Dalle due verità, le quattro verità

Impegnarsi in un obiettivo spirituale

Esistono due modi di perseguire un obiettivo spirituale:

  • Uno basato sulla fede – abbiamo fede nella possibilità di raggiungere quell’obiettivo. Sulla base di questa fede ci adoperiamo per [ottenerlo], e mentre avanziamo nel nostro addestramento diventiamo infine convinti che sia possibile raggiungere l’obiettivo. Per esempio, se il tuo obiettivo è quello di superare ed eliminare la sofferenza definitivamente e hai fiducia che questo sia possibile, se mentre ti impegni in questo la tua sofferenza diminuisce, allora sarai convinto che sia possibile raggiungere questo scopo. Come parte del tuo progresso tu studi e mediti di più e con questo diventi anche convinto in senso logico che il traguardo sia possibile.
  • Uno basato sulla convinzione – prima ti convinci grazie al ragionamento e alla logica che lo scopo sia possibile, e poi ti adoperi per raggiungerlo.

Questi sono i due approcci normalmente discussi per quanto concerne i due metodi per sviluppare il bodhichitta, se vogliamo utilizzare i termini buddhisti classici.

Innanzitutto sviluppiamo il bodhichitta relativo, puntando alla nostra illuminazione futura che non è ancora avvenuta, ma che può accadere. Vogliamo fare questo per beneficiare tutti, perché capiamo che l’unico modo in cui possiamo davvero aiutare gli altri è ottenere questo stato in cui comprendiamo pienamente causa ed effetto e il modo più efficace di aiutare gli altri. Inoltre, siamo fiduciosi che sia possibile ottenerlo. 

Man mano che progrediamo, sviluppiamo il cosiddetto bodhichitta più profondo, che si riferisce alla comprensione della vacuità – il fatto che le cose non esistono in modi impossibili. Comprendiamo la realtà vedendo che la natura della mente è capace di evitare la proiezione di fantasie, e di percepire effettivamente solo la realtà stessa. Grazie a questa comprensione, siamo logicamente convinti che l’obiettivo sia raggiungibile. La nostra fede diventa convinzione

L’altro approccio consiste nello sviluppare prima questa comprensione della realtà, in cui capiamo che l’illuminazione sia possibile – quindi innanzitutto il bodhichitta più profondo. Su questa base, siamo convinti che possiamo ottenere l’illuminazione e, per via di questa convinzione, ci impegniamo per ottenerla. Il secondo approccio si trova in uno dei testi di Nagarjuna, un grande maestro indiano, chiamato “Un commentario sul bodhichitta” (scr. bodhichitta-vivarana).

Questo approccio è presentato nella strofa che abbiamo visto, di come le Quattro Nobili Verità derivino dalle due verità e i Tre Gioielli Preziosi derivino dalle Quattro Nobili Verità. Lo scopo di questa presentazione è di aiutarci a capire che la liberazione e l’illuminazione sono possibili, poiché sono basate sulla realtà.

  • La liberazione è quello stato in cui sei per sempre libero dalle rinascite che ricorrono in modo incontrollabile: libertà totale dal samsara, così da diventare per sempre liberi dalla sofferenza. Coloro che hanno ottenuto la liberazione sono degli “arhat”, esseri liberati.
  • L’illuminazione è lo stato in cui sei per sempre libero da tutte le oscurazioni che ti impediscono di realizzare i modi più efficaci per aiutare anche tutti gli esseri limitati ad ottenere la liberazione e l’illuminazione. Gli esseri illuminati sono conosciuti come dei “Buddha”.

Quando ci siamo convinti che non solo è possibile, ma anche noi – non solo Buddha Shakyamuni – possiamo ottenere la liberazione e l’illuminazione, ciò ci darà molta forza e stabilità nella nostra pratica spirituale. Non è comunque così facile da capire, ma nessuno ha mai detto che lo fosse!

Le due verità

Durante la nostra prima sessione abbiamo discusso il primo verso:

Conoscendo il significato delle due verità, che è il fondamento, il modo in cui tutte le cose dimorano,

Il fondamento su cui si basa l’intera discussione è la presentazione delle due verità, che si occupa di come tutto esiste e funziona – in altre parole, il modo in cui tutte le cose dimorano. Queste due verità, rispetto a tutto, sono entrambe valide e quindi vere:

  • La verità relativa: le cose sorgono in base a cause e condizioni. Ci sono naturalmente altri livelli su ciò da cui le cose dipendono, come le loro parti e i concetti che si riferiscono ad esse. Qui il punto principale è causa ed effetto in un senso esperienziale, specialmente relativo alla nostra esperienza di felicità e infelicità in relazione all’impulsività del karma.
  • La verità più profonda: sebbene le cose potrebbero non apparirci come un sorgere interdipendente, nondimeno quelle apparenze ingannevoli di modi d’esistenza impossibili non corrispondono alla realtà.  È totalmente assente una vera e propria realtà che corrisponda alle nostre proiezioni. Questa assenza totale di cose che esistono completamente da sole, indipendentemente da cause e condizioni, è conosciuta come “vacuità”.

Le quattro nobili verità

Sulla base della validità delle due verità, il Buddha fu in grado di comprendere e formulare le Quattro Nobili Verità. Questo è mostrato nel secondo verso:

Diventiamo certi del modo in cui, attraverso le quattro verità, continuiamo a prendere, ma possiamo anche invertire, le nostre rinascite che ricorrono in modo incontrollabile.

Le Quattro Nobili Verità sono viste come vere dagli esseri altamente realizzati. Questo è un punto interessante, perché significa che non solo i Buddha vedono queste realtà come vere, ma anche coloro che raggiungono un certo livello prima – in realtà molto prima – dell’illuminazione. Avviene quando si ha una cognizione non concettuale della vacuità, in altre parole, della realtà più profonda. Questa comprensione è completamente accurata e completamente definitiva. Poiché è non concettuale ciò significa che non percepiamo le cose tramite categorie.

Quando pensiamo tramite una categoria, per esempio “cane”, c’è qualcosa che rappresenta un cane. Questa rappresentazione può essere leggermente diversa per ogni persona, ma quando vediamo un cane per la strada o altrove, lo percepiamo attraverso questa categoria. Tramite l’immagine che abbiamo di un cane – non necessariamente una specifica immagine visiva – combiniamo la percezione del cane. Quando percepiamo qualcosa non concettualmente, è senza il filtro di qualche categoria o di qualcosa che la rappresenti. Questo è il motivo per cui è chiamata “cognizione nuda”. Percepisci le cose senza metterle in delle scatole.

Gli esseri altamente realizzati, arya in sanscrito, percepiscono la realtà senza porla nel compartimento di “realtà”, come “Ora sto vedendo la realtà”. Essi comprendono completamente, accuratamente e definitivamente ciò che percepiscono – la realtà – senza doverlo porre in nessuna scatola o categoria. Non è così facile. Anche se noi potremmo non verbalizzare le scatole in cui mettiamo le cose, è il modo in cui solitamente noi percepiamo qualunque cosa. Mettiamo tutto in scompartimenti, come se le cose esistessero in queste scatole completamente a sé stanti, separate da tutto il resto.

Non c’è bisogno di spiegare ulteriormente la cognizione concettuale. Il punto è che non serve essere un Buddha per percepire la realtà in questo modo. Quando percepiamo la realtà non concettualmente, vedremo le Quattro Nobili Verità come vere, e saremo certi di esse.

Quali sono queste quattro verità? La prima è la sofferenza. La seconda è la causa della sofferenza. La terza è la cessazione della sofferenza e delle sue cause. La quarta è il sentiero, o la comprensione, che condurrà alla cessazione della sofferenza. Queste sono chiamate verità, come in “vera sofferenza”, “vera causa”, ecc.

Questa intera discussione è nel contesto delle rinascite – continua mentali senza inizio né fine. La rinascita è la base. Abbiamo parlato dell’esperienza individuale delle cose momento per momento che, se opera secondo causa ed effetto, non può avere un inizio assoluto in cui comincia dal nulla. Similmente, non ci può essere un momento finale in cui diventa nulla. È impossibile. Seguendo semplicemente la verità fondamentale di causa ed effetto, dovremmo concludere che il continuum mentale individuale non ha inizio né fine, e così le rinascite devono essere vere.

La vera sofferenza

Ci sono tre aspetti relativi alla vera sofferenza:

  • Il primo consiste nella nostra infelicità abituale, quella che chiamiamo sofferenza della sofferenza. Noi tutti abbiamo sperimentato l’infelicità. L’infelicità non è necessariamente la stessa cosa del dolore. Felicità e infelicità e piacere e dolore sono due coppie diverse di cose. Il piacere e il dolore sono sensazioni fisiche, mentre la felicità e l’infelicità sono stati della mente. Qualcuno potrebbe provare del dolore ma esserne felice, come dopo un intenso allenamento fisico, mentre qualcuno potrebbe sperimentare piacere ma esserne molto dispiaciuto, come quando si è costretti ad avere rapporti sessuali. Così queste due variabili sono diverse. Stiamo qui parlando dell’infelicità che noi tutti conosciamo e che è descritta in relazione ai peggiori tipi di rinascita, colmi di tutti i tipi di sofferenza.
  • Il secondo tipo è chiamato sofferenza del cambiamento e si riferisce alla nostra felicità ordinaria. Il problema della nostra felicità ordinaria è che non dura o non ci soddisfa mai. Ne vogliamo sempre di più, ma se ne abbiamo troppa ci infastidiamo e si tramuta in infelicità. Un facile esempio è l’eccedere nel mangiare il proprio cibo preferito, e poi ci sentiamo male. Così non ne vuoi mangiare più e ti senti infelice. Il problema è che la nostra felicità ordinaria non è appagante o stabile. La nostra vita ordinaria ha alti e bassi, qualche volta siamo felici e altre volte siamo infelici, ma non c’è sicurezza in questo. Al di là di ciò che succede intorno a noi, non sappiamo mai come staremo un momento dopo. Improvvisamente potremmo sentirci infelici, annoiati o depressi. Va continuamente su e giù, su e giù.
  • Il terzo tipo di sofferenza è chiamata la sofferenza onnipervasiva, che è la base per il nostro sperimentare gli alti e i bassi dell’infelicità e della felicità ordinaria. La base è la nostra esistenza o rinascita che si ripete in modo incontrollabile, conosciuta in sanscrito come samsara. Continuiamo a rinascere ripetutamente con un tipo di corpo e mente che sono la base dello sperimentare gli alti e i bassi dell’infelicità e della felicità ordinaria della vita. Questa è la vera sofferenza, il nostro vero problema. Questa è la sofferenza principale che potremmo realizzare se vedessimo la realtà.

Le vere cause della sofferenza

Se vedi la realtà, comprenderai come vero il fatto che ciò che sperimentiamo vada su e giù, con una base che prosegue continuamente. Quando comprendiamo questo, capiremo come ciò debba provenire da una causa. Il punto principale della verità relativa è che tutte le cose sorgono da cause; allora qual è la vera causa che ci induce continuamente e incontrollabilmente ad avere rinascite che si ripetono, come menzionato nella strofa? In altre parole, come avviene? Qual è la causa che perpetua questo ciclo ripetitivo?

Nella nostra ultima sessione abbiamo visto che se noi sperimentiamo infelicità, ciò è il risultato di comportamenti distruttivi e se sperimentiamo felicità ordinaria, è il risultato di comportamenti costruttivi. A questo aggiungiamo il karma, che spesso traduco con impulsività. Così ci sono comportamenti impulsivi distruttivi e comportamenti impulsivi costruttivi. Non si tratta del comportamento costruttivo di un Buddha – ma di un comportamento che è impulsivo, in cui compiamo compulsivamente del bene sulla base del nostro egocentrismo, o dobbiamo impulsivamente essere perfetti e fare tutto nel modo corretto. Questo è piuttosto nevrotico.

Se stiamo agendo in modo impulsivo, è perché siamo sotto l’influenza di emozioni e atteggiamenti disturbanti, di cui abbiamo già discusso in relazione ai comportamenti impulsivi distruttivi. Per rabbia, uccidiamo qualcuno; per avidità, rubiamo qualcosa; per ingenuità, pensiamo che le nostre azioni non abbiano conseguenze, come “Non mi prenderanno. Non importa. Se rubo, sarà divertente!”.

Dietro questo comportamento impulsivo distruttivo c’è inconsapevolezza, un termine spesso tradotto come “ignoranza”, ma non implica che siamo stupidi, solo confusi. Di che cosa siamo inconsapevoli? Innanzitutto di causa ed effetto: se li avessimo davvero compresi e ne fossimo persuasi, non agiremmo in maniera distruttiva. Sapremmo istintivamente che ciò finirebbe per causarci sofferenza, che non è una punizione, ma semplicemente il risultato delle cause che creiamo.

In realtà ci sono due tipi di inconsapevolezza. Non sappiamo che agire distruttivamente ci porterà alla fine infelicità, o pensiamo in un modo opposto, come “Se agisco distruttivamente sarò felice. Se rubo qualcosa che voglio, sarò felice. Se uccido il mio nemico, sarò felice”. Anche se subito dopo aver agito distruttivamente potremmo sentirci felici, “Ah, ho ucciso quella zanzara, ora posso rilassarmi!”, tuttavia, quanto alle conseguenze di lungo termine, come il sentirsi infelici qualunque cosa accada, questo è il risultato di comportamenti distruttivi del genere. Così i comportamenti distruttivi derivano dall’inconsapevolezza di causa ed effetto, cioè dall’inconsapevolezza della verità relativa. Non pretendo che tutto questo sia facile da capire, perché non lo è, ma è qualcosa su cui possiamo lavorare.

Se riassumiamo questo punto, la ragione per cui spesso sono infelice è perché non ho capito causa ed effetto. Quando la mia mente è colma d’ira, avidità, gelosia, ecc., questo mi porta ad agire impulsivamente in un modo distruttivo. Questo è in realtà autodistruttivo, perché come risultato mi sento infelice molto spesso. Questo è il collegamento che va fatto.

Anche la felicità che sperimentiamo giunge da un’inconsapevolezza ma, in questo caso è l’inconsapevolezza della verità più profonda delle cose. Per essere più precisi dobbiamo dire che l’inconsapevolezza è alla base di entrambi i comportamenti, costruttivi e distruttivi. Rispetto al comportamento distruttivo siamo inconsapevoli di entrambe, la verità più profonda e quella relativa. Per i comportamenti costruttivi, abbiamo solo l’inconsapevolezza della verità più profonda. C’è una sorta di voce nella nostra testa che pensa, “Cosa dovrei fare? Voglio fare a modo mio! Sono preoccupato”. Pare che là dentro ci sia un piccolo “io” davvero trovabile che sta parlando. Ma questo non corrisponde alla realtà. Non esiste qualcosa del genere. Esiste solo una componente verbale dei nostri pensieri e non un piccolo “io” che si lamenta e si preoccupa. Quando siamo inconsapevoli del modo in cui esistiamo, siamo inconsapevoli della realtà più profonda, e ci identifichiamo con questa proiezione di un “io” imaginario dentro di noi. Poiché non corrisponde alla realtà siamo insicuri al riguardo, e cerchiamo di diventare sicuri. Naturalmente non potremo mai avere successo.

Un meccanismo che usiamo per cercare di rendere sicuro quel piccolo “io” immaginario sono le nostre emozioni disturbanti. Pensiamo che, “Se solo potessi avere qualcosa, diventerò sicuro”, e così abbiamo avidità, attaccamento e bramosia. Poi pensiamo, “Se solo potessi liberarmi di quello, sarei sicuro”, e così abbiamo rabbia e repulsione. O potremmo essere ingenui e pensare, “Se solo facessi finta che qualunque cosa mi stia minacciando non esista, allora sarò sicuro”. Su questa base abbiamo anche comportamenti distruttivi, come quando ignoriamo il nostro livello crescente di stress. In base alla rabbia urliamo, feriamo e perfino uccidiamo gli altri. Per avidità rubiamo o abbiamo comportamenti sessuali scorretti che feriscono gli altri. Per ingenuità diventiamo maniaci del lavoro, ci nutriamo seguendo diete non sane e non facciamo mai attività fisica. Così tutto questo deriva dall’ingenuità rispetto alla verità più profonda – come noi esistiamo – e a causa ed effetto.

Riguardo ai comportamenti costruttivi, anche se potrebbero non essere una base delle emozioni disturbanti, vi è comunque questa ingenuità sottostante a tutti. Cerchiamo di provare o stabilire la nostra esistenza tramite l’essere perfetti o buoni, tramite l’essere i migliori genitori o qualunque altra cosa – “Questo renderà sicuro il mio piccolo ‘io’ nella mia testa” – che non avviene mai. Non ci sentiamo mai sicuri. Sebbene possiamo sentirci felici nell’aiutare gli altri, è comunque felicità ordinaria e così non durerà. Non saremo mai soddisfatti con questa, perché inevitabilmente non ci sentiamo ancora abbastanza buoni, abbastanza perfetti. Sentiamo ancora di dover provare qualcosa. Ciò è chiaramente basato su questa inconsapevolezza del livello più profondo di come esistiamo.

Per il terzo tipo di sofferenza, la base dello sperimentare gli alti e i bassi dell’infelicità e della felicità ordinaria, abbiamo uno schema molto complicato chiamato i “dodici anelli di origine dipendente”, che non spiegherò qui in dettaglio, ma che parla di come funziona il karma.

Semplicemente il karma si riferisce all’impulsività, in base a cui agiamo in modo distruttivo o costruttivo. Cosa significa davvero un impulso? L’impulso ha la connotazione che non hai veramente il controllo su qualcosa, come qualcuno che picchietta impulsivamente le dita. Questo sorge semplicemente dalla voglia di fare qualcosa. La parola tibetana significa soltanto “Lo voglio fare, lo desidero fare, mi piace farlo”, come avere voglia di urlare, abbracciare o mangiare. Allora subentra il fattore dell’impulsività e lo facciamo. Semplicemente questo crea certe tendenze a ripetere l’azione e una tendenza allo sperimentare infelicità se si trattava di un’azione distruttiva, e felicità se era un’azione costruttiva. Questa tendenza sarà attivata in certi momenti in determinate condizioni. Quando matura ci sentiamo felici, infelici o ci va di urlare di nuovo, o desideriamo abbracciare ancora.

È uno schema che si perpetua, che va avanti continuamente, perché sperimentiamo costantemente questo desiderio di continuare tale tipo di comportamento. Così la dinamica del comportamento si ripete senza fine, perché la rinforziamo costantemente. Così sperimentiamo sempre questi alti e bassi di felicità e infelicità.

Ora la domanda più rilevante è come sono attivate queste tendenze per produrre il risultato, così che desideriamo ripetere il comportamento? Questo è spiegato molto elegantemente nei 12 anelli, anche se è molto complesso. Abbiamo costantemente questi alti e bassi, e non devono essere particolarmente drammatici. Anche quando dormiamo, potremmo trovarci in uno stato intermedio in cui non stiamo dormendo bene e non siamo molto felici. Allora qual è il nostro stato mentale quando sperimentiamo infelicità o felicità ordinaria? In sanscrito è trshna, che significa “sete”. È normalmente tradotta come “bramosia”, ma la parola vera e propria significa soltanto sete.

Essenzialmente quando noi sperimentiamo infelicità moriamo dalla sete di liberarcene, proprio come quando vogliamo eliminare la nostra sete. Quando sperimentiamo felicità non vogliamo liberarcene, ma siamo assetati dell’averne di più. È come quando hai davvero sete e bevi il primo sorso – non è abbastanza, no? Non te ne vuoi separare, ma ne vuoi ancora e ancora. Allora ciò che sopraggiunge è l’afferrarsi a un io solido, in cui pensiamo, “Devo liberarmi di questa infelicità”, “Non devo liberarmi di questa felicità”, e questo attiva le tendenze karmiche. Questa è la vera causa della sofferenza onnipervasiva. Così le tendenze per sperimentare felicità e infelicità e così via sorgono dai nostri comportamenti compulsivi mescolati alle emozioni disturbanti, le quali a loro volta provengono dalla nostra inconsapevolezza del livello più profondo della realtà: come esistono le nostre sensazioni (cambiano in continuazione) e come realmente esistiamo (non come qualche insicura entità reperibile nelle nostre teste che in qualche modo può essere resa sicura mediante l’afferrarsi).

Questa inconsapevolezza è la causa fondamentale, ed è connessa a entrambi i comportamenti, distruttivi e costruttivi. È la vera e propria creatrice dei problemi la quale fa in modo che le tendenze ad essere felici, infelici e di ripetere i comportamenti esistano veramente. Se consideriamo questa sete, è intrinsecamente collegata a questa inconsapevolezza su come esistiamo. Pensiamo “Io sono ‘io’, l’unico ad essere importante, così non posso essere separato da questa felicità. È davvero importante che io non sia infelice”, piuttosto che “Ok, sono felice o infelice…e allora?”. La vera causa delle nostre perpetue e continue rinascite che ricorrono in modo incontrollabile è semplicemente la nostra inconsapevolezza delle due verità.

La vera cessazione delle cause della sofferenza

La terza verità consiste nella vera cessazione, in cui le cause della sofferenza vengono bloccate e così anche la sofferenza viene bloccata. Com’è possibile rimuovere definitivamente questa inconsapevolezza rispetto alla realtà? Quando percepisci ciò che non corrisponde alla realtà, non c’è nessuna base per quello. Non corrisponde a nulla di vero, e quindi non c’è nulla che lo sostenga.

Per esempio quando c’è una scenografia in uno spettacolo teatrale, ci sono dei supporti retrostanti che la sostengono. Il termine tibetano significa che non esistono questi supporti che sostengono le nostre proiezioni di ciò che è impossibile. Cosa accade quando non c’è nulla che sostenga lo scenario? Cade.

Quando sei in grado di focalizzarti sul fatto che non esiste alcun supporto per le false proiezioni che abbiamo, allora con la pratica infine riusciremo a rimanere concentrati per sempre su questa realizzazione. È impossibile che lo scenario possa mai ritornare in piedi. Questo dramma del piccolo io nella testa che si preoccupa, “Cosa dovrei fare?” e “Devo essere perfetto” e “Devo fare a modo mio” si fermerà. Quando vedremo che non c’è mai stato nulla che sostenesse le nostre proiezioni, allora la nostra mente non proietterà più qualcosa di impossibile. Grazie a questo non attiveremo più nessuna di quelle tendenze, perché non ci sarà nulla che le attiverà. Non ci sarà più: “Io, io, io. Io devo essere felice e io non posso essere infelice!”.

Se non c’è nulla che attivi le tendenze, non puoi dire che possiedi ancora le tendenze. Qualcosa può essere una tendenza per un risultato solo se può esserci un risultato. In altre parole, l’intero concetto di una tendenza dipende dalla presenza di un risultato. Se non c’è un risultato, non può più esserci una tendenza che lo produca.

Questo è il modo in cui possiamo invertire la rinascita che ricorre in modo incontrollabile. Anche se le nostre menti sono state riempite di tendenze da tempo senza inizio, se non c’è nulla che le attivi allora non esisteranno più. Quando rimaniamo con la consapevolezza della realtà, semplicemente non creiamo comportamenti impulsivi che causerebbero ulteriori tendenze. Pertanto la rinascita che ricorre in modo incontrollabile e la base per i nostri alti e bassi saranno sparite, finite per sempre. Questa è una vera cessazione e così raggiungiamo la liberazione.

La vera mente-sentiero che determina una vera cessazione

La Quarta Nobile Verità è generalmente tradotta come il “vero sentiero” e si riferisce agli stati mentali o comprensioni che, come un sentiero, ti conducono all’obiettivo. Questa è la comprensione corretta e definitiva delle due verità. Quanto più ci familiarizziamo con essa, tanto più alla fine sarà sempre con noi, diventerà un sentiero che determinerà la vera cessazione delle rinascite che si ripetono in modo incontrollabile.

Conclusione

Questo è il modo in cui le quattro verità derivano dalle due verità.

Come si entra nel samsara? Secondo la strofa che abbiamo esaminato, ciò è indicato nelle prime due delle Quattro Nobili Verità: la vera sofferenza e le vere cause. Essenzialmente entriamo nel samsara a causa della nostra confusione rispetto alle due verità. Non conosciamo la realtà, oppure immaginiamo che sia piuttosto diversa da come è veramente. Come ne usciamo? Grazie alla terza e alla quarta Nobile Verità, la vera cessazione e le vere menti-sentiero. Così non conoscendo le due verità della realtà, abbiamo le prime due tra le Quattro Nobili Verità, e conoscendole abbiamo le ultime due.

Sebbene questo sia un argomento molto complesso, questo è il modo in cui utilizziamo gli insegnamenti buddhisti per cercare di acquisire una certa convinzione che sia effettivamente possibile raggiungere i traguardi descritti dal Buddhismo, a cui stiamo puntando con la nostra pratica. Quando comprendiamo tutto accuratamente, possiamo assemblarlo con tutte le altre cose che ciò implica. Attraverso la meditazione poi ci familiarizziamo con questo: ci abituiamo a vedere la realtà.

Sulla base di ascoltare, pensare e meditare possiamo diventare convinti che l’obiettivo a cui puntiamo con la nostra pratica sia effettivamente possibile, una realtà che può essere ottenuta e che noi stessi possiamo ottenere se ci impegniamo abbastanza. In questo modo la nostra pratica diventa molto più stabile, perché non è semplicemente basata su una credenza vacillante che sia possibile ottenere ciò a cui puntiamo; al contrario, ne siamo certi.

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