Le fonti della felicità

La fonte della felicità risiede in noi: quando la nostra mente è tranquilla, positiva ma anche realistica, quando i nostri pensieri si rivolgono con gentilezza agli altri, allora sperimentiamo una felicità che ci sostiene con forza e coraggio al di là delle difficoltà che viviamo. Come Buddha ha detto, se vogliamo essere felici dobbiamo esplorare e comprendere la nostra mente.

La felicità ordinaria: la sofferenza del cambiamento

Anche se alcuni pensano che il Buddhismo sia una religione negativa che sostiene che tutto ciò che sperimentiamo sia sofferenza e che non riconosce affatto la felicità, questa è una visione distorta. È vero che il Buddhismo riconosce nella nostra felicità ordinaria e comune la sofferenza del cambiamento; ciò significa che questo tipo di felicità è insoddisfacente, non dura e non ci basta mai. Non è vera felicità. Se, per esempio, mangiare gelati fosse vera felicità, allora più ne mangeremmo in una volta più felici saremmo; tuttavia quando mangiamo un gelato presto arriviamo al punto in cui la felicità si trasforma in infelicità e sofferenza. Lo stesso avviene quando siamo al sole e ci spostiamo all’ombra: questo è il significato di sofferenza del cambiamento.

Tuttavia il Buddhismo offre molti metodi per superare i limiti della nostra felicità ordinaria, la sofferenza del cambiamento, così da poter raggiungere lo stato di Buddha eternamente gioioso. Cionondimeno il Buddhismo spiega anche le fonti per ottenere questo tipo di felicità, nonostante i difetti della nostra felicità ordinaria, e insegna ciò per via del suo assioma di base che tutti vogliono essere felici e nessuno vuole essere infelice e, visto che noi siamo esseri ordinari e ricerchiamo la felicità, non conosciamo se non la felicità ordinaria, comune, così il Buddhismo ci insegna a raggiungerla. Solo quando si soddisfano il desiderio e il bisogno di felicità a un livello fondamentale si può aspirare a raggiungerne livelli più profondi, più appaganti tramite pratiche spirituali avanzate.

Tuttavia, sfortunatamente, come indicato dal grande maestro indiano buddhista Shantideva in Impegnarsi nella condotta del bodhisattva (sPyod-‘jug, scr. Bodhicharyavatara; I.27):

Sebbene desiderino essere liberi dalla sofferenza, essi corrono incontro alla sofferenza stessa. Sebbene desiderino ottenere la felicità, per ignoranza, come fosse un nemico, la distruggono.

In altre parole, anche se desideriamo la felicità ignoriamo le sue cause e così, invece di essere più felici, creiamo solo più infelicità e problemi.

Video: Dr Chönyi Taylor — “Perché è così facile diventare dipendente [da qualcosa]?”
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La felicità è una sensazione

Sebbene ci siano molti tipi di felicità, qui concentriamo la nostra attenzione sulla felicità ordinaria. Per comprendere le sue fonti, dobbiamo prima essere chiari su cosa si intende per "felicità". Cos'è questa felicità (bde-ba, scr. sukha) che tutti noi vogliamo? Secondo l'analisi buddhista la felicità è un fattore mentale - in altre parole, è un tipo di attività mentale con cui siamo consapevoli di un oggetto in un certo modo. È una sezione di un fattore mentale più ampio chiamato "sensazione" (tshor-ba, scr. vedana), che copre uno spettro che abbraccia una vasta gamma da totalmente felice a totalmente infelice.

Qual è la definizione di "sensazione"? La sensazione è il fattore mentale che ha la natura dell'esperienza (myong-ba). È l'attività mentale dello sperimentare un oggetto o una situazione in un modo che lo rende effettivamente un'esperienza di quell'oggetto o situazione. Senza una sensazione da qualche parte nello spettro tra felicità e infelicità, non sperimentiamo effettivamente un oggetto o una situazione. Un computer acquisisce ed elabora i dati ma, poiché un computer non si sente felice o infelice nel farlo, non sperimenta i dati. Questa è la differenza tra un computer e una mente.

Provare un livello di felicità o infelicità accompagna la cognizione di un oggetto sensoriale - una vista, un suono, un odore, un gusto o una sensazione fisica come il piacere o il dolore - o la cognizione di un oggetto mentale come quando si pensa qualcosa. Non è necessario che sia drammatica o estrema, può essere di livello molto basso. In effetti, un certo livello di sentirsi felici o infelici accompagna ogni momento della nostra vita - anche quando siamo profondamente addormentati senza sogni lo sperimentiamo con una sensazione neutra.

La definizione di felicità

Il Buddhismo fornisce due definizioni di felicità. Una la definisce in termini di relazione con un oggetto, mentre l'altra in termini di relazione con lo stato mentale della sensazione stessa.

  • La prima definisce la felicità come l'esperienza di qualcosa in modo soddisfacente, basata sulla convinzione che sia di beneficio a noi stessi, indipendentemente dal fatto che lo sia effettivamente. L'infelicità è l'esperienza di qualcosa in modo insoddisfacente e tormentoso. Sperimentiamo qualcosa di neutrale quando non è né soddisfacente né tormentoso.
  • La seconda definisce la felicità come quella sensazione che, quando è finita, desideriamo provarla ancora una volta. Infelicità è quella sensazione che, quando sorge, desideriamo separarcene. Invece quando sorge o finisce una sensazione neutra non proviamo nessuno di questi due desideri.

Le due definizioni sono correlate. Quando sperimentiamo qualcosa in modo soddisfacente, il modo in cui sperimentiamo l'oggetto è che l'oggetto, letteralmente, "ci viene in mente" (yid-du 'ong-ba, scr. manapa) in modo piacevole. Accettiamo l'oggetto che rimane piacevolmente come oggetto della nostra attenzione. Ciò implica che sentiamo che la nostra esperienza dell'oggetto ci è di beneficio: ci rende felici, ci fa stare bene. Per questo motivo, vogliamo che il beneficio di questa esperienza continui e, qualora finisse, vorremmo che tornasse. Colloquialmente, diremmo che ci godiamo l'oggetto e l'esperienza di esso.

Quando sperimentiamo un oggetto in modo tormentoso, questa infelice esperienza dell'oggetto, letteralmente, "non ci viene in mente" (yid-du ma ‘ong-ba, scr. amanapa) in modo piacevole. Non accettiamo l'oggetto che non rimane piacevolmente oggetto della nostra attenzione. Sentiamo che la nostra esperienza dell'oggetto non è di alcun beneficio e, in effetti, ci sta danneggiando: vogliamo che finisca. Colloquialmente, diremmo che non ci piace l'oggetto o l'esperienza di esso.

Video: Dr. Alan Wallace — “Cos'è la felicità?”
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Esagerazione delle qualità di un oggetto

Cosa significa sentirsi a proprio agio con un oggetto? Quando ci troviamo a nostro agio con un oggetto, lo accettiamo così com'è, senza essere ingenui e senza esagerare o negare le sue buone qualità o le sue mancanze. Questo punto ci porta alla discussione delle emozioni disturbanti (nyon-rmongs, scr. klesha; emozioni afflittive) e della loro relazione con lo sperimentare un oggetto con felicità o infelicità.

Una serie di emozioni disturbanti è costituita da lussuria, attaccamento e avidità. Con tutti e tre esageriamo le buone qualità di un oggetto: con la lussuria vogliamo ottenere l'oggetto se non lo abbiamo; con l'attaccamento non vogliamo perderlo quando lo abbiamo; con l'avidità vogliamo di più anche se ce l'abbiamo già. Con queste emozioni disturbanti tendiamo a ignorare le carenze dell'oggetto. Questi non sono stati mentali felici, poiché non troviamo l'oggetto soddisfacente. Ciò significa che non siamo soddisfatti dell'oggetto, non lo accettiamo per quello che è.

Ad esempio, quando vediamo la nostra ragazza o il nostro ragazzo a cui siamo molto legati, possiamo sperimentare il vederli con felicità. Siamo soddisfatti di vedere la persona, la troviamo soddisfacente. Ma non appena il nostro attaccamento sorge esageriamo le buone qualità della persona, dello stare insieme ed esageriamo le qualità negative dell’esserne privi, sentendoci insoddisfatti e infelici. Non accettiamo che possiamo vederla solo ora e semplicemente goderci il momento, ma vogliamo di più e temiamo che possa andarsene. Così, tutto d’un tratto, sperimentiamo il vedere il nostro amato con insoddisfazione, disagio e infelicità.

Un altro insieme di emozioni disturbanti è l’avversione, la rabbia e l'odio. Con queste esageriamo le carenze o le qualità negative dell'oggetto e vogliamo evitarlo se non ce l'abbiamo, vogliamo sbarazzarcene se ce l'abbiamo e, quando finisce, non vogliamo che si ripeta. Queste tre emozioni disturbanti sono solitamente mescolate alla paura e anch'esse non sono stati mentali felici, poiché non siamo soddisfatti dell'oggetto. Non lo accettiamo per quello che è.

Ad esempio, potremmo dover fare un trattamento canalare. L'oggetto della nostra esperienza è una sensazione fisica di dolore ma, se la accettiamo per quello che è senza esagerarne le qualità negative, non saremo infelici durante la procedura. Potremmo avere una sensazione neutra per il modo in cui sperimentiamo il dolore: accettiamo i tempi che la procedura richiede e quindi non preghiamo che finisca rapidamente; quando il dentista smette di trapanare, non desideriamo che lui o lei trapani di più. Proviamo equanimità rispetto al dolore della perforazione - né repulsione, né attrazione, né ingenuità. Infatti, durante la procedura, potremmo sperimentare felicità concentrandoci sul pensiero che stiamo prevenendo il dolore futuro dell’avere più mal di denti.

Nota che essere felice o soddisfatto di qualcosa non preclude il desiderio di qualcosa di più o di meno, in base al bisogno. Non ci rende inattivi in modo che non proviamo mai a migliorare le cose, a migliorare noi stessi o la nostra situazione nella vita. Ad esempio possiamo accettare, essere soddisfatti e di conseguenza essere contenti dei progressi che abbiamo fatto nello svolgimento di un progetto sul lavoro o nel recupero da un intervento chirurgico. Ma in base alle necessità, possiamo ancora voler fare ulteriori progressi senza essere scontenti di ciò che abbiamo ottenuto finora. Lo stesso è il caso della quantità di cibo nel nostro piatto o della quantità di denaro che abbiamo in banca, se di fatto la realtà è che non ne abbiamo abbastanza e abbiamo bisogno di più. Senza esagerare gli aspetti negativi del non avere abbastanza cibo da mangiare o soldi in banca, o negare i vantaggi di averne di più, possiamo fare sforzi per ottenere più cibo o denaro senza essere scontenti. Se ci riusciamo va bene e se falliamo va bene comunque, in qualche modo ce la faremo. Ma comunque ci proviamo. Ancora più importante, cerchiamo di ottenere di più, ma senza la discorsività mentale delle aspettative di successo o delle preoccupazioni per il fallimento.

Shantideva lo ha spiegato bene nel suo capitolo sulla pazienza (VI.10):

Se si può rimediare, perché essere di cattivo umore per qualcosa? E se non si può rimediare, a che pro essere di cattivo umore per questo?

Il comportamento costruttivo come principale fonte di felicità

A lungo termine, la causa principale della felicità è un comportamento costruttivo. Ciò significa astenersi dall'agire, parlare o pensare sotto l'influenza di emozioni disturbanti come lussuria, attaccamento, avidità, repulsione, rabbia, ingenuità e così via, senza preoccuparsi degli effetti a lungo termine del nostro comportamento su noi stessi e sugli altri. Il comportamento distruttivo, come causa principale dell'infelicità, non è astenersi da quel tipo di comportamento, ma piuttosto impegnarsi in esso. Ad esempio, con il desiderio bramoso esageriamo le buone qualità di un oggetto in un negozio e, ignorando le conseguenze legali, lo rubiamo. Con la rabbia, esageriamo le qualità negative di qualcosa che il nostro partner ha detto e, ignorando l'effetto che avrà sulla nostra relazione, gli urliamo contro e diciamo parole crudeli.

Agire, parlare e pensare mentre ci si astiene dall'essere sotto l'influenza di emozioni disturbanti crea l'abitudine di astenersi dall'essere sotto tale influenza in futuro. Di conseguenza, se in futuro sorge un'emozione disturbante, non agiamo sulla base di essa e, alla fine, la forza dell'emozione disturbante si indebolirà e alla fine difficilmente sorgerà. D'altra parte, più agiamo sulla base delle emozioni disturbanti, più sorgeranno in futuro e più saranno forti.

Come abbiamo visto, quando sperimentiamo un oggetto con felicità lo sperimentiamo senza le emozioni disturbanti di ingenuità, lussuria, attaccamento, avidità, repulsione o rabbia. La nostra esperienza dell'oggetto si basa sull'accettazione della sua natura reale per quello che è, senza esagerare o negare i suoi aspetti positivi o negativi. Questo modo di vivere le cose, quindi, deriva dall'abitudine di un comportamento costruttivo con cui agiamo, parliamo e pensiamo allo stesso modo, basata sull'accettazione della reale natura di ciò che sono le persone, le cose o le situazioni, senza esagerare o negare i loro punti positivi o negativi.

Le circostanze che fanno maturare i potenziali di felicità

Il nostro modo di sperimentare oggetti o pensieri - con felicità o infelicità - non è determinato, quindi, dall'oggetto o dal pensiero stesso. Come abbiamo visto, se con il nostro comportamento a lungo termine abbiamo acquisito l'abitudine di astenerci dall'esagerare o negare gli aspetti positivi o negativi di queste cose, possiamo perfino sperimentare il dolore causato da un trattamento canalare con uno stato mentale felice. Tornando alla definizione di felicità, sperimentiamo la procedura in modo soddisfacente, basandoci sulla convinzione che è di beneficio per noi stessi.

Sebbene potremmo aver rafforzato l'abitudine di astenerci dall'agire, parlare o pensare sotto l'influenza di emozioni disturbanti e quindi accumulato il potenziale per sperimentare oggetti e pensieri con felicità, tuttavia alcune circostanze sono necessarie affinché quel potenziale maturi in un'esperienza di felicità. Come abbiamo visto, l'oggetto della nostra esperienza non determina necessariamente il viverla con felicità o infelicità. Piuttosto, sperimentare un oggetto con felicità dipende più fortemente dal nostro atteggiamento di accettare la realtà di fatto di ciò che è l'oggetto, indipendentemente da ciò che l'oggetto potrebbe essere: la dolorosa sensazione fisica del lavoro canalare o la vista di una persona cara. Quindi, il nostro atteggiamento, il nostro stato mentale, è fondamentale per sapere se al momento ci sentiamo felici o infelici, indipendentemente dall'oggetto che potremmo vedere, udire, annusare, gustare, sentire fisicamente o pensare.

Abbiamo anche visto che quando accettiamo la realtà di ciò che è qualcosa e non siamo ingenui al riguardo, allora non esageriamo o neghiamo le sue qualità buone o cattive e quindi non sperimentiamo l'oggetto con lussuria, avidità, attaccamento o con repulsione o rabbia. Pertanto, ciò che aiuta a innescare la maturazione della felicità in un particolare momento è l’essere liberi dall'ingenuità.

L’ingenuità

In ogni dato momento di infelicità, la nostra ingenuità (gti-mug, scr. moha) non è necessariamente limitata all'essere ingenui riguardo all'oggetto che stiamo sperimentando. L'ingenuità ha una gamma molto più ampia, può anche essere focalizzata su noi stessi. Quando viviamo un problema con grande infelicità, allora con ingenuità tendiamo a fissarci solo su noi stessi e potremmo persino pensare di essere gli unici ad aver sperimentato quel problema.

Prendiamo l'esempio del perdere il nostro lavoro. La realtà è che ci sono milioni di persone in tutto il mondo che hanno perso il lavoro e che ora sono disoccupate. Possiamo pensare alla nostra situazione senza essere ingenui riguardo all'impermanenza, per esempio. Ricordiamo che tutti i fenomeni che derivano da cause e circostanze saranno influenzati da ulteriori cause e circostanze e alla fine finiranno. Questo può essere molto utile, ma ancora più efficace è espandere ulteriormente la portata del nostro pensiero per includere non solo il nostro problema, ma anche quelli di tutti gli altri, come perdere il lavoro, se è successo a loro. Dobbiamo pensare “Questo non è solo un mio problema ma di un numero enorme di persone. Non sono l'unico ad aver bisogno di una soluzione, anche tutti gli altri ne hanno bisogno; tutti hanno bisogno di superare tali problemi e infelicità". Questa è, infatti, la realtà.

Con questo modo di pensare che è senza ingenuità sviluppiamo compassione (snying-rje, scr. karuna) per gli altri piuttosto che crogiolarci nell'autocommiserazione. Le nostre menti non sono più concentrate solo su noi stessi, ma sono molto più aperte nel pensare a tutti gli altri che si trovano in una situazione simile. Con il desiderare di aiutarli a superare anche i loro problemi, i nostri problemi individuali diminuiscono di importanza e sviluppiamo il coraggio e la forza per affrontarli in modo obiettivo. Certamente non volevamo perdere il nostro lavoro, ma con serenità accettiamo la realtà della situazione e, pensando agli altri, potremmo anche essere felici al pensiero che ora abbiamo l'opportunità di provare ad aiutarli.

La relazione tra compassione e felicità

La compassione, quindi, è uno dei fattori cruciali per attivare le nostre potenzialità per sperimentare un oggetto o una situazione con felicità. Ma come funziona? La compassione è il desiderio che gli altri siano liberi dalla sofferenza e dalle cause della sofferenza, proprio come desideriamo lo stesso per noi. Ma quando ci concentriamo sulla sofferenza e l'infelicità degli altri, ci sentiamo naturalmente tristi per questo, non felici. Oppure potremmo aver bloccato i sentimenti e non provare nulla. In entrambi i casi, non ci sentiamo felici per la loro sofferenza. Allora, come fa la compassione a creare uno stato mentale felice?

Per capirlo, dobbiamo differenziare le sensazioni sconvolgenti (zang-zing) da quelle non sconvolgenti (zang-zing med-pa). Qui, sto usando questi termini non con le loro definizioni rigorose, ma in un modo più colloquiale e non tecnico. La differenza è: se la sensazione felice, infelice o neutra è mescolata o meno all'ingenuità e alla confusione sulla sensazione stessa. Ricorda, quando abbiamo differenziato la felicità dall'infelicità in generale, la variabile era se fossimo ingenui o meno riguardo all'oggetto che stavamo sperimentando. Qui, anche se non esageriamo o neghiamo le qualità di un oggetto che sperimentiamo con infelicità, per esempio, potremmo ancora trasformare quella sensazione infelice in una sorta di "cosa" solida, veramente esistente, come una nuvola scura e pesante che pende sopra le nostre teste. Quindi esageriamo le qualità negative di quella sensazione e immaginiamo che sia, ad esempio, "un'orribile depressione" e ci sentiamo intrappolati. In questo caso, l’ingenuità è non accettare il sentimento infelice per quello che è. Dopo tutto, un sentimento di infelicità è qualcosa che cambia di momento in momento al variare della sua intensità: non è una sorta di solido oggetto monolitico che esiste veramente da solo, non influenzato da nient'altro.

Possiamo applicare un'analisi simile a quando non proviamo alcun sentimento quando pensiamo alla sofferenza degli altri. In questo caso, quando esageriamo la qualità negativa del sentirci tristi o infelici, abbiamo paura di sentirlo e quindi lo blocchiamo. Allora proviamo una sensazione neutra, né infelice né felice. Ma poi esageriamo anche quella sensazione neutra, immaginandola come qualcosa di solido, come un grande “nulla” solido che è seduto dentro di noi, impedendoci di sentire sinceramente qualsiasi cosa.

Per sviluppare la compassione è importante non negare che le situazioni difficili degli altri siano tristi, come può essere per noi quando perdiamo il lavoro. Sarebbe malsano avere paura di provare quella tristezza, bloccarla o reprimerla. Abbiamo bisogno di provare questa tristezza ma in modo non sconvolgente, per essere in grado di entrare in empatia con la sofferenza degli altri, sviluppare il profondo desiderio sincero che gli altri ne siano liberi e assumerci la responsabilità di cercare di aiutarli a superarla. In breve, il consiglio buddhista è "Non solidificare il sentirti triste, non farne un grosso problema".

Calmare la mente

Per provare la sensazione di tristezza in modo non sconvolgente, dobbiamo calmare le nostre menti di tutta la discorsività mentale e l'ottusità. Con la discorsività mentale, la nostra attenzione si sposta su pensieri estranei disturbanti, come pensieri di preoccupazione, dubbio, paura o pensieri pieni di aspettative su ciò che speriamo essere qualcosa di più piacevole. Con l'ottusità mentale cadiamo in una nebbia mentale e così diventiamo disattenti a tutto.

Il Buddhismo è ricco di metodi per liberare i nostri stati mentali dalla discorsività e dall'ottusità. Uno dei metodi più basilari è calmarsi concentrandosi sul respiro. Con discorsività e ottusità ridotte al minimo, le nostre menti sono tranquille e serene. In un tale stato, possiamo anche calmare più facilmente qualsiasi esagerazione, avversione o indifferenza per i problemi e la sofferenza degli altri e per i nostri sentimenti al riguardo. Quindi, anche se inizialmente ci sentiamo tristi, non è sconvolgente.

Alla fine, tuttavia, quando la nostra mente si rilassa e si calma ulteriormente, sentiamo naturalmente un basso livello di felicità. In uno stato mentale ed emotivo tranquillo, il calore naturale e la felicità della mente si manifestano. Se abbiamo costruito potenziali abbastanza forti per sperimentare la felicità dall'aver intrapreso un comportamento costruttivo, il nostro stato d'animo tranquillo aiuta a far sì che anche loro maturino.

Sviluppare l'amore

Quindi aumentiamo questa felicità con pensieri d'amore (byams-pa, scr. maitri). L'amore è il desiderio che gli altri siano felici e abbiano le cause della felicità. Un tale desiderio deriva naturalmente da una simpatia compassionevole. Sebbene ci sentiamo tristi per il dolore e la sofferenza di qualcuno, è difficile sentirci in questo modo mentre desideriamo attivamente che la persona sia felice. Quando smettiamo di pensare a noi stessi e ci concentriamo invece sulla felicità di qualcuno, il nostro cuore si riscalda naturalmente. Questo ci porta automaticamente un'ulteriore dolce sensazione di gioia e può innescare ancora più potenziali per sentirci felici che sono stati accumulati a lungo dal nostro comportamento costruttivo. Così, quando l'amore è disinteressato e sincero, l'accompagna una dolce felicità che non turba e la nostra tristezza scompare. Proprio come un genitore che soffre di mal di testa dimentica il dolore mentre conforta il suo bambino malato, allo stesso modo la tristezza che proviamo per la sfortuna di qualcuno scompare quando irradiamo pensieri d'amore.

In sintesi

In breve, la fonte di felicità a lungo termine più fondamentale secondo il Buddhismo è costruire l'abitudine di astenersi dall'agire, parlare o pensare in modo distruttivo sotto l'influenza di emozioni e atteggiamenti disturbanti come lussuria, avidità, attaccamento, avversione e rabbia: tutto ciò ha le sue radici nell'ingenuità. Tale comportamento costruttivo costruisce i potenziali nel nostro continuum mentale per sperimentare la felicità in futuro. Possiamo far maturare quei potenziali non esagerando o negando le qualità buone o cattive di qualsiasi oggetto o situazione che sperimentiamo o qualsiasi livello di felicità o infelicità con cui lo sperimentiamo, indipendentemente da quale sia l'oggetto o la situazione. Senza ingenuità e quindi senza attaccamento, repulsione o indifferenza, dobbiamo quindi acquietare le nostre menti dalla discorsività mentale e dall'ottusità. Abbiamo soprattutto bisogno di calmare le nostre menti dalle preoccupazioni o aspettative. In quello stato mentale sereno e tranquillo, sentiremo già un lieve livello di felicità e innescheremo le potenzialità che potremmo avere per provare una felicità ancora maggiore.

Quindi espandiamo le nostre menti rivolgendo la nostra attenzione ai problemi degli altri e a come potrebbero trovarsi in situazioni anche peggiori delle nostre. Smettiamo di pensare solo a noi stessi. Pensiamo a quanto sarebbe meraviglioso se tutti gli altri potessero essere liberi dalla loro sofferenza e quanto sarebbe bello se potessimo aiutarli a farlo. Questa forte compassione porta naturalmente a un sentimento di amore: il desiderio che siano felici. Pensare alla loro felicità innesca ancora di più il nostro potenziale di felicità per maturare.

Con questi pensieri di compassione e amore, possiamo quindi rivolgere i nostri pensieri ai Buddha o a qualsiasi grande figura umanitaria. Pensando ai loro esempi, otteniamo l'ispirazione (byin-gyis rlabs, scr. adhisthana) per assumerci la responsabilità di provare effettivamente ad aiutare gli altri. Questo ci aiuta a ottenere la forza e il coraggio per affrontare non solo i problemi degli altri ma anche i nostri, senza esagerare e senza preoccupazioni per il fallimento o le aspettative di successo.

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