L’equanimità per i modi in cui ci siamo trattati

Riassunto

Abbiamo iniziato la nostra discussione su come riequilibrare gli atteggiamenti verso noi stessi, per aiutarci a superare le emozioni disturbanti rivolte verso di noi. L’emozione disturbante più forte, per molti di noi, è una sensazione di bassa autostima e un atteggiamento negativo verso di noi. Può manifestarsi nel non piacersi o, ancora più intensamente, nell’odiarsi. Tuttavia non è l’unico atteggiamento disturbante che possiamo avere verso noi stessi. Possiamo esagerare di essere splendidi (ossessionati da noi stessi), possiamo essere completamente ingenui nei nostri confronti (ignorare i nostri bisogni e, in un certo senso, negarli). Abbiamo parlato di come possiamo adottare qualche metodo buddhista nella tecnica conosciuta come “riequilibrare e scambiare sé stessi con gli altri” per affrontare questo problema, sulla base della strofa che si trova nell’Addestramento mentale in sette punti, che dice: “rispetto alla pratica del dare e prendere, inizia con te stesso”.

Uno dei punti che abbiamo discusso in relazione allo sviluppo di un senso di equanimità verso noi stessi ha a che vedere con una distinzione tra l’“io” convenzionale e il falso “io”. Ricorda che quello che stiamo cercando di sviluppare qui è un atteggiamento equo e tranquillo verso noi stessi. Questo è il significato di “equanimità” in tale contesto. Significa considerare noi stessi senza un atteggiamento negativo, senza uno positivo come “Quanto sono fantastico!” e senza ignorarci: dunque senza avversione, rigetto o repulsione, senza attrazione e senza l’ingenuità di ignorare noi stessi.

Abbiamo considerato quello che abbiamo compiuto nelle nostre vite: quando abbiamo commesso errori o sperimentato fallimenti, quando abbiamo avuto successo in qualcosa e quando nulla di significativo è accaduto nelle nostre vite, solo l’ordinaria routine quotidiana. Abbiamo visto che tutti commettono errori. Tutti riescono in qualcosa, senza dover essere drammatici: solo preparare un buon pasto è un successo. Non c’è motivo per cui la vita debba essere drammatica quando accadono eventi veramente fantastici o veramente terribili. Il fatto è che per la maggior parte di noi la vita è molto normale.

La necessità di negare il falso “io”

È lo stesso con le sensazioni di felicità e infelicità: non c’è bisogno che siano drammatiche. A volte pensiamo che debbano davvero essere forti ed esagerate per poter sentire qualcosa. Questo pensiero spinge molte persone a praticare sport estremi o a fare piercing sul corpo per poter sperimentare davvero sensazioni forti; altrimenti hanno l’idea di non sentire alcunché. Ciò si basa sull’essere, in qualche modo, estranei ai propri sentimenti. Se analizziamo questa alienazione più profondamente, sentiamo di avere un’idea molto confusa sui sentimenti – su chi siamo e su cosa sia davvero l’esperienza nella vita. Non dobbiamo avere esperienze drammatiche per stabilire che esistiamo; pensare che tali esperienze abbiano il potere di stabilire che esistiamo veramente è un errore. Per questo è molto importante la distinzione tra io convenzionale e falso io. È fondamentale.

Tendiamo ad identificarci solo con eventi minori della nostra vita o aspetti secondari di noi stessi. Spesso questi sono eventi emotivamente piuttosto drammatici come un fallimento o qualche successo. Potrebbero essere anche più estremi come l’esperienza di aver subito violenze, ad esempio. Ti identifichi e basi la tua vera identità proprio su questo, oppure ovviamente la puoi negare e reprimere completamente. Ma quando ci identifichiamo con questo, allora abbiamo un esempio molto chiaro del falso “io”. Consideriamo questa identità con “io”, immaginando che sia il nostro vero io - solido e reale - e il modo in cui siamo sempre, in tutte le situazioni. Ma questo falso io non corrisponde a nulla di reale: è solo una proiezione della nostra immaginazione.

Questo è il falso io, ciò che dobbiamo negare. “Negare” significa capire che è spazzatura e non corrisponde a nulla di reale. Dobbiamo quindi liberarci di questo concetto falso, il che naturalmente non è facile perché abbiamo questa radicata abitudine a proiettarlo e a crederci. Per eliminarlo ci vogliono molto addestramento, disciplina, concentrazione, chiara consapevolezza discriminante tra ciò che è la realtà e ciò che è fantasia, eccetera: è un vasto addestramento basato sull’avere un’intensa motivazione per fare tutto questo. L’addestramento buddhista è specializzato in questo tipo di cose. Tuttavia quando confutiamo il falso “io” non è che rimaniamo con nulla: rimaniamo con l’“io” convenzionale. Io esisto, tu esisti. Un maestro zen lo proverebbe colpendoti con un bastone e facendoti sentire il dolore. Ovviamente io esisto.

L’“io” convenzionale copre l’intera estensione di tutto ciò che accade nella nostra vita, giusto? Non esiste un “io” solido che attraversa la vita, come se fossimo separati da essa, come se stessimo guardando lo scorrere della nostra vita in un film. È pericoloso avere un atteggiamento simile perché porta a sentirsi alienati e potrebbe anche condurre a molti problemi emotivi. L’ “io” convenzionale è l’“io” che esiste designato sulla base degli eventi e delle esperienze sempre mutevoli della vita: questo è l’“io”. Noi cambiamo costantemente, cresciamo, invecchiamo, momento per momento: con nulla di solido che rimanga sempre lo stesso. Su tutto ciò si basa l’“io” convenzionale.

Evitare i due estremi

Dobbiamo evitare i due estremi: un estremo è il nichilismo, che nega completamente l’esistenza di “me”. Quando cadiamo in questo estremo, siamo ingenui verso noi stessi: ignoriamo i nostri bisogni, non ci facciamo valere, non affermiamo quello che vogliamo o quello di cui abbiamo bisogno, come dei limiti nelle nostre relazioni, al lavoro, ecc. Il primo estremo, quindi, consiste nel negare l’“io” convenzionale. Nichilismo significa pensare: io non conto, non valgo nulla.

L’altro estremo è quello di gonfiare l’“io” convenzionale creando un falso “io” e poi identificarsi con questo falso “io”. Questo genera ciò che in occidente chiamiamo “narcisismo”: “Sono così importante, quello che io penso e sento è così importante, tutti lo devono sapere”, come se tutti fossero interessati. Questa presunzione narcisista è oggigiorno esagerata dai social network come Facebook e Twitter, in cui le persone sentono il bisogno di divulgare al mondo quello che provano per ogni singola cosa che accade nelle loro vite. La controparte emotiva di questo è il sentirsi “così importante, così speciale, così fantastico”.

Quando nutriamo un atteggiamento negativo di rabbia nei nostri confronti, ciò può tradursi in questi due estremi. Possiamo negare ed ignorare, in un modo nichilista, i nostri bisogni come una persona che pensa: “Sono così stupido e negativo che non merito di essere amato; non merito di avere amici o di essere felice, perché non valgo nulla”. Questo atteggiamento negativo verso sé stessi rientra nell’estremo del nichilismo. Essenzialmente nega l’“io” convenzionale: “Io non esisto, non conto nulla”.

L’altro estremo, un’eccessiva esagerazione di sé stessi con rabbia, provoca un tremendo senso di colpa e la sensazione che dobbiamo punirci per essere stati cattivi. Questo si può manifestare psicologicamente in molti modi, spesso inconsci. Uno di questi è guastare qualunque relazione che instauriamo, assicurandoci che non funzioni e che continueremo a fallire. In un certo senso è come punire noi stessi. Quando ci sentiamo in colpa abbiamo un’ossessione per noi stessi, e creiamo un falso “io” che immaginiamo esista veramente come [qualcosa di] “cattivo”. Ci fissiamo su “Sono così cattivo, quello che ho fatto era così sbagliato” - senza lasciar andare. Un’altra sindrome comune è mangiare tantissimo, diventando così obesi da assicurarsi che nessuno ci troverà attraenti. Così un atteggiamento negativo verso noi stessi può portare a questi due estremi.

Tutto questo è rilevante per la nostra discussione sull’equanimità; quello che vogliamo raggiungere è qualcosa d’intermedio – quello che nel Buddhismo chiamiamo “la via di mezzo”. Una “via di mezzo” non vuol dire metà nichilismo e metà esagerazione di sé stesso, non è questo il significato. Significa piuttosto superare questo tipo di polarità, confermando l’“io” convenzionale e smettendo di identificarsi con il falso io. Lo facciamo cercando di calmare o pacificare questi atteggiamenti ed emozioni disturbanti che abbiamo rispetto agli eventi della nostra vita e rispetto a “me” in relazione a tali eventi.

Sviluppare equanimità rispetto al modo in cui abbiamo trattato noi stessi

Continuiamo con questa parte dell’addestramento sull’equanimità. L’aspetto successivo che esamineremo consiste nel modo in cui ci siamo considerati e trattati – non necessariamente in relazione ad un avvenimento, bensì in generale, il tipo di atteggiamento che abbiamo verso noi stessi. Questo può essere di tre tipi.

Innanzitutto il nostro atteggiamento potrebbe semplicemente essere una bassa autostima in generale. Questa potrebbe manifestarsi nel parlare a noi stessi mentalmente in modo molto duro, come: “Sono un idiota, sono un fallito”. Probabilmente usiamo un linguaggio molto più forte di questo.

Il secondo tipo di atteggiamento potrebbe essere un’opinione troppo esagerata di noi stessi: “Sono così speciale, così fantastico” – che poi ci porta ad essere troppo indulgenti con noi stessi. Questa si può manifestare ovviamente in molti modi. “Devo sempre essere al centro dell’attenzione; ho sempre ragione”, cose del genere. Siamo prepotenti con gli altri.

Il terzo atteggiamento è ignorare i nostri bisogni e si manifesta nel non trattarci correttamente. Spesso avviene quando si hanno neonati o bambini piccoli: i bisogni dei figli naturalmente superano i nostri bisogni, così potremmo spingerci al di là dei nostri limiti non dormendo abbastanza, ecc. Quella è una situazione diversa. Tuttavia qui stiamo parlando dell’essere perfezionisti e sforzarci troppo: non abbiamo un atteggiamento realistico verso noi stessi, i nostri bisogni e i nostri limiti.

Applichiamo lo stesso metodo che abbiamo utilizzato ieri in relazione agli eventi della nostra vita per calmarci e avere più equanimità rispetto a come ci siamo considerati e trattati.

Pensare a quando abbiamo avuto poca autostima

Cerchiamo all’inizio di pensare e cercare di far affiorare una sensazione in cui potremmo aver avuto una scarsa autostima: “Sono un perdente, un’idiota”, questo tipo di atteggiamento che sono sicuro molti di noi hanno avuto a volte. Cerchiamo di evocare quella sensazione così da poterla esaminare, (non come se stessimo praticando per sentirla). “Nessuno mi ama. Perché qualcuno dovrebbe amarmi? Non merito di essere amato”, ce ne potrebbero essere molte manifestazioni.

Poi la analizziamo: “Se fossi veramente così – buono a nulla, non merito di essere amato – allora dovrei essere così per tutti: non dovrei piacere al mio cane, a mia madre, non dovrei mai piacere a nessuno. Ma aspetta un attimo: in realtà piaccio al mio cane, così non sono del tutto negativo. Mia madre mi ama ancora, spero”. Vediamo così che non ci sono delle ragioni vere per provare sempre sentimenti così negativi verso noi stessi. Non c’è un fondamento continuo per questo, no?

Vedete, questo è il vero problema. Quando le persone hanno una profonda bassa autostima non riescono a ricordare nessun aspetto positivo di loro stessi o qualche persona a cui piacciono davvero –  come il loro cane, la madre o chiunque altro – come se non avessero mai avuto nessun amico, il che è piuttosto improbabile. Cerchiamo di equilibrare questo e pensare: “Non ho sempre avuto un atteggiamento negativo nei miei confronti, qualche volta è ok”. Affronteremo in seguito se è l’atteggiamento positivo o quello negativo ad essere maggiore, questa è un’altra questione. Ma se siamo obiettivi, vedremo che qualche volta non abbiamo pensato in modo così negativo a noi stessi. Infatti ci siamo trattati bene, anche se questo significa solo comprarsi una tavoletta di cioccolato e mangiarsela perché ci piace la cioccolata. Cerchiamo di pensare a semplici esempi del genere.

Decidiamo: “Non c’è veramente motivo di pensare sempre così negativamente di me stessa, trattarmi male e di sgridarmi. Sono capace di trattarmi bene, come nell’esempio del comprare una tavoletta di cioccolato”. Siamo determinati a non parlare così duramente a noi stessi nella nostra mente o di non trattarci così male. Dobbiamo riconoscere che agire in questo modo ci causa infelicità. Perché dovrei voler essere infelice? Nessuno desidera veramente l’infelicità. In ogni caso siamo già naturalmente infelici per la maggior parte del tempo. Perché essere ancora più miserabili a causa di un atteggiamento negativo verso noi stessi?

[Pausa per la pratica]

Pensare a quando abbiamo avuto un’opinione esageratamente alta di noi stessi

Ricordiamoci poi un episodio in cui abbiamo avuto un’opinione troppo alta di noi stessi e ci siamo premiati mangiando troppo, riempiendoci di cioccolata o bevendo troppo alcol. Allora pensiamo: “Perché sto esagerando così? È perché penso di essere così fantastico? Non la penso sempre così, no? Non c’è bisogno di premiarmi troppo o privarmi troppo”. Questo è il punto: privarsi troppo, “Non me lo merito”; oppure esagerare, “Sono così meraviglioso, mi merito di mangiare l’intera torta al cioccolato, mi merito di prendermi un’intera settimana di riposo”.

[Pausa per la pratica]

Così non c’è bisogno di cadere negli estremi del mangiare un gelato ogni giorno o del non mangiarlo mai. A volte va bene, ci vuole moderazione in tutto. Non dobbiamo essere sempre in vacanza o non andarci mai. Moderazione. Ora naturalmente la maggior parte di noi non cade in questi estremi, ma molti di noi tendono ad andare nella direzione di questi estremi. In breve non c’è motivo di dire costantemente a noi stessi: “Sono un idiota, sono un idiota”. D’altra parte, non c’è motivo di ripetere in continuazione: “Sono così speciale, sono un grande”.

Pensare a quando abbiamo ignorato i nostri bisogni

Il terzo esempio consiste nel ricordare quando abbiamo ignorato i nostri bisogni, come se fossimo stati degli esseri insignificanti senza valore, senza trattarci nel modo giusto. Ovviamente possiamo analizzarlo sempre più in profondità. Ci potrebbero essere molti motivi per cui non abbiamo espresso i nostri bisogni o i nostri desideri. Potremmo aver avuto paura che, se li avessimo espressi, saremmo stati rifiutati e abbandonati. Ci sono molte varianti.

Inoltre queste tre tendenze di avere bassa autostima, di sopravvalutarci, e di ignorare noi stessi non avvengono in un modo completamente separato le une dalle altre. Spesso si mescolano come in questo esempio: “Ignorerò i miei bisogni non dicendo alcunché e non ponendo alcun limite (questa è ingenuità), perché ho paura di essere rifiutato se lo faccio (questa è bassa autostima)”.

Dobbiamo analizzare: “Perché non dovrei trattarmi bene? Non sono ‘nessuno’, no? Ho dei bisogni, come tutti gli altri; ho dei limiti, come tutti gli altri. Se c’è una torta, perché non dovrei averne una fetta come tutti gli altri?”.

[Pausa per la pratica]

C’è un altro punto su cui riflettere: “Se gli altri possono dirmi di ‘no’, perché non posso dirlo io a loro?”. Questo è molto più difficile. Naturalmente intendo dire ‘no’ quando è ragionevole dirlo, non per essere solo qualcuno che dice sempre ‘no’. Questo è un estremo. Come ho detto è interessante e difficile da analizzare. “Ho così bisogno di affetto che ho paura di dire di no, perché voglio veramente piacere agli altri?”. È questa la mentalità retrostante? “Sono così bisognoso di affetto, di piacere agli altri che non voglio rispondere ‘no’. Voglio averne sempre di più, sempre di più, perché sento che non ho mai abbastanza affetto o non l’ho mai avuto e ne ho disperatamente bisogno, così non risponderò di ‘no’. Non metterò dei limiti”. Mi riferisco al porre dei limiti nelle relazioni. Quando gli altri si stanno approfittando di noi o ci stanno trattando male, noi non vogliamo dire ‘no’ perché siamo affamati d’affetto, come se lo fossimo di cibo.

Poi pensiamo: “Come sarebbe se si esaudisse davvero il mio desiderio?”. Se qualcuno fosse affezionato a noi e stesse sempre con noi, sarebbe molto irritante, no? Da una parte, ci sembra di non averne mai abbastanza; dall’altra, ci infastidiamo quando ne abbiamo troppo. Immagina che il tuo cane ti lecchi il viso tutto il giorno, ti farebbe diventare matto, lo allontaneresti. Questo tra l’altro è un metodo buddhista. Tu usi esempi assurdi ed estremi per mostrare: voglio veramente che il mio cane mi lecchi il viso tutto il giorno? Che l’altra persona mi dica che sono fantastico, che mi abbracci e mi tocchi tutto il giorno? Dopo un po’sicuramente diremmo “basta!”.

Ora potresti obiettare: “Ma non potrei averne solo un po’?”. Solo un po’ non è mai abbastanza, questa è la cosa peggiore. Qual è la quantità del nostro cibo preferito che dobbiamo mangiare per poterne godere? È una domanda interessante. Un cucchiaio è sufficiente? Grazie a questo esempio vediamo che non siamo mai soddisfatti. Pensateci.

[Pausa per la pratica]

Pensare a tutte le tre situazioni

Pensiamo infine a noi stessi in questi tre umori e questi tre modi di trattarci: parlarci duramente (“Sono un tale cretino, sono un fallito”) perché abbiamo questo atteggiamento negativo nei nostri confronti; essere troppo indulgenti con noi stessi (“Sono stupendo, sono così grande, così speciale”) e terzo semplicemente ignorare i nostri bisogni (“Sono una nullità insignificante”). Cerchiamo poi di considerare tutti e tre in termini di “Sono soltanto ‘io’, solo il mio ‘io’ convenzionale”. Non c’è bisogno di aggiungere un atteggiamento negativo, uno troppo positivo o uno indifferente. Il modo in cui ci trattiamo è una conseguenza dell’aggiungere tali atteggiamenti o meno.

Questo ci porta a un livello più fondamentale, man mano che analizziamo sempre di più. La vita ha alti e bassi: è assolutamente normale. A volte siamo infelici, altre felici – anche se magari non notevolmente felici – e qualche volta ci sembra di non sentire niente. È importante capire che c’è questa designazione dell’“io” su tutto questo. Questa è la base per “me”, questi alti e bassi della vita. Non mi riferisco solo agli alti e bassi degli eventi della nostra vita, ma anche agli alti e bassi del nostro umore, del modo in cui ci sentiamo: felici, infelici o quale che sia. Quindi non c’è bisogno di identificarsi con nessuno di questi: “Sono infelice, sono un tale perdente; non valgo nulla”. “Sono felice, sono fantastico”, oppure “Non sento nulla, sono una perfetta nullità”.

Decidiamo che “Non mi tratterò male o non sarò troppo indulgente quando farò qualcosa per me, come cercare di essere troppo a mio agio, ottenere sempre quello che voglio o quello di cui ho bisogno”. È come viziare noi stessi. Si vizia un bambino quando gli diamo sempre quello che vuole: stiamo viziando noi stessi.

Decidiamo inoltre che “Non ignorerò nemmeno i miei bisogni; non importa come mi sento – felice, infelice o qualcosa che sembra nulla – mi tratterò con equanimità. Non importa che umore avrò, manterrò un atteggiamento calmo verso me stesso; non cadrò in nessuno di questi estremi.

[Pausa per la pratica]

Grazie a questa equanimità, con la quale non abbiamo nessun atteggiamento disturbante nei nostri confronti, possiamo allora sviluppare atteggiamenti più positivi, salutari, verso noi stessi. Possiamo riconoscere i nostri potenziali, le nostre abilità, senza negarle – quello che nel Buddhismo vengono chiamati i vari aspetti della ‘natura di Buddha’- ma senza esagerare e pensare: “Oh, sono così fantastico! Ho tutti questi aspetti della natura di Buddha, ho tutte queste potenzialità”. Questa è pure una palese esagerazione di “Io, io, io sono così fantastico, sono così speciale”. Tutti noi possediamo abilità – qualcuno di noi potrebbe avere più ostacoli, tuttavia le potenzialità e abilità umane fondamentali ci sono. Dobbiamo riconoscere questa realtà senza renderla qualcosa di così speciale (“Sono così straordinario. Questo è fantastico”!), ma avendo equanimità: lavoraci su con un atteggiamento equo, non con uno disturbante.

Domande

Incoraggiare i nostri figli a migliorarsi

Dobbiamo aiutare i nostri bambini ad essere migliori dei loro amici? Oppure è meglio aiutarli a riconoscere i loro limiti e spiegargli che vanno bene così come sono?

Questa è una domanda difficile perché, naturalmente, bambini diversi saranno differenti a questo proposito. Utilizzare l’esempio di altri – “Perché non vai bene a scuola come tua sorella o tuo fratello maggiore”? – a volte potrebbe davvero avere l’effetto contrario e far sentire il bambino assolutamente senza valore, anche se non fai un confronto esplicito.

Conosco casi in cui il figlio maggiore era come una superstar a scuola: eccellente nello sport, nei voti, in tutto; poi al fratello o alla sorella minore capitano gli stessi insegnanti. Anche se i genitori non dicono nulla, i maestri fanno paragoni: “Perché non sei bravo come tuo fratello o tua sorella?”. Questo è difficile, molto difficile.

Bisogna essere molto cauti e non esagerare quando vogliamo incoraggiare i nostri figli a crescere e a svilupparsi, dando esempi di altri. Dobbiamo evitare di far sì che in essi sorga l’atteggiamento “Non sono abbastanza bravo”. Credo tuttavia che quando incoraggiamo i bambini ad essere più disciplinati o a sforzarsi di più e a sviluppare varie abilità – sia nella scuola sia in qualunque altro ambito (se il figlio è troppo piccolo potrebbe non capire) – se dici “Ti renderà più felice”, piuttosto che “Avrai più successo” e questo genere di discorsi, penso che dire “Questo ti renderà una persona più felice” sia un metodo più abile. Senza usare motivi del tipo “Farai più soldi nella vita”. Anche questo potrebbe essere un po’ problematico; semplificalo: “Sarai solo più felice. Se c’è qualcosa che vorrai fare, sarai capace di avere la disciplina e la concentrazione per farlo”.

Se funzionerà o meno è molto difficile da dire perché, anche se usiamo noi stessi come esempio, i figli di genitori di successo possono talvolta sentirsi completamente inadeguati. Così questa equanimità è molto importante. Se sei un genitore e una persona d’affari di successo o qualunque altra cosa, non dare a questo troppa importanza con i tuoi figli, perché potrebbero sentirsi inadeguati: “Devo essere all’altezza. Non posso proprio essere all’altezza. Non sono bravo. Non mi amerai se non faccio come te, e non sono in grado di farlo”, quindi molti problemi. Lo stesso accade quando diciamo ai figli: “Sono un fallimento, non essere un fallimento come me”.  Anche questo può essere molto strano. “Se sono il figlio di un fallito devo essere un fallimento anch’io per poter essere leale alla tradizione di famiglia”. Questo crea proprio un bel casino.

Così l’equanimità di cui stiamo parlando ha molte applicazioni estremamente positive.

Il problema del nichilismo

Se siamo nichilisti verso noi stessi e pensiamo di non esistere e che niente esiste, allora non è possibile cadere nell’altro estremo? Se nulla esiste nulla è importante, posso fare quello che voglio e comprare tutto il gelato che voglio perché nulla esiste.

Assolutamente sì. L’ingenuità ha molte conseguenze. L’ingenuità su di “me” – “Io non esisto; non conto nulla” (essere ingenui sulla realtà) – allora può condurre all’ingenuità riguardo alle cause e gli effetti: “Qualunque cosa io faccia non importa; non ha nessun effetto”.

Quindi nel Buddhismo riconosciamo due tipi di ingenuità o inconsapevolezza (inconsapevolezza è il termine tecnico, o ignoranza). Una relativa a causa ed effetto – la causa e l’effetto dei comportamenti, non solo le leggi della fisica – che conduce a comportamenti distruttivi, sia per noi che per gli altri, perché pensiamo non ci siano conseguenze, non ci siano effetti per quello che facciamo. Poi c’è l’inconsapevolezza o la confusione sulla realtà – come io esisto, come tutti esistono, come esiste il mondo – che sta dietro all’infinita continuità delle nostre altalenanti difficoltà della vita, ciò che chiamiamo “samsara”.

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