolezza e confusione sulla realtà e su causa ed effetto, che guidano il loro comportamento distruttivo compulsivo. Hanno bisogno anche di analizzare e acquisire la convinzione che queste cause abituali possono essere rimosse per sempre con la corretta comprensione e che questo è il modo di eliminare la sofferenza in modo che non si ripresenti mai più.
Quando, come risultato di questa introspezione e autoesame, le persone sviluppano il forte desiderio di emergere definitivamente dai loro problemi ricorrenti in modo incontrollabile, esse sviluppano ciò che viene generalmente tradotta come “rinuncia”, la determinazione ad essere liberi dalla sofferenza (nges-byung, Skt. nihsarana). Saranno quindi motivate ad iniziare il processo per ottenere la liberazione modificando i loro modelli comportamentali, astenendosi dall’agire le emozioni disturbanti che sono le cause del loro comportamento compulsivo e dei problemi conseguenti. In altre parole, rinunciando non solo alla loro sofferenza ma anche alle sue cause, lavoreranno per abbandonare i loro modi negativi.
La tradizione indo-tibetana del “lam-rim” (sentiero graduale) discute di come le persone possono decidere di liberarsi di tre livelli di sofferenza grazie a tre livelli corrispondenti di motivazione spirituale. Possono desiderare di evitare le grosse sofferenze derivanti dal rinascere in una situazione peggiore come risultato del loro comportamento distruttivo; questo è lo scopo del livello iniziale di determinazione ad essere liberi. Inoltre, possono desiderare di essere liberi non solo dalla sofferenza grossolana ma da tutte le forme di sofferenza in tutte le rinascite, comprese quelle causate dal loro comportamento costruttivo compulsivo, come pulire ossessivamente la loro casa. Questo è lo scopo del livello intermedio di determinazione ad essere liberi. In aggiunta, possono desiderare di eliminare tutti i livelli di sofferenza degli altri, superando ogni ostacolo che potrebbe impedire loro di essere di massimo aiuto. Questo è il livello avanzato.
Tuttavia, dal punto di vista comune condiviso dai praticanti di non solo questi tre ambiti di motivazione ma di tutte le tradizioni buddiste, la ragione principale alla moderazione è essere liberi dalla sofferenza e dai problemi che derivano dal comportamento distruttivo compulsivo.
L’approccio buddista all’etica, quindi, genera una rinuncia alla sofferenza che sorge dal comportamento distruttivo, inconsapevole, piuttosto che una rinuncia alle azioni che l’autorità scritturale ritiene peccaminose o che i codici civili e i tribunali giudicano illegali. L’approccio buddista conduce all’esame delle quattro nobili verità: i veri problemi, le loro vere cause, la loro vera fine, e i veri percorsi della mente e le pratiche che veramente portano a quella fine. Perciò, alterare questo approccio in un adattamento culturale dell’etica buddista in Occidente rischia il possibile abbandono di caratteristiche essenziali del buddismo. Esaminiamo ulteriormente questo problema.
Il Ruolo dei Maestri Spirituali nel Dare Consigli Etici
Le persone con un’educazione giudeo-cristiana che si trovano ad affrontare un dilemma morale nelle loro vite possono rivolgersi al loro prete, ministro o rabbino, per un consiglio pastorale. Al fine di prendere una decisione, come ad esempio cosa rispondere al loro figlio che desidera sposarsi al di fuori della loro fede, vogliono sapere cosa è giusto o sbagliato. Quando si trovano di fronte a una questione etica puramente civile, come dichiarare o meno un certo reddito come parte della loro dichiarazione dei redditi, possono rivolgersi a un avvocato per conoscere gli aspetti legali e quali scappatoie ci possono essere per evitare un pagamento pesante.
I buddisti tradizionali dell’Asia, non andrebbero dal loro maestro spirituale, o un monaco o una monaca, per una guida simile. Nella tradizione tibetana, possono andare da un lama per una divinazione che aiuti a prendere una difficile decisione che non può essere facilmente decisa dalla logica. Ma tali decisioni non riguarderebbero comunemente problemi morali. Riguarderebbero più probabilmente affari e faccende mediche, come dove vendere i maglioni o a quale dottore affidarsi. Allo stesso modo, i buddisti cinesi cercano divinazioni nei templi per aiutarli a decidere una grande varietà di questioni puramente mondane, mentre i buddisti tailandesi di fronte a problemi mondani chiedono ai monaci amuleti da indossare per scongiurare il male. Sebbene molti occidentali ora cerchino dai lama tibetani “cordoncini di protezione” rossi da indossare intorno al collo, la maggior parte degli occidentali non crede a cose del genere.
Inoltre, molti occidentali si sentono demoralizzati a causa degli atteggiamenti fondamentalisti delle fazioni conservative delle loro religioni d’origine nei confronti, ad esempio, della loro attività omosessuale o dell’aborto. A volte vengono da un insegnante buddista in cerca di approvazione morale e giustificazione per le loro decisioni riguardanti tali questioni. Vogliono che si dica loro che ciò che hanno scelto di fare è giusto e non sbagliato. Vogliono rassicurazioni sul fatto che non sono persone cattive.
Di fronte a queste persone, gli insegnanti buddisti, specialmente quelli occidentali, i quali forse possono più facilmente empatizzare con loro, voglio essere compassionevoli. Sanno che se fanno eco alla risposta ferma e conservatrice di alcune religioni occidentali citando le scritture buddiste, queste persone potrebbero non venire più a un corso o a una conferenza di Dharma. Perciò, per poter comodamente rispondere a domande morali sul bene e sul male in modo più liberale e tollerante per i nuovi buddisti che provengono da una società biblicamente influenzata, fanno adattamenti culturali dell’etica buddista.
Dobbiamo essere molto attenti nel formulare tali adattamenti. Molti occidentali si avvicinano al buddismo nella speranza che possa, o persino nella convinzione che rafforzi, le loro già decise vedute politiche, sociali e sessuali “progressiste”, e semplicemente ignorano quegli aspetti del buddismo che non sono in accordo con loro. O, come un avvocato, considerano l’etica buddista come un codice di leggi e cercano di trovare scappatoie o negoziare emandamenti. Gli insegnanti devono fare attenzione. Assecondare tali atteggiamenti in se stessi e negli altri può mascherare una sottile forma di abbandono del Dharma e fabbricare un Dharma di imitazione, due estremi che il Buddha ha avvertito di evitare. Ma la questione è come trovare una via di mezzo tra il conservatorismo fondamentalista e l’indulgenza morale?
Ci sono domande ancor più difficili che devono essere affrontate per prima quando si contemplano gli adattamenti culturali dell’etica buddista. Per esempio, dire a qualcuno ciò che è giusto o sbagliato è il miglior modo di aiutare quella persona a fare progressi spirituali? Le questioni etiche sono sempre bianche o nere? È il ruolo di un insegnante di Dharma risolvere tutte le questioni morali, specialmente in un mondo di relativismo culturale? Esaminiamo alcuni di questi punti.
Il Metodo di Insegnamento del Buddha
Una volta, una madre in lutto venne dal Buddha portando il corpo del suo bambino morto. Sopraffatta dal dolore, implorò il Buddha di ridare la vita al suo bambino. Shakyamuni disse di portargli un seme di senape da una casa che la morte non avesse mai visitato, e allora avrebbe visto ciò che poteva fare. La madre andò di casa in casa nel paese. Quando si rese conto dalle sue ricerche che nessuna casa era mai sfuggita alla morte, comprese l’insegnamento di Buddha sull’impermanenza. Consolata, fu in grado di seppellire il corpo di suo figlio.
Questo episodio indica chiaramente il metodo di insegnamento del Buddha. Egli non disse alla donna in tono professorale: “Mi dispiace, ma tutti i fenomeni condizionati sono impermanenti, e tutti un giorno devono morire”. Non la rimproverò con indignazione “La tua richiesta è sbagliata! Dio, nella sua infinita saggezza, ha preso il tuo bambino e tu devi avere fede in Dio”. Non divenne emotivo o cercò di confortarla con parole dolci come. “Non preoccuparti, cara madre, tuo figlio ora è in cielo o è rinato in un meraviglioso campo di Buddha. ” Piuttosto, con un caratteristico equilibrio di compassione e distacco, organizzò le circostanze per farle ottenere la realizzazione che le avrebbe permesso di risolvere il suo dolore da sola.
Il metodo di insegnamento del Buddha, quindi, non è quello di fornire risposte nette alle persone, ma di aiutarle a vedere la realtà da sole. Shakyamuni ha reso i discepoli responsabili di rispondere ai loro dilemmi. Piuttosto che dire loro cosa fare, insegnava loro spesso attraverso situazioni di vita, parabole e storie, e li faceva pensare da soli. Gli faceva riferire le loro intuizioni per evitare che andassero fuori strada, ma non imboccava mai loro il Dharma col cucchiaio. Anche quando Buddha insegnava vari principi e leggi, ad esempio, quelli di causa ed effetto comportamentale, lasciava a ciascuno dei suoi discepoli il compito di metterli insieme, elaborarne tutte le implicazioni, e applicarli alla loro situazione individuale. In questo modo, guidava le persone lungo un percorso di sviluppo spirituale, anche attraverso momenti di crisi morale e dubbio.
Le persone di origine abramitica, invece, vogliono sapere cosa fare. Vogliono una risposta “si” o “no” – e questo non è diventato meno rilevante nel nostro attuale tempo di digitalizzazione, dove “uno” e “zero” sono il codice primario per tutti i meccanismi di calcolo. Il nostro approccio moderno per risolvere i dubbi è andare da un’autorità, che sia un libro, un sito web, un esperto professionista, o una persona saggia, per trovare la risposta. Anche la nostra educazione secolare ci insegna a fare questo. Se in risposta al nostro quesito etico su un certo comportamento - per esempio, sesso occasionale e senza impegno con molti partners – il nostro maestro spirituale dice che è sbagliato e che andremo all’inferno se continuiamo, la questione è decisa. Possiamo a questo punto reprimere il desiderio di sesso occasionale e controllarci, ma forse ancora ci rimane il desiderio, o possiamo continuare questa attivita’ ma con un forte senso di colpa. Oppure possiamo ignorare il pronunciamento morale che abbiamo ricevuto e cercare un’altra autorità. Il comportamento occidentale moderno è quasi come cercare un avvocato spirituale migliore, fino a che non troviamo qualcuno che ci fornisca una scappatoia nella legge morale e ci dia la risposta che vogliamo sentire. Ma gli insegnanti spirituali non sono avvocati spirituali!
L’approccio buddista alla risoluzione del dubbio , in particolare riguardo a questioni etiche, è molto diverso. Il dubbio, o l’esitazione indecisa (the-tshom, Skt. vicikitsa), è considerata un’attitudine disturbante. Il suo antidoto è la risolutezza che viene dalla consapevolezza discriminante con la quale possiamo distinguire correttamente noi stessi tra ciò che è appropriato e ciò che non lo è, e tra ciò che è utile e ciò che è dannoso. Il dubbio non è ‘opera del Diavolo’, qualcosa da esorcizzare attraverso il potere della fede totale in un’autorità morale la cui ingiunzione dobbiamo accettare. Né è una questione di interesse pubblico da decidere attraverso una giuria e un processo. Piuttosto, il dubbio è uno stato mentale disturbante che produce sofferenza e ansia. Deve essere sradicato ed abbandonato attraverso la saggezza introspettiva.
Shakyamuni spiegò che non poteva eliminare la sofferenza degli altri come se stesse rimuovendo una scheggia dal loro piede. Tutto ciò che poteva fare era indicare agli altri i metodi per sradicare la loro sofferenza da soli. Perciò, Buddha ha dato linee guida ed insegnamenti etici, ma è responsabilità dei discepoli capirli e applicarli e risolvere da soli i loro dilemmi e dubbi etici. Questo è l’approccio tradizionale asiatico alla creatività: cioè, modificare le soluzioni standard per adattarle alle condizioni in evoluzione. La creatività da un punto di vista occidentale generalmente significa trovare una soluzione unica, personale, come una nuova scappatoia per sfuggire a qualche dilemma. Quel tipo di approccio, tuttavia, non sembra appropriato quando si considera come adattare l’etica buddista alle moderne culture occidentali.
In breve, incoraggiare i discepoli ad un percorso di auto-indagine e ricerca delle intenzioni e delle implicazioni dietro gli insegnamenti etici di Buddha potrebbe aiutarli a fare molti più progressi verso la liberazione dalla sofferenza che il dar loro una risposta “si” o “no” sulla loro condotta giusta o sbagliata. Un approccio non giudicante all’etica offre ai buddisti lo spazio mentale ed emotivo per portare alla coscienza e sviluppare la propria saggezza discriminante. Scavando alla radice dei loro problemi, le persone possono essere gradualmente condotte a metodi progressivamente più profondi per eliminare, e non soltanto reprimere, qualsiasi cosa stia causando loro dolore.
Adattamento Culturale degli Standard Etici Buddisti
Se può non essere appropriato cambiare l’approccio all’etica buddista come parte di un adattamento culturale, consideriamo alterazioni nella forma della disciplina. Quanto è aperto il buddismo ai cambiamenti negli standard etici?
Anche se non ci sono “comandamenti”, l’etica buddista non è nemmeno completamente relativa. Non spetta soltanto agli individui decidere ciò che è utile o dannoso per loro; la loro decisione o le loro preferenze non lo rendono tale. Ci sono specifici principi del karma, cause ed effetti comportamentali, che non possono essere ignorati quando si analizzano i risultati delle nostre scelte morali. Ma, le azioni di per sé, non sono intrinsicamente distruttive o costruttive. In termini occidentali, non sono intrinsecamente buone o cattive, illegali o legali, con il loro status stabilito dalla loro parte per loro stesso potere. Ciò che dà alle nostre azioni il loro status etico, e così governa i risultati che sperimentiamo, è la motivazione che ci spinge a compierli.
La preoccupazione dei buddisti occidentali di modificare culturalmente il comportamento che è distruttivo e ciò che è costruttivo, allora, non coglie il punto dell’etica buddista se si concentra solo sul volere che il buddismo legalizzi certe forme di comportamento, specialmente quello sessuale. L’approccio per esaminare l’etica buddista, se vuole essere coerente con i principi buddisti, non deve essere legalistico. La nobile verità della vera causa della sofferenza ci insegna che ogni tipo di comportamento sessuale, quando è guidato da un’emozione disturbante, come la lussuria e l’attaccamento, è distruttivo e risulterà, a lungo termine, nel causarci infelicità e sofferenza, anche se ci porta del piacere a breve termine che non dura mai.
È vero che se la nostra attività sessuale con un partner è motivata dal nostro desiderio amorevole di portare loro piacere, e non dalla lussuria, quell’attività è costruttiva, ma è costruttiva solo nel contesto del samsara. Anche se il nostro partner e noi riconosciamo che il piacere che ci darà è solo temporaneo, comunque tali azioni, ci arrecano sofferenza, la sofferenza del cambiamento. Per esempio, se ci identifichiamo con la nostra prestazione sessuale, siamo tormentati dalla preoccupazione di non essere abbastanza bravi. Queste preoccupazioni sono in realtà sofferenza.
Se, come non monastici, ci impegniamo nell’attività sessuale, qualsiasi forma quell’attività possa assumere, dobbiamo avere un atteggiamento realistico al riguardo. Anche se il sesso gioca un ruolo importante, nel condurre una vita sana, e mondana, non è la cosa più importante nella vita, e certamente non è una via per la felicità eterna. Come seguaci del buddismo, non dobbiamo mai perdere di vista le quattro nobili verità.
Questo non significa che i valori culturali e i costumi sociali non influenzino i risultati, che sperimentiamo, del nostro comportamento. Devono essere presi in considerazione. Questo perchè causa ed effetto sono fenomeni che sorgono in modo dipendente; un numero molto grande di fattori causali, incluse le leggi civili, produce un numero molto grande di effetti. Così, il tipo di comportamento considerato inaccettabile dall’antica società indiana secolare, come il sesso prematrimoniale, potrebbe non essere disapprovato dalla moderna societa’ occidentale; e viceversa, ciò che era accettabile nell’antica società indiana, come il matrimonio infantile, potrebbe anche essere illegale nella moderna legge civile occidentale.
I maestri buddisti aggiunsero certi tipi di comportamento sessuale, come l’incesto, alla lista dei comportamenti sessuali inappropriati quando il buddismo si diffuse alle aree culturali in cui l’incesto, per esempio, era prevalente. Si potrebbe sostenere che questa fosse una modifica culturale. Ma, nell’aggiungerla, questi maestri stavano semplicemente aiutando i praticanti ad avanzare nei loro sentieri spirituali, evidenziando sempre più aspetti della condotta personale da analizzare in termini delle nobili verità della sofferenza e delle sue cause. Non importa in quale società ed epoca un certo tipo di comportamento abbia luogo, se è motivato da un’emozione disturbante e dall’inconsapevolezza della causa e dell’ effetto comportamentale, risulterà in infelicità e sofferenza. Questo punto non è aperto alla modifica culturale.
Riassunto
La linea di fondo è che la cosa principale di cui dobbiamo liberarci sono l’inconsapevolezza e le emozioni disturbanti che guidano qualsiasi tipo di azione compulsiva che potremmo compiere. Se perdiamo di vista questo punto essenziale e ci focalizziamo invece su quali azioni dovrebbero essere aggiunte o eliminate dalla lista buddista delle azioni distruttive, è difficile considerare qualsiasi adattamento del genere ancora una forma di buddismo basata sul prendere una direzione sicura (rifugio) da Shakyamuni Buddha come una valida autorità.