La necessità di un contesto culturale
Il Buddhismo sorse nel contesto della cultura asiatica, specificatamente l’antica cultura indiana. Diffondendosi in altre civiltà fu adottato da altre culture asiatiche, compresa quella tibetana. Ma come distinguiamo il Buddhismo dalla cultura asiatica o tibetana? È molto importante porsi questa domanda, soprattutto se ci stiamo impegnando per essere di beneficio agli altri. Ad esempio, potremmo essere affascinati o potremmo apprezzare la cultura tibetana o asiatica in generale, ma se desideriamo aiutare gli altri trasmettendo loro gli insegnamenti buddhisti, il Dharma, questo può essere loro di beneficio? Credo sia questa la domanda da porsi.
Proprio come potremmo apprezzare o meno alcuni aspetti della cultura tibetana, in modo simile ci saranno altre persone che cerchiamo di aiutare le quali potrebbero apprezzarla o meno. Dobbiamo essere flessibili quando lavoriamo con le persone e le aiutiamo. Le incoraggiamo ad accendere lampade al burro e ad appendere bandiere di preghiera, o questo è qualcosa che li farebbe allontanare dal Buddhismo? Ci sono due considerazioni da fare qui: i nostri scopi e benefici, e gli scopi e gli obiettivi degli altri.
Qui bisogna porsi una domanda fondamentale: è possibile avere insegnamenti buddhisti senza un contesto culturale? In altre parole, possono gli insegnamenti esistere di per sé al di fuori di un contesto? In maniera simile, può una cosa qualunque esistere fuori da un contesto? Se vogliamo utilizzare la terminologia usata negli insegnamenti sulla vacuità, allora possiamo chiederci: “È possibile stabilire qualcosa come un insegnamento buddhista solo dal suo lato, oppure è stabilito in base a un contesto?”.
Naturalmente, utilizzando l’analisi sulla vacuità che si trova nel Buddhismo, non è possibile stabilire un insegnamento buddhista al di fuori di un contesto. Questo si accorda con il principio generale che conosciamo e cioè che il Buddha insegnò con mezzi abili. Insegnò a varie persone, studenti e discepoli in base a ciò che essi potevano comprendere. Gli altri vivono in una società con una cultura ed idee fondamentali. Generalmente le persone non vivono in modo indipendente da una società e dalla sua cultura.
Se esaminiamo semplicemente il Buddha storico, quest’ultimo insegnò ad un pubblico indiano. Se invece pensiamo nel modo più vasto del Mahayana, il Buddha insegnò ad innumerevoli esseri in innumerevoli universi, ma in ciascuno di questi universi e campi di buddha era presente una cultura.
Il fondamentale contesto indiano
Quando esaminiamo gli insegnamenti buddhisti che sono stati messi per iscritto e che sono ora disponibili per noi, ritroveremo in essi dei temi generali che sono presenti praticamente in tutti i sistemi indiani di filosofia e di pensiero. C’è il karma e la rinascita ripetuta a causa dell’influenza del karma che si accumula in base all’ignoranza o all’inconsapevolezza della realtà. C’è il sentiero dell’ascolto degli insegnamenti di un maestro spirituale, e poi il pensare e il meditare su di essi per ottenere la liberazione dall’ignoranza e dalla rinascita samsarica. In altre parole la liberazione deriva dalla comprensione della realtà e dalla purificazione del karma. Tutto ciò è in comune a molti sistemi indiani differenti, assieme agli insegnamenti su amore e compassione e a tutti i metodi per ottenere la concentrazione. Perfino gli insegnamenti su come raggiungere lo shamatha e la vipashyana, che a volte si ritiene siano specificatamente buddhisti, non lo sono. Altri sistemi indiani insegnano anche i metodi per ottenere uno stato mentale calmo e posato di shamatha e lo stato mentale eccezionalmente percettivo della vipashyana.
Il Buddha modellò la sua comunità monastica sulla base di quella giainista che già esisteva. Gli incontri tra monaci due volte al mese e il concetto del rifugio esistevano già prima del Buddhismo, provengono dal Giainismo. Fare offerte ed accettare [l’esistenza] di esseri differenti in vari reami: le creature infernali, i fantasmi e gli dèi si possono certamente ritrovare nei sistemi indiani, assieme al Monte Meru e ai quattro continenti. Se facessimo a meno di tutto questo, dicendo che non abbiamo bisogno del contesto culturale indiano, cosa ci resta?
Distinguere gli aspetti culturali della pratica buddhista da ciò che è essenziale per il Buddhismo
Il Buddhismo venne chiaramente insegnato nel contesto della cultura indiana. Quando osserviamo come si diffuse in altre culture asiatiche, notiamo che tutti gli aspetti che ho menzionato – come la disciplina etica – vennero conservati. I tibetani le mantennero, i cinesi le mantennero, i giapponesi le mantennero ed anche nel sud-est asiatico vennero conservate. Naturalmente in ciascun paese venne aggiunto qualche elemento di base che potesse rendere gli insegnamenti buddhisti un po’ più adatti a quella cultura.
Molti degli elementi che queste altre culture asiatiche aggiunsero furono piuttosto superficiali. Ad esempio i tibetani aggiunsero le bandierine di preghiera, che fondamentalmente provenivano dalla precedente tradizione Bon. Potremmo affermare che non sia così essenziale seguire queste cose nel cosiddetto “Buddhismo occidentale”. Quindi dobbiamo fare una distinzione tra questi aspetti culturalmente specifici che altre culture aggiunsero al Buddhismo dalle caratteristiche indiane più fondamentali. Poi dobbiamo capire se togliessimo anche gli aspetti indiani, rimarrebbe qualcosa che caratterizza gli insegnamenti buddhisti come tali?
Aspetti superficiali, culturalmente specifici
Molte caratteristiche culturalmente specifiche che altre culture aggiunsero al Buddhismo furono incluse per via di ragioni pratiche di necessità. I tibetani ad esempio non furono in grado di seguire alcuni degli usi indiani perché non avevano a disposizione le stesse cose che c’erano in India. In questo caso sto pensando alle offerte. I tibetani non avevano un grande assortimento di fiori da utilizzare come offerte, e quindi usano una cosa sottile come la carta e simile ad una foglia che trovi dentro un baccello che cresce in alcuni alberi in Tibet, e lo chiamano un fiore. Dobbiamo anche noi usarli? Ovviamente no. I tibetani accendono lampade al burro, come fanno in India. Dobbiamo usarle anche noi? Probabilmente no. Possiamo invece offrire lampadine e accendere la luce? Perché no? Si tratta di luce. Alcuni tibetani in India lo fanno, e offrono anche fiori di plastica perché durano più a lungo. I tibetani sono molto pratici!
E che dire dei dipinti, le thangka? I tibetani cuciono del broccato cinese attorno ad esse e così possono essere arrotolati. Abbiamo bisogno di questo? Non necessariamente, a meno che non ci piaccia quello stile. Ma è piuttosto superficiale. I dipinti buddhisti possono essere incorniciati.
E cosa si può dire della musica? I tibetani avevano strumenti musicali differenti rispetto a quelli indiani. Essi composero accompagnamenti musicali propri. Quindi dobbiamo usare gli strumenti musicali tibetani o possiamo fare un’offerta con il suono di un trombone o di un sassofono? Potrebbe andare bene? In teoria, perché no? Lo scopo di queste offerte è quello di fare un’offerta, di essere generosi. Ai Buddha, dal canto loro, certamente non importa se ascoltano un sitar o una tromba tibetana o un sassofono. Che differenza fa per loro? Certamente nessuna. La cosa importante è che ci sia rispetto e che non si tratti di una stupida melodia popolare.
A quali altre cose possiamo pensare circa le differenze tra cultura e cultura? Che mi dite delle vesti monastiche? Quelle tibetane hanno colori differenti e la forma delle vesti è differente rispetto a quelle indossate nel sud est asiatico. I cinesi hanno una veste differente, i mongoli hanno una veste differente. Ma tutti comunque hanno una veste, questo è il punto.
Potremmo interrogarci riguardo ai voti dei monaci e delle monache. Questa o quella versione dei voti che si svilupparono in India furono conservate in tutti i vari paesi in cui il Buddhismo si diffuse. Ad esempio, i tibetani osservano tutti i voti o la versione di essi che mantengono? Verrebbe da dire che alcuni voti appaiono abbastanza irrilevanti. I tibetani non vanno in giro nel villaggio a piedi nudi con una ciotola per le elemosine, e questo anche se i monaci tibetani hanno i vari voti su come prendere l’elemosina: ovvero bisogna guardare verso il basso e così via, certamente non li mantengono.
Ovviamente questa diventa una domanda molto difficile e delicata. Se hai i voti sul chiedere l’elemosina per il cibo, vuol dire che devi andare in giro a mendicare? In Tibet i monaci e le monache ricevono il cibo nei monasteri dalle offerte portate dalla gente. Non vanno in giro a raccogliere le offerte. Questo concorda con le regole monastiche? È difficile dirlo. I cinesi ad esempio stabilirono che monaci e monache non devono mendicare. I monaci e le monache devono produrre il loro cibo; devono essere dei contadini. Qui ovviamente c’è stato un certo adattamento culturale.
Per quanto riguarda l’istituzione monastica, è possibile affermare che il mendicare è solo un elemento culturale? No. Ovviamente l’intera struttura monastica era intesa in modo da essere sostenuta dalla società. Quindi come ti adatti ad una società occidentale quando hai ancora i voti sull’elemosina? È molto difficile rispondere a queste domande. Dovremmo forse mandare tutti i monaci e le monache qui in Germania nella metropolitana a mendicare con un piattino o a vendere libretti come si fa qui, per guadagnarsi il cibo quotidiano? Sarebbe un po’ strano, no? Ma vorrebbe dire mendicare. Se una società non sostiene la comunità monastica, come fa questa a sopravvivere? Questa è una domanda piuttosto difficile in occidente. È solo un fatto culturale avere una tradizione monastica? Ad esempio nel Cristianesimo occidentale c’è una tradizione monastica. C’è la tradizione di offrire donazioni che la sosterranno, ma alcuni di questi monaci in occidente fanno vino. Questo non andrebbe bene nel contesto buddhista. Ci adattiamo? Cosa possiamo adattare? Quanto possiamo adattare?
Un ottimo esempio di altre cose che sono state aggiunte al Buddhismo, è che nel Buddhismo cinese venne aggiunta la devozione filiale come una delle tipologie costruttive di comportamento; vuol dire che i figli dovrebbero prendersi cura dei loro genitori. I cinesi sottolineano moltissimo questo aspetto. Fanno perfino offerte ai loro antenati nei templi buddhisti. Dal punto di vista buddhista è una cosa piuttosto strana perché i genitori morti sono rinati!
I tibetani hanno la consuetudine tale per cui alcuni uomini prendono più di una moglie, e tradizionalmente in Cina questo accadeva di frequente. Alcune donne tibetane hanno più di un marito. Questo come si concorda con gli insegnamenti sulla condotta sessuale inappropriata? Quindi i tibetani e i cinesi adattarono le loro consuetudini agli insegnamenti indiani sull’argomento. Dobbiamo adottare queste pratiche di poligamia e poliandria nelle nostre culture? No. Ma che dire riguardo ad altri punti riguardanti il comportamento sessuale che molte persone in occidente considerano normale, mentre i testi buddhisti tradizionali li elencarono come inappropriati?
E per quanto riguarda la lingua? Molti lama tibetani sottolineano l’importanza di fare le nostre pratiche in tibetano. Dzongsar Khyentse Rinpoche in una recente conferenza a Berlino, ha sollevato una questione molto interessante riguardo a questo punto. Ha detto che se i tibetani dovessero recitare tutte le loro preghiere e le loro pratiche in tedesco, scritte foneticamente in lettere tibetane, senza capire nulla di ciò che stanno dicendo, non sa in realtà quanti tibetani lo farebbero. Ovviamente, anche se alcuni lama sottolineano di fare le pratiche in tibetano, potremmo comunque interrogarci se questo possa essere di beneficio o meno. Certamente i tibetani non fanno le loro pratiche in sanscrito. E anche i mantra non li visualizzano certo nell’alfabeto sanscrito. Usano l’alfabeto tibetano e anche la pronuncia dei mantra è differente da quella in sanscrito. Vajra in sanscrito, lo pronunciano “benza”. Quando dal Tibet si passa alla Mongolia, i mongoli pronunciano “ochir”. Quindi qual è quello giusto? E per quanto riguarda il cinese, non si riconoscono neppure le parole. Per non parlare della pronuncia giapponese dei caratteri cinesi.
Comunque, una delle ragioni per le quali un grande lama tibetano ha insistito affinché le persone svolgessero le pratiche in tibetano, è che i suoi studenti provengono da tutto il mondo; quindi se tutti recitano le pratiche in tibetano, come la puja di Chenrezig, possono praticare tutti insieme. Se ognuno lo facesse nella sua lingua, non sarebbero in grado di praticare insieme. Come precedente di questo ragionamento, notiamo che a prescindere dal paese di provenienza dei monaci Theravada, tutti recitano i loro testi buddhisti in Pali. Ma seguendo la stessa logica, i tibetani e i cinesi avrebbero dovuto fare tutto in sanscrito, ma non è stato così. Quindi ci sono pro e contro in questo dibattito.
Se ci riflettiamo su, sono molte le cose delle quali ci si può chiedere se siano elementi culturali o meno. Pensiamo al modo in cui le persone si siedono in meditazione. Gli indiani stanno a gambe incrociate. I tibetani hanno adottato lo stesso modo. I buddhisti giapponesi fondamentalmente si siedono sulle ginocchia, con le gambe indietro. I tailandesi si siedono con tutte e due le gambe da una parte. Gli occidentali che non sono abituati a sedersi per terra potrebbero sedersi sulle sedie? Forse per alcune pratiche tantriche che implicano il lavoro con il sistema dell’energia sottile la risposta è no. Ma per la pratica ordinaria, perché no? Perfino il modo in cui si fanno le prostrazioni è differente nei vari paesi asiatici. In questi casi ciò che va tenuto presente è il principio, e il principio è mostrare rispetto, ad esempio nelle prostrazioni, e sedersi con una certa disciplina, evitando di sederci un po’ come ci viene.
In questi esempi ci sono alcuni principi che, in differenti paesi, vengono seguiti in modo diverso in base alle differenze culturali. Quindi anche noi possiamo avere la nostra maniera culturale. I monaci si vestono con abiti speciali. È necessario che questi siano esattamente come quelli dei tibetani o dei cinesi? Forse no. Comunque dovrebbero essere speciali. Dovrebbero essere diversi dai vestiti delle persone comuni; inoltre tutti dovrebbero vestirsi allo stesso modo per evitare preoccupazioni di tipo estetico. E qual è il principio alla base del chiedere l’elemosina? Il principio è quello di non impegnarsi nel commercio, nel cercare di fare soldi, cercare di trarre qualche profitto e così via. Quindi si vive di ciò che gli altri ci danno e qualunque cosa ci danno viene accettata. Siamo soddisfatti con questo. C’è un modo per portare questo nelle nostre società? Abbiamo davvero bisogno di tutte queste elaborate decorazioni per un centro buddhista fatte nello stile tibetano con un altare tibetano con tende fino al soffitto e colori speciali? Abbiamo proprio bisogno di questo? È qualcosa di culturale? Io direi di sì, è culturale. Certamente non troviamo queste cose in un tempio buddhista giapponese. Ma ad alcune persone piace questa decorazione, e se gli piace, perché no? Ad alcune persone potrebbe non piacere e potrebbero trovarle molto strane.
Dovrei aggiungere una cosa: che dire di tutte le offerte che i tibetani fanno agli spiriti? Queste si trovano anche in India. C’è un vasto assortimento di gandharva, yaksha e rakshasa. Li chiamano “demoni”, “spiriti cannibali” ecc. e gli vengono fatte offerte. “Proteggeteci! Non danneggiateci!”. In effetti i tibetani non se li sono inventati. Ma sebbene fossero presenti in India i tibetani aggiunsero molti altri spiriti locali. Poi i mongoli tennero tutto ciò che era stato aggiunto dai tibetani e fecero ancora altre aggiunte. Abbiamo bisogno di questo? È un argomento ancora più complicato, poiché questi yaksha e rakshasa e tutti questi spiriti facevano parte della cultura indiana generale, non solo quella buddhista. Ora potreste proporre che nel Buddhismo occidentale potremmo fare offerte agli elfi, ai folletti, agli hobbit e a tutti questi tipi di esseri del libro di Tolkien, poiché sono la controparte della nostra cultura. Se lo facessimo, manterremmo lo stesso principio che troviamo nel Buddhismo? In effetti ci sono persino alcuni traduttori occidentali che traducono dakini con “angeli” e “fate”. Quindi nel nostro Buddhismo dovremmo avere anche angeli e fate?
Uno deve riflettere: tutto ciò contiene forse un qualche significato più profondo? Stiamo davvero parlando di forze dannose? Credo che in occidente ci troviamo meglio con il termine “forza” piuttosto che con “spiriti”. È una domanda difficile perché allora bisogna incominciare a parlare del “male”. C’è malvagità nel mondo e dobbiamo combattere tale malvagità? E poi si va a finire alla questione del diavolo e cose del genere. Vogliamo davvero che il Buddhismo vada in quella direzione? Si adatterebbe così alla nostra società, alla nostra cultura? È una domanda difficile. La maggior parte di noi probabilmente sarebbe più a suo agio senza. Se il Buddhismo fosse approdato in Europa durante il medioevo probabilmente avrebbe incluso cose tipo il modo in cui scacciare il Diavolo, no?
Un’altra cosa tipicamente tibetana che forse potremmo inserire nella categoria dei fattori superficiali, culturalmente specifici, che se vi piacciono va bene e se non vi piacciono se ne può fare a meno, sono le torme. Questi sono dei coni decorati fatti di farina d’orzo mischiata a burro e decorati con disegni fatti di burro scolpito. Il mio maestro Serkong Rinpoche diceva che al loro posto va bene anche una scatola di biscotti, non è necessario che le offerte siano fatte con queste torme elaborate.
Le caratteristiche culturali indiane generali
Passiamo ora alle caratteristiche indiane culturali generali come il karma, la rinascita, la liberazione e l’illuminazione. È possibile che esista un Buddhismo senza di essi? Penso proprio che questo sarebbe troppo. Cosa resterebbe? La meditazione si trova in tutta la cultura indiana. Quindi vogliamo eliminarla solo perché fa parte della cultura indiana? Cose come la postura che utilizziamo nella meditazione potrebbero essere diverse da cultura a cultura, ma il metodo in sé è ovviamente parte integrante del sentiero.
Gli insegnamenti buddhisti tibetani del lam-rim, il sentiero graduale, delineano chiaramente il confine tra ciò che è la pratica del Dharma e ciò che non lo è. Il confine consiste in questo: stai puntando a beneficiare le tue vite future o no? Se la tua pratica è indirizzata solo a beneficiare questa vita, non è Dharma. Questo è molto chiaro negli insegnamenti. Poi ci sono i tre livelli di obiettivo o motivazione secondo il lam-rim: ottenere future rinascite migliori, liberarsi dalle rinascite ed ottenere l’illuminazione in modo da poter aiutare tutti gli altri esseri a liberarsi dalle rinascite. Per quanto riguarda la rinascita, se ne può fare a meno nel Buddhismo? Direi proprio di no. Ma per quanto riguarda una migliore vita e rinascita futura, questo certamente non è specifico del Buddhismo, per non parlare dei sistemi indiani. Le religioni bibliche hanno pure quest’obiettivo in una forma modificata in cui ci si impegna ad andare in paradiso dopo questa vita terrena. Si tratta di rinascita, giusto? E una rinascita migliore! Ciononostante, dato che solo migliorare le rinascite future non è l’obiettivo fondamentale nel Buddhismo, ma semplicemente ci consente di avere le circostanze più favorevoli per continuare lungo il sentiero, può essere tranquillamente incluso nel Buddhismo.
Con un’unica eccezione, tutti i sistemi filosofici indiani affermano la rinascita senza inizio spinta dall’ignoranza della realtà e il karma. Tutti i sistemi inoltre mirano alla liberazione dalla rinascita senza fine attraverso la comprensione corretta. Quindi è chiaro che semplicemente puntare alla liberazione dalla rinascita e dal karma attraverso la comprensione della realtà non sia in sé qualcosa unicamente buddhista. Tuttavia, rivolgendosi a questi altri sistemi indiani, il Buddha proclamò che la liberazione da loro sostenuta non fosse una liberazione effettiva, poiché la loro comprensione della realtà era scorretta. Poi spiegò che la liberazione giunse dal comprendere che i tipi di anima, atman, che sostenevano, non corrispondessero a nulla di reale. Realizzare non concettualmente la totale assenza o la vacuità delle loro impossibili anime è ciò che porta alla liberazione dalla rinascita senza inizio sotto la forza del karma e dell’ignoranza. Ovviamente gli altri dissero la stessa cosa sul Buddhismo: ciò che il Buddha insegnò era scorretto e solo il loro sistema era giusto. Maestri buddhisti indiani successivi discussero la posizione del Buddha utilizzando la logica in dibattiti con questi altri maestri, e discussero in modo molto convincente.
Questo tema della rinascita diventa di importanza decisiva quando si tratta di dare un senso agli insegnamenti sul karma, perché i risultati delle nostre azioni non maturano necessariamente in questa vita. In realtà questo vale per la maggior parte di essi. Questo diventa un punto estremamente difficile. “Perché dovrei seguire l’etica del Buddha? Potrei imbrogliare e così via, e farla franca”. Dobbiamo comprendere la rinascita per affrontare realmente il karma e liberarsi da quest’ultimo, e per comprendere questo bisogna capire tutti i principi di causa ed effetto comportamentali.
Io faccio una distinzione tra il “vero” Dharma e il Dharma “light”, come la “vera Coca Cola” e la “Coca Cola light”. La versione “light” sarebbe una versione senza la rinascita: sii gentile e disponibile per migliorare la qualità di questa vita. In tale contesto possiamo seguire tutti gli insegnamenti buddhisti riguardanti i metodi per superare le emozioni disturbanti senza aggiungere la rinascita e la liberazione dalla rinascita. Ma non è la “roba vera”. La domanda che sorge è: “Se si riduce il Buddhismo ad un’altra forma di psicologia, si tratta sempre di Buddhismo?”. Come dicevo, se lo si chiama “Dharma light” e se questo è ciò che cercate, allora in effetti è estremamente utile, ok nessun problema. Ma non confondetelo con il Dharma vero e proprio che include il karma, la rinascita, la liberazione e l’illuminazione, i quali sono tutti elementi della cultura indiana. Ma dovete riconoscere che l’autodisciplina etica pone però dei problemi quando segui il Dharma “light”, perché in molti casi non si sperimentano i risultati del tuo comportamento distruttivo in questa vita. Per esempio ci sono criminali che la fanno franca e non vengono mai arrestati.
Qui sorge una domanda molto interessante. Invece di praticare per migliorare le nostre vite future, potremmo invece pensare agli effetti del nostro comportamento sulle future generazioni? Potrebbe andar bene aggiungere questo al Buddhismo, come sostituto alle vite future? Sarebbe certamente più accettabile per il nostro pensiero occidentale, almeno per il nostro pensiero occidentale secolare. Non credo che aggiungerlo possa costituire una contraddizione con il Buddhismo, proprio come l’aggiunta cinese della devozione filiale e di servire i tuoi genitori non era contraria a nessun principio buddhista. Ma potrebbe essere un sostituto della rinascita, o soltanto qualcosa che aggiungiamo?
Uno dei principi fondamentali del karma che il Buddha insegnò è il seguente: l’unica cosa certa sul nostro comportamento è che ne sperimenteremo i risultati. Non è certo quale sarà l’effetto del comportamento su qualunque altro, e questo include le generazioni future. Si può servire a qualcuno un pasto delizioso e costui può strozzarsi e morire. Anche se includiamo, come parte del Buddhismo occidentale, la linea guida di cercare di evitare di causare danni alle generazioni future, io penso tuttavia che abbiamo bisogno di onorare questo principio buddhista generale, per cui l’unica cosa certa è che noi stessi sperimenteremo l’effetto del nostro comportamento.
Il Buddha non aveva l’intenzione di offrire i suoi insegnamenti semplicemente ad un pubblico indiano. Il suo messaggio era universale, ma includeva gli elementi culturali indiani del karma, della rinascita, e della liberazione dalla rinascita. Pertanto dobbiamo considerare seriamente: qual è il vero scopo del sentiero buddhista? Solo migliorare le cose in questa vita? Questo è lo scopo del Dharma “light”. Migliorare il mondo per le generazioni future preoccupandosi dell’ambiente, del riscaldamento globale ecc. va già un po’ meglio. Anche se aggiungiamo il Dharma “light” alla nostra presentazione occidentale del Buddhismo, io penso tuttavia che dobbiamo ancora riconoscere come l’intenzione del Buddha si rivolga agli obiettivi del Dharma vero e proprio di una rinascita migliore, della liberazione e dell’illuminazione per tutti, compresi noi che abbiamo preso al momento una rinascita come esseri umani in occidente. È proprio così malgrado il fatto che altri sistemi indiani parlino anche di questi obiettivi, sebbene la loro comprensione su come ottenerli sia differente.
Le caratteristiche uniche e indispensabili del Buddhismo (i quattro sigilli del Dharma)
Ci sono delle caratteristiche uniche del Buddhismo che non sono condivise con altri sistemi e che devono essere comunque presenti a prescindere dalla cultura? Ci sono in effetti. Sono chiamati i “quattro marchi” o “i quattro sigilli del Dharma”. Il termine completo per questi è il seguente: “i quattro punti sigillanti per determinare che una prospettiva si basi su parole illuminate”. Se un sistema di insegnamenti contiene questi quattro punti, ciò garantisce che proviene da quello che il Buddha ha insegnato. Quindi cos’è che distingue un insegnamento come unicamente buddhista? Non è l’amore e la compassione che lo rendono specificatamente buddhista; e neanche la meditazione, una comunità monastica o un sistema etico di non causare danni. Ciò che rende un insegnamento specificamente buddhista è la visione della realtà. Questo però non vuol dire che possiamo fare a meno di queste altre caratteristiche ed avere solamente la visione. Quindi abbiamo questi quattro punti.
Tutti i fenomeni condizionati sono impermanenti
Il primo punto sigillante è che tutti i fenomeni condizionati, o fenomeni influenzati, sono impermanenti, in altre parole non statici. Questo significa che tutte le cose influenzate da cause e condizioni cambieranno continuamente. La gran parte, ma non tutte, avranno una fine. Alcune dureranno per sempre, come il nostro continuum mentale, ed alcune non hanno neanche un inizio, come la rinascita; ma non statico qui vuol dire che tutte cambiano di momento in momento man mano che varie cose le influenzano.
Il principio dell’impermanenza non è unicamente buddhista, nonostante il fatto che la gran parte delle persone non si rendano neanche conto che ogni cosa cambia. Sentono che le cose sono permanenti, dureranno per sempre e non cambieranno mai. Applicano questo persino a loro stessi. Ma quando il Buddha insegnò questo, sottolineò che l’impermanenza si applica anche al sé. Dobbiamo renderci conto che io sono influenzato da cause e condizioni e pertanto sto cambiando da un momento all’altro. Gli altri sistemi indiani insegnarono che il sé, l’atman, è permanente e statico. Non è influenzato da nulla. “Il mio corpo è influenzato da cause e condizioni e quindi cambia, ma non io. Potrei sperimentare varie cose differenti nella vita, ma questo non mi cambia”. Dato che il Buddha applicò la sua asserzione che tutti i fenomeni influenzati sono soggetti al cambiamento anche al sé, in tal senso questo marchio dei suoi insegnamenti è unico.
Alcuni fenomeni influenzati, come il corpo, non solo cambiano da un momento all’altro, ma inoltre degenerano da un momento all’altro e infine giungono al termine. Il Buddha insegnò che sebbene il sé sia influenzato da cause e condizioni e pertanto cambi anche da un momento all’altro, non degenera nel corso del tempo. Come il continuum mentale, che è anche un fenomeno non statico influenzato, ciascun sé non ha inizio né fine. Prosegue cambiando per sempre. Uno può esplorare questo punto andando molto in profondità.
Tutti i fenomeni contaminati sono problematici
Il secondo marchio è che tutti i fenomeni contaminati sono problematici, tutti implicano sofferenza. “Contaminati” vuol dire che sorgono in base a emozioni disturbanti e karma, e questo ci riporta alla rinascita. Il Buddha spiegò questo punto in toto nei suoi insegnamenti sui dodici anelli del sorgere dipendente. Insegnò che tutta la nostra esperienza, tutto ciò che ci accade, sorge in modo dipendente in base alla nostra ignoranza, specificatamente la nostra inconsapevolezza su come noi e gli altri esistono. Questa inconsapevolezza ci porta alle emozioni disturbanti, le quali ci incitano a compiere comportamenti karmici impulsivi, che sono la causa per la nostra esperienza del ripetersi incontrollato delle rinascite, il samsara, e l’infelicità e la felicità ordinaria, insoddisfacente che sperimentiamo in ogni vita. Questa spiegazione del meccanismo di come funziona la rinascita samsarica è unicamente buddhista, e il Buddha insegnò che è tutto problematico, è tutta sofferenza.
Tutti i fenomeni sono privi di un “io” impossibile
Il terzo marchio è che tutti i fenomeni sono privi di un “io” impossibile o di un’anima impossibile. Il tipo di anima o atman che altri sistemi indiani insegnarono non possono proprio esistere. Questi sono tutti gli insegnamenti buddhisti sulla vacuità, sia che si parli di vacuità del sé o della persona, o della vacuità di tutti i fenomeni. Sebbene sorsero differenti sistemi di principi buddhisti, i quali offrirono differenti livelli di comprensione, ciò che il Buddha insegnò era un modo impossibile di esistere, ma l’affermazione della vacuità è assolutamente essenziale per la visione buddhista.
Per vacuità s’intende una totale assenza di modi impossibili di esistere. Le cose appaiono esistere in modi impossibili, ma non corrispondono a nulla di reale. Sono impossibili. Alcuni altri sistemi indiani dissero che ogni cosa è un’illusione e bisogna capire come tutto sia un’illusione per ottenere la liberazione. Ma ciò che hanno affermato come realtà, il Buddha ha insegnato che è anche un’illusione: per esempio che il sé, una volta liberato, esista indipendentemente da ogni cosa o sia un tutt’uno con l’universo o con Brahma.
Il nirvana è pace
Il quarto marchio è che il nirvana, ovvero la liberazione dalla rinascita samsarica, è una pacificazione. Questo punto si riferisce fondamentalmente alla terza nobile verità: il nirvana, ottenuto tramite la comprensione dei primi tre marchi, è il vero arresto per sempre di tutte le cause della sofferenza, ovvero l’inconsapevolezza, le emozioni disturbanti, il karma, e la sofferenza stessa, quindi la rinascita che si ripete in modo incontrollabile. Tale nirvana o liberazione ha un aspetto costruttivo e crea felicità. Questo implica che la liberazione è possibile.
Possiamo comprendere come le quattro nobili verità siano un altro modo di presentare questi quattro sigilli o marchi del Dharma. Sebbene possiamo riflettere su questi quattro punti solamente nei termini di questa vita, è proprio questo il Buddhismo? Che tutte le cose influenzate da cause e condizioni cambiano, tutto ciò che deriva dalla confusione ti darà problemi, non esiste un “io” solido, e se potessi liberarmi da tutti i miei problemi sarebbe fantastico. Direi che questa è la versione “light” del Dharma. Non va davvero in profondità per quanto riguarda causa ed effetto e quello da cui veramente ci vogliamo liberare.
C’è il problema del postulare tutto ciò solo nel contesto di questa vita: tutta la questione di causa ed effetto. Se pensiamo soltanto nei termini di questa vita, allora per quanto riguarda causa ed effetto, come spieghiamo il primo momento della mente e di “io”? Sono sorti senza causa o da una causa irrilevante come lo sperma e l’ovulo dei genitori, che in qualche modo muta in una mente e in un “io”? Al momento della morte, la mente e il sé, i quali hanno prodotto effetti per tutta la nostra vita, smettono di produrre ulteriori effetti? Ci sono serie difficoltà logiche riguardo la mente e il sé in termini dei principi di causalità se non postuliamo la rinascita senza inizio, la mente senza inizio né fine, e un “io” senza inizio né fine. Ma qui non stiamo parlando di un impossibile “io” senza inizio né fine, ma dell’«io» convenzionale che effettivamente esiste e funziona.
In sintesi
Il Buddhismo ha certe caratteristiche distintive: le quattro nobili verità, i quattro sigilli, e il rifugio nel Buddha, Dharma e Sangha, nel modo definito dal Buddha. Quindi il Buddhismo possiede in effetti delle caratteristiche distintive. L’esistenza del Buddhismo è forse stabilita di per sé dal potere di queste caratteristiche senza dipendere da nient’altro? No, non possiamo dire questo. Secondo gli insegnamenti sulla vacuità questo è impossibile. L’esistenza del Dharma buddhista può essere stabilita soltanto all’interno di un contesto.
Alcuni contesti sono universali, non culturalmente specifici. Ad esempio gli elementi indiani culturali generali del karma, della rinascita e della liberazione costituiscono un contesto universale necessario per stabilire il Dharma vero e proprio, e non semplicemente perché il Buddha insegnò a un pubblico indiano. Altri punti come amore, compassione, pazienza e concentrazione ecc. sono elementi essenziali del contesto universale che non sono soltanto indiani.
Vi è poi un altro livello del contesto che è più culturalmente specifico. Potrebbe esserci alle spalle un principio generale condiviso, ma le forme che assumono variano in culture differenti. Per esempio i modi di fare offerte e mostrare rispetto possono assumere forme differenti. Il modo in cui la comunità monastica si sostiene può essere fatto in vari modi. Il tipo di veste che monaci e monache indossano per distinguersi dai laici e per evitare l’attaccamento può dipendere dalla cultura, e certamente la lingua dipende dalla cultura.
Sua Santità il Dalai Lama ha detto che cose come il Monte Meru e i quattro continenti, se smentiti dalla scienza e contraddetti dalla valida percezione, possono essere esclusi dal Buddhismo. Quindi quando si offre l’universo nella pratica buddhista, lo possiamo fare pensando al sistema solare o al pianeta Terra. Il punto sta nell’offrire tutto. Stai offrendo l’universo pensando non solo agli esseri umani ma a più esseri viventi, alcuni con maggiore sofferenza e altri con minore sofferenza. Nella teoria buddhista della percezione sul modo in cui funziona la mente, il cervello non viene mai menzionato ma può essere incluso. Non c’è contraddizione.
In breve quando ci poniamo la domanda, “È possibile separare il Buddhismo dal suo contesto asiatico?”, notiamo che si tratta di una domanda piuttosto complessa. Dobbiamo analizzarla in termini di ciò che è essenziale, ciò che è generale, ciò che proviene da una cultura come quella indiana, e ciò che è superficiale e può essere cambiato in base alla cultura, ma questo segue il principio e dev’essere onorato.