Liberarsi dalle concezioni estranee al karma

Il karma riguarda ciò che ci accade e l'intera questione dell'etica. È un argomento estremamente complesso, probabilmente viene considerato il tema più complesso negli insegnamenti buddhisti: esistono innumerevoli esseri e tutti hanno sperimentato la rinascita senza inizio e interagiscono tra loro, cosicché assolutamente tutti i diversi fattori che influenzano questa moltitudine di esseri sono tra loro interconnessi. Pertanto, per conoscere completamente il karma non basta conoscere quello di un singolo individuo: solo la mente onnisciente di un Buddha ha la portata tale per poter comprendere l'intero disegno, la mente di ogni altro essere è limitata, ma ciononostante possiamo provare a conoscere e comprendere tutti i vari fattori coinvolti nel processo del karma e in questo modo avere una comprensione generale di come funziona e di come possiamo influenzarlo.

Spiegazioni occidentali del karma e dell'etica

Il metodo buddhista generale per imparare qualcosa è imparare prima cosa esso non sia: eliminando ciò che qualcosa non è, abbiamo un'idea più chiara di ciò che realmente è. Il ragionamento alla base di questo è che molti di noi hanno dei preconcetti: potremmo avere preconcetti su cosa sia il karma e su come spiegare ciò che ci accade, oppure sull'etica e su come funziona l'etica buddhista. Quando ascoltiamo una spiegazione sul karma, in modo assolutamente naturale noi proiettiamo su di essa i nostri preconcetti e questo rende molto difficile ottenere una corretta comprensione buddhista: dobbiamo in primo luogo eliminare tutti questi preconcetti errati sul significato del karma in modo che le nostre menti siano più ricettive e aperte per raggiungere una corretta comprensione. Questo è il metodo generale, a proposito non solo del karma ma di tutti i principali argomenti.

In quest’ ottica vorrei esplorare alcune delle spiegazioni non buddhiste di ciò che ci accade, dell'etica e del karma e, dal respingere tali spiegazioni, possiamo ottenere una comprensione molto più chiara degli insegnamenti buddhisti sul karma.

Caso o probabilità

Un punto di vista è che ciò che ci accade avvenga solo per caso. Non c'è una ragione particolare per cui siamo felici o infelici, o perché incontriamo qualcuno, o perché ci succeda questo o quello: in realtà il Buddhismo non afferma nulla del genere, anzi dice che c’è una causa, non è un processo caotico.

Una variazione su questo sarebbe la spiegazione scientifica occidentale che ciò che ci accade è una funzione di probabilità, una formula matematica di probabilità per cui, date tutte le circostanze in una situazione, potremmo prevedere matematicamente cosa accadrà: il Buddhismo non afferma nemmeno questo.

Fortuna

Un'altra spiegazione potrebbe essere che ciò che accade avvenga per la fortuna. Una persona ha vinto alla lotteria perché è stata fortunata, questa persona ha perso in borsa ed è stata sfortunata: quello che realmente c’è dietro è una forza intrinseca, per cui qualcuno è intrinsecamente una persona fortunata. Diciamo ad esempio: "Questo è il mio giorno fortunato" come se ci fosse qualcosa di intrinseco nella giornata a renderla fortunata, “Portare un ferro di cavallo o un cornetto mi porta fortuna". Il Buddhismo di certo non afferma nulla del genere, anche se qualcuno potrebbe avere quest'impressione vedendo persone che indossano cordini rossi o, come nei paesi del sud-est asiatico, si procurano amuleti da indossare al collo come porta fortuna, di certo questo non è un insegnamento buddhista.

Fato o destino

Un'altra teoria è che ciò che ci accade dipenda dal fato o dal destino, sia esso personale o impersonale: spiegato in modo impersonale è proprio così che deve essere, questo è il nostro destino, scritto in un libro da qualche parte nel cielo, la cronaca dell’Akasha conservata in una qualche caverna da qualche parte o qualcosa del genere, ma questo non è il punto di vista buddhista.

Il volere di Dio

Una variazione su questo è che il fato o il destino provengano da una fonte personale, in altre parole la volontà di Dio, che nell’Islam viene chiamata kismet: nel tardo Induismo in India, che è fortemente influenzato da questa idea islamica, c'è in realtà una forte fede nella volontà di Dio, mescolata alla comprensione indù del karma. Anche in altre culture troviamo una simile visione, come essere malati e non prendere alcuna medicina perché guarire o meno dipende dalla volontà divina, che è il punto di vista biblico fondamentalista.

Buona fortuna

Gli antichi romani avevano la buona fortuna e la dea Fortuna: avere successo in qualcosa indica che la dea ci ha donato la fortuna, quindi "diventa giusto". Se arrivasse un dittatore e riuscisse ad ottenere il potere, non importa quanto possa essere crudele, significa che la dea Fortuna era con lui, quindi è un bene. La fortuna si accompagna al vincitore. Se sopravviviamo ai leoni nell’arena è perché ce lo ha concesso la dea Fortuna; se invece ci sbranano dipende dal fatto che la dea non ci ha dato la fortuna di sopravvivere. È un atteggiamento molto orientato al successo e in effetti c’è molto di questo nella nostra mentalità aziendale: se qualcuno vince o ha successo nella sua attività, è un buon uomo d'affari; "ha fatto fortuna" usando la parola "fortuna" per la ricchezza e il successo. Non si tratta solo di un'antica credenza, visto che ancora abbiamo questa eredità. Certamente nel Buddhismo non crediamo che l'etica sia basata sulla forza e sulla potenza.

Ricompensa e punizione basate sul rispettare le regole

Un'altra teoria è che ciò che ci accade si basi sul rispettare delle regole, agisca cioè come ricompensa e punizione. Una teoria potrebbe essere che ci sono leggi date da un'autorità superiore in cielo, date da Dio, e se le rispettiamo verremo ricompensati e saremo felici, mentre invece se le infrangiamo verremo puniti e saremo tristi: quello che ci accade è una semplice questione di obbedienza, di quanto siamo obbedienti alle leggi, e quindi l'etica si basa solo sull'obbedienza.

C’è una variazione del tema nell’antica società greca, basata sempre sulla legge, non tanto su leggi divine quanto leggi emanate da un legislatore, dall’uomo. È un sistema secolare che ancora una volta funziona sulla base di ricompensa e punizione: chi segue le leggi civili sarà un buon cittadino, sarà felice e lo sarà anche l’intera società; chi infrange le leggi invece sarà infelice, la società avrà problemi e verrà punito.

Fermiamoci un momento, dopo aver esaminato questa prima sezione dei punti di vista non buddhisti occidentali, prima di passare a quelli asiatici che differiscono dalla spiegazione buddhista indo-tibetana. È utile considerare o riflettere sul fatto che sia istintivamente che a livello emotivo abbiamo qualcuno di questi preconcetti o punti di vista. Pensiamo che quello che ci accade sia solo un caso? Una probabilità matematica? Fortuna? Destino? Potere? Che saremo più felici se guadagniamo più soldi, o se rispettiamo le leggi celesti o civili? Riflettiamoci un momento. Questi sono i nostri preconcetti occidentali, forse potrebbero essercene di più, ma questi sono gli unici a cui riesco a pensare al momento.

Dobbiamo esaminare in modo abbastanza specifico perché ora ci sentiamo bene, perché ci sentiamo felici o infelici se le cose ci vanno bene o meno causa del caso, del destino, della fortuna o di chissà che cosa.

Penso che per molti di noi sia una combinazione di molti di questi fattori. Se otteniamo una promozione o un aumento potremmo dire che è stato perché abbiamo seguito tutte le regole, abbiamo avuto successo e fortuna, magari un vero colpo di fortuna; a volte invece pensiamo che sia stato il destino a farci perdere il lavoro: il Buddhismo non lo spiega in nessuno di questi modi.

Spiegazioni asiatiche del karma e dell'etica

Induismo: compiere il proprio dovere

La visione indù è che il karma sia associato a una sorta di dovere o destino. Siamo nati in una certa casta e in una certa situazione sociale - come uomo o donna, governante, servo o soldato - e ognuna di queste caste e ruoli sociali ha un determinato insieme di azioni standard ad essa associate: c'è un certo modo in cui dovrebbe agire una moglie o un servitore e questi sono personificati nelle grandi storie epiche di Hanuman, Sita, Ram e così via. Se siamo all’altezza del nostro dovere e rispettiamo il ruolo sociale in cui siamo nati, tutto andrà bene e avremo una rinascita migliore: ad esempio se nasciamo donna e siamo brave casalinghe, saremo felici e nella nostra prossima vita potremmo nascere come qualcosa di ancora migliore.

Adopero proprio questo esempio per il fatto che qui ci sono tante donne e penso che possano apprezzare questo modo di pensare e le sue implicazioni. È espresso in maniera molto chiara nella Bhagavad Gita: Arjuna è un guerriero in procinto di iniziare una battaglia contro i suoi parenti ed è profondamente indeciso su cosa fare, e Krishna gli suggerisce che il suo dovere è combattere: è meglio combattere e compiere il proprio dovere che andare contro il proprio dovere di guerriero, solo allora è possibile essere felice e tutto andrà bene. Sebbene i buddhisti usino la stessa parola, "karma", essa ha un significato molto diverso.

Il confucianesimo: essere in armonia adattandosi al processo di cambiamento

Che dire del modo di pensare cinese? C’è il tradizionale punto di vista cinese del confucianesimo, che ha una grande influenza anche sul modo di pensare nella Repubblica popolare cinese. Ci sono alcuni modelli di comportamento e se tutti seguono correttamente il proprio - un padre è un padre, un figlio è un figlio, il governante è il sovrano, i sudditi sono i sudditi, i membri del partito sono i membri del partito, i proletariati sono i proletariati - allora tutto andrà armoniosamente: ognuno deve confluire armoniosamente con il processo di cambiamento ed essere armonioso con esso, e quindi ad esempio in tempo di guerra sarà corretto combattere e tutti saranno felici, e non combattere sarebbe contrario all’armonia, sarebbe terribile e causa di disastri e si verrebbe puniti, e combattere sarebbe virtuoso mentre non farlo sarebbe non virtuoso; allo stesso modo, quando i tempi cambiano e la situazione è pacifica, sarebbe non virtuoso combattere e virtuoso essere pacifici.

Come potevano sapere le persone se i tempi erano cambiati o no? Lo dichiarava l’imperatore, ed oggi abbiamo la stessa situazione con il presidente del partito comunista che afferma quando è il momento della Guardie Rosse ed è corretto essere una Guardia Rossa, ed è sbagliato non esserlo e non distruggere tutto; e quando il presidente del partito dice che è ora di fare soldi, chi guadagna fluisce con il processo di cambiamento e sarà armonioso, mentre chi non lo fa non sarà in sincronia: questo è il modo tradizionale cinese di pensare a ciò che porta la felicità, cioè adattarsi alla società e seguire ciò che dice il governo.

Questo modo di pensare non è prettamente cinese ma lo si riscontra anche in Occidente: se ci conformiamo all'ultima moda e indossiamo il nostro vestito a questa lunghezza piuttosto che a quell’altra, saremo felici e ci adatteremo; se il nostro vestito avrà una lunghezza diversa saremo fuori moda ed infelici, e in questo caso sono l’imperatore o l’imperatrice della moda ad imporre le regole delle tendenze dell’anno. Questo non è il punto di vista buddhista. Quanto influenza tutto ciò il nostro modo di pensare, il tipo di musica che gli adolescenti ascoltano, il modo in cui si tagliano i capelli, se hanno tatuaggi o piercing! In realtà è un modo di pensare davvero abbastanza comune.

Il Buddhismo popolare cinese: compiere buone azioni come investimento aziendale

Un altro punto di vista cinese è quello del Buddhismo cinese, fortemente influenzato dalla stessa cultura cinese e quindi profondamente differente dalla visione buddhista indo-tibetana, e ad essere onesti questa visione popolare cinese del karma non è la più sofisticata: dipende dai termini adoperati nella traduzione e questo è un ottimo esempio di ciò che sento così fortemente, cioè che il termine adoperato per tradurre un termine buddhista influenza fortemente il modo di intendere che è cruciale scegliere quello meno fuorviante.

Gli antichi cinesi tradussero la parola karma usando un ideogramma utilizzato sempre all’interno di parole composte riguardanti gli affari, dando quindi al karma la connotazione di un investimento aziendale: compiere buone azioni è come fare un investimento da cui ottenere molti meriti, come aver fatto un buon investimento ed averlo messo in banca per goderne dei frutti (merito). Il solo motivo che ci spingerebbe allora a cercare di compiere le cosiddette buone azioni sarebbe per ricavarne molto guadagno o denaro (merito): le persone con un simile modo di pensare riterranno allora che fare un’offerta al tempio o costruire una statua siano azioni da compiere solo perché sono dei buoni investimenti, da cui ottenere molti meriti e ricevere felicità e buona fortuna; al contrario perdere una tale opportunità, ad esempio donare ad un tempio, significa in fondo non essere un buon uomo d’affari, per aver perso l’opportunità di un buon investimento.

Anche adesso osserviamo questa mentalità, quando i tibetani costruiscono templi o grandi statue le donazioni più cospicue sono dei cinesi: anche nella storia, per la costruzione degli enormi monasteri in Tibet sono sempre stati i cinesi a donare di più, e fondamentalmente le persecuzioni in Cina contro il Buddhismo alcuni secoli fa, come durante la dinastia Ming (dal XIV al XVII secolo), erano fondamentalmente dovute al fatto che il governo spendeva troppi soldi per i templi e la gente dava troppo denaro, e questo causò appunto le persecuzioni contro il Buddhismo e persino ribellioni contro il governo. Anche in Occidente abbiamo questa mentalità di pensare di poter comprare la nostra felicità.

Umanesimo occidentale: felicità nel rendere felici e non recare danno agli altri

L'ultimo punto di vista non buddhista tibetano è particolarmente diffuso in Occidente più che in Asia, e viene chiamato "etica umanistica", cioè non nuocere e non rendere gli altri infelici, ma cercare di rendere tutti felici: in questo sta l’intera etica del sistema, dove "etica" significa cercare di portare la massima felicità alla maggior parte delle persone, come non utilizzare animali in esperimenti di laboratorio per la medicina e questo tipo di cose, ed è molto comune.

Nemmeno questo in realtà è l'insegnamento buddhista, e il motivo principale è che non abbiamo veramente idea se ciò che facciamo renderà felice o meno l'altra persona. Possiamo avere tutte le migliori intenzioni del mondo, come quando cuciniamo qualcosa e lo serviamo ad un nostro buon amico, ma egli potrebbe soffocarsi e morire: questo è ovviamente un esempio estremo, ma è interessante perché allora ci sentiremmo terribilmente in colpa, e ci auto accuseremmo ritenendo di essere delle persone cattive. Sarebbe davvero strano basare l'etica su questo, ma dopo tutto, chi è responsabile della morte del mio amico?

L'idea di etica degli occidentali più progressisti, più “spirituali”, è proprio questa: solitamente non pensiamo che seguire la moda ci renderà felici, o che lo faccia essere una brava casalinga, o che possiamo comprare la nostra felicità; pensiamo però che se rendiamo felici gli altri, siamo persone etiche e che le cose ci andranno bene.

Un altro esempio è prendersi cura di qualcuno che poi si ammala e muore; sentiamo che è stata colpa nostra e pensiamo che avremmo dovuto essere in grado di renderlo felice e curarlo, come se quanto succede a qualcun altro dipendesse totalmente da noi: certo possiamo contribuire a ciò che accade, ma non siamo l'unica forza che lo determina.

Cerchiamo di non nuocere agli altri ma, dal punto di vista buddhista, ciò si riferisce alla nostra motivazione, non all'effetto che ha la nostra azione: la nostra motivazione è cercare di non causare danni, ma non abbiamo idea di quale effetto avrà sugli altri. Nel Buddhismo l'etica non si basa sul risultato che causiamo agli altri, ma sulla nostra motivazione: non possiamo determinare il buono, il cattivo, il virtuoso o il non virtuoso dall'effetto che ha sugli altri, perché non abbiamo alcun controllo su questo, ma solo sulla nostra motivazione.

Troviamo anche una combinazione di queste visioni non buddhiste: "Come sarò felice? Se sono sposato e ho il partner giusto, un buon lavoro, una casa, guadagno un sacco di soldi (perché questo è ciò che dovrebbe fare una persona istruita), e cerco di essere una brava persona e non ferire nessuno, allora sarò felice e questa è la virtù più elevata", che poi è quello che ci dicono i nostri genitori! E ancora "se viene la guerra, parti e fai il tuo dovere" e tutto quello che arriva dalla propaganda nella nostra società "Segui la moda!", “Devi avere successo!” “Devi conformarti alle regole!”. Ma il Buddhismo non è d'accordo, non afferma affatto che la nostra felicità o infelicità provengano da questo: anzi penso che approfondire queste altre possibilità sia utile per chiarire i nostri normali preconcetti, ciò che normalmente pensiamo.

La comprensione buddhista indo-tibetana del karma

Ora che abbiamo spazzato via alcuni dei concetti stranieri, possiamo interrogarci a proposito della comprensione indo-tibetana del karma e del perché sperimentiamo le cose.

Dal punto di vista buddhista indo-tibetano, un'azione distruttiva è quella compiuta sotto l'influenza di qualche emozione disturbante come rabbia, avidità o ingenuità - essendo l’ingenuità ad esempio il pensare che le nostre azioni non abbiano alcun effetto e quindi non importa cosa facciamo - e questo causa sofferenza: non stiamo parlando della sofferenza che provoca agli altri, ma della sofferenza che provoca a noi, nel senso della nostra esperienza futura; in altre parole, ciò che sperimentiamo nella vita è il risultato degli atteggiamenti e delle emozioni che ci motivano a fare ciò che facciamo.

I quattro fatti della vita

Tutto questo viene spiegato o compreso nei termini delle quattro nobili verità, che io chiamo i quattro fatti della vita, che sono fatti visibili come veri da chiunque veda chiaramente la realtà, non dalle persone comuni che non vedranno davvero che sono veri.

In un linguaggio semplice, il primo fatto è che la vita è difficile, piena di problemi, anche se molte persone non sono disposte ad ammetterlo e nemmeno a guardarlo. Questo riguarda ogni momento della nostra vita ordinaria: a volte ci sentiamo infelici e non è una cosa bella, ma un problema; a volte invece ci sentiamo felici, ma la felicità si mescola a problemi e confusione. Il problema di questo è che non è duraturo e non cura realmente nulla in modo permanente: dopo aver mangiato, ci sentiamo felici poiché siamo sazi, ma ciò non ci impedisce di essere poi di nuovo affamati. Un altro problema è che non possiamo prevedere cosa succederà, se ci sentiremo felici per qualcos'altro o se ci sentiremo tristi, o se invece ci addormenteremo e non proveremo nulla: non abbiamo idea di come ci sentiremo dopo, e questo genere di felicità passeggera non genera alcuna sicurezza.

Quando siamo infelici, ne siamo ovviamente insoddisfatti e disgustati, e vogliamo solo sbarazzarcene perché ci disturba; quando siamo felici, ci aggrappiamo e non desideriamo che un tale stato se ne vada e non ne siamo mai soddisfatti, anzi con avidità ne vorremmo sempre più: come quando facciamo zapping alla televisione e troviamo qualcosa di interessante ma con avidità pensiamo che forse su qualche altra rete c’è qualcosa di meglio. Questo non trovare mai soddisfazione è un’esperienza problematica.

Proviamo anche una sensazione neutra quando non accade granché, e ciò ci rende pigri ed ingenui, e pensiamo che durerà per sempre questo pacifico sentirci tranquilli, che andrà sempre tutto bene ma invece non dura così.

Tutto questo è il primo fatto della vita, la prima nobile verità.

Il secondo fatto è che queste esperienze insoddisfacenti hanno una causa, anche se in genere riteniamo che ciò avvenga perché è così che deve andare, che non ci sia una causa o che succeda per via di quanto detto prima, del caso, della fortuna o di qualunque altra cosa: Buddha disse che la causa più profonda, la vera causa, è il karma e le emozioni e atteggiamenti disturbanti. Entrambi nascono dalla confusione, dove "confusione" non significa demenza o Alzheimer, bensì non sapere o avere un'idea sbagliata di ciò che sta accadendo. Il primo fatto della vita sono i risultati del karma; il secondo fatto è la causa, il karma e le emozioni disturbanti.

Il terzo fatto è che è possibile far cessare totalmente tutto questo, nel senso di non farlo tornare mai più e non solo di sopprimerlo temporaneamente, per quanto lungo possa essere un tale periodo. Sebbene si possa fare, non stiamo parlando di ciò: il Buddhismo afferma che possiamo sbarazzarcene in modo che non torni mai più.

Il quarto fatto è che per ottenere ciò dobbiamo fare qualcosa poiché non accadrà solo per la buona sorte o altro: dobbiamo cambiare i nostri atteggiamenti per sbarazzarci della confusione e liberarci del karma. Il comportamento distruttivo che porta infelicità deriva da emozioni disturbanti come rabbia, avidità e così via. Quando parliamo di una qualsiasi di queste - azioni costruttive, distruttive o neutre che ci portano rispettivamente infelicità, felicità (felicità insoddisfacente) e sentimenti neutri - provengono tutte da atteggiamenti disturbanti in termini di "io”, confusione su come “io” esisto e sulla realtà.

Qual è l'importanza di questo? In generale parliamo del karma come causa di ciò che sperimentiamo, e non affermiamo che provenga invece da una forza esterna: non viene dal diavolo né dai demoni che ci inviano o ci provocano questo cattivo karma, non è il diavolo a spingerci a fare qualcosa: il karma e tutte queste cose provengono dalla nostra stessa confusione, una confusione che nemmeno fa parte della nostra natura né viene da Dio, poiché Dio non ci ha creati in questo modo, né è così a causa del peccato originale. Secondo il punto di vista buddhista questa confusione non ha inizio, non è colpa di nessuno e non possiamo incolpare nessuno.

Il karma va sempre a braccetto con le emozioni e gli atteggiamenti disturbanti, non esiste in modo indipendente di per sé, influenzando ciò che ci accade con il suo potere intrinseco, non viene dall'esterno e non possiamo dare la colpa a nessun altro, nemmeno a noi stessi, non possiamo sentirci in colpa per questo, a causa del peccato originale - come a dire "siamo delle persone cattive” - è solo un fenomeno senza inizio, non la vera natura di chi siamo.

Le tre visioni buddhiste indo-tibetane

Ci sono tre presentazioni di base del karma nelle tradizioni buddhiste indo-tibetane. La prima è quella della scuola Vaibhashika, uno dei quattro sistemi filosofici indiani, che deriva dal testo indiano abhidharma scritto da Vasubandhu, Abhidharmakosha (Chos mngon-pa’i mdzod), La tesoreria di temi scelti di conoscenza. La seconda presentazione deriva dal testo di suo fratello Asanga, Abhidharmasamuccaya (Chos mngon-pa kun-las btus-pa), Un’antologia di temi scelti di conoscenza, che è mahayana e nello specifico composta dal punto di vista cittamatra; la presentazione del madhyamaka è una leggera variazione di esso. Tutte e quattro le tradizioni tibetane concordano su tutto questo; l'unica eccezione è nella tradizione ghelug, che afferma che prasangika-madhyamaka ha una propria presentazione. La tradizione ghelug prasangika segue sostanzialmente il sistema di Vasubandhu, ma con alcune importanti correzioni.

Qui guardiamo solo il sistema di Asanga che è il meno complicato da capire.

Il karma è un impulso, non l'atto stesso

Secondo questa visione, il karma (las) è un impulso mentale, è sinonimo del fattore mentale dell’intenzione (sems-pa). L’intenzione è un fattore mentale che accompagna ogni momento della nostra esperienza, è il fattore mentale che ci porta nella direzione di una particolare esperienza, sia semplicemente per guardare o ascoltare qualcosa sia, in questo caso, per fare qualcosa con o ad essa, per dirla o pensarla. Che si tratti di karma fisico, verbale o mentale, l'impulso karmico è il fattore mentale dell’intenzione a fare, dire o pensare qualcosa: è come l'impulso di colpire qualcuno, di dire la verità o di pensare con desiderio alla persona amata; è anche la spinta mentale di continuare a fare, dire o pensare qualcosa, così come la spinta mentale a smettere di impegnarsi in esse e di fare, dire o pensare a qualcos'altro. Di solito, non siamo affatto consapevoli di questi impellenti intenzioni o impulsi mentali, tanto che nella terminologia occidentale, diremmo che di solito sono "inconsci".

Il karma non è una sorta di legge meccanica mentale, bensì è un fattore mentale (sems-byung), una consapevolezza sussidiaria che accompagna la nostra esperienza: è un modo di conoscere qualcosa che aiuta una coscienza primaria, ad esempio la coscienza visiva o mentale nel percepire il suo oggetto. Quando ad esempio guardiamo un pezzo di carta, un aspetto del modo in cui lo vediamo potrebbe essere l'impulso a strapparlo: è un evento mentale. Quell'impulso mentale che accompagna il nostro vedere il pezzo di carta qui è il karma: il karma non è l'azione fisica stessa di strapparlo, e nemmeno l'azione mentale di pensare di strapparlo; il karma è ciò che provoca prima l'azione mentale e poi l'azione fisica. Il karma conduce ad entrambe queste azioni, le sostiene e le porta a fermarsi, ma non è le azioni stesse.

Quando arriva l'impulso, quello è il karma. Poi abbiamo sempre la possibilità di scegliere se metterlo o meno in atto, anche se a volte l'impulso o la spinta di fare o dire qualcosa è davvero molto intenso; se attuiamo l’azione che questo ci porta a fare, essa ha conseguenze sulla nostra esperienza successiva.

I risultati delle azioni karmiche

Cosa viene dalle azioni karmiche o, in altre parole, dal comportamento compulsivo? Tra le molte cose ci sono il provare un certo grado di felicità o infelicità, lo sperimentare la rinascita in una certa condizione o in un certo ambiente, lo sperimentare l'essere maschio o femmina, americano o tedesco, in un luogo sporco o pulito, ecc.; un'altra cosa che ne deriva è una sensazione o desiderio compulsivo ('dod-pa) di agire in modo simile a come abbiamo agito prima, e questo è anche un fattore mentale, una consapevolezza sussidiaria e, quando sorge, accompagna la nostra cognizione: vorremmo agire in quel modo, ci sentiamo di agire così e vogliamo farlo di nuovo. Il fatto che prestiamo o meno attenzione a questa sensazione come qualcosa di proficuo da mettere in atto dipende da molte altre variabili, non ultime dalle circostanze esterne in cui ci troviamo. Sperimentare tale sensazione può o non può provocare il sorgere di un impulso a ripetere quell'azione e l'impulso a ripeterla può o non può spingere a ripeterla effettivamente: se l'impulso sorge, quell'impulso è un altro karma.

Un altro risultato è l'esperienza di qualcosa di simile a quello che noi abbiamo fatto prima, ma che ora capita a noi, come ad esempio essersi sempre lamentati ed ora incontrare sempre persone che si lamentano con noi.

Ed infine la nostra percezione delle cose è molto limitata, e possiamo vedere solo quello che abbiamo davanti al naso senza capire davvero perché qualcuno abbia agito in un certo modo o quali saranno le conseguenze delle nostre azioni: è quella che io chiamo "visione periscopica", perché è come guardare attraverso un periscopio in un sottomarino, e noi la creiamo e sperimentiamo costantemente.

Tutto ciò è il risultato del mettere in atto gli impulsi del karma. È molto complesso perché i risultati del comportamento karmico costantemente hanno alti e bassi: un attimo siamo felici, un altro siamo infelici; ora accade questo e ora accade quello; adesso abbiamo voglia di fare una cosa e poi abbiamo voglia di farne un’altra. Anche mentre le nostre esperienze hanno alti e bassi sperimentiamo la visione periscopica e non capiamo veramente cosa sta succedendo: guardiamo attraverso il periscopio, osserviamo qualcosa ed ecco che arriva il fattore di “ho voglia”: vediamo una tavoletta di cioccolato e, visto che ci piace, siamo felici e abbiamo voglia di mangiarla.

"Piacere", tra l'altro, è il fattore mentale di vedere il cioccolato con consapevolezza di piacevole contatto (reg-pa): in Occidente “qualcosa che piace” è un concetto più astratto che nel Buddhismo, in cui invece si riferisce al fattore mentale che accompagna effettivamente la cognizione di "qualcosa che ci piace" e che a sua volta è un prodotto che matura dal karma, come provare un certo livello di felicità o infelicità.

Tenete presente che amare il cioccolato e avere voglia di mangiarne un po’ non sono emozioni disturbanti (nyon-mongs): possono o non possono agire come una circostanza per il sorgere del desiderio ardente ('dod-chags) verso il cioccolato, che è un'emozione disturbante. Il desiderio ardente esagera le buone qualità di qualcosa. Amare il cioccolato e avere voglia di mangiarne un po’ potrebbero anche essere circostanze che danno origine all'ingenuità (gti-mug) sull'effetto di mangiarlo subito prima di cena - un altro stato mentale disturbante. D'altra parte, potrebbero agire come circostanze per il sorgere del fattore mentale della disciplina etica - uno stato mentale costruttivo - dal trattenerci dal mettere in atto il nostro desiderio ardente o ingenuità.

Supponiamo che sorgano entrambi, sia desiderio ardente che ingenuità: potremmo quindi perdere di vista il fatto che siamo a dieta, che non va bene per noi o qualunque altra cosa, e ciò significa che non manteniamo più la consapevolezza (dran-pa) di quel fatto, che equivale a non ricordarlo.

Quindi, a causa del contributo di tutti questi fattori che nascono dalle azioni karmiche - e cioè che attraverso il nostro periscopio vediamo il cioccolato, ci piace e abbiamo voglia di mangiarlo - viene l'impulso di mangiarlo. Quell'impulso è un nuovo karma che poi noi mettiamo in atto, e da questo derivano tutte le conseguenze, alcune delle quali sono risultati meccanici, come mettere su peso ecc., altri sono invece più a lungo termine, come aver poi ancora voglia di mangiarne altro: sono questi effetti a lungo termine quelli da cui stiamo cercando di liberarci quando proviamo a purificare il karma.

Domanda sull'intuizione

L'intuizione è originata mentalmente o no? È più mentale o è più anima e spirito?

Come spiego spesso, se dobbiamo tagliare una torta in due o tre fette, possiamo farlo in molti modi diversi e similmente ogni lingua la taglierà in due o tre pezzi di diverse dimensioni. Parlando della nostra esperienza, possiamo suddividerla come hai fatto tu - in spirito, anima e mente - oppure alla maniera tibetana, e le due non corrispondono affatto. Lasciatemi dunque spiegare come spiegheremmo l'intuizione da un punto di vista buddhista tibetano.

Nel Buddhismo parliamo di come conosciamo qualcosa. Il nostro modo occidentale di dire che possiamo conoscere qualcosa "intellettualmente" o "intuitivamente" non corrisponde esattamente al modo tibetano di dividere la torta: in entrambi i sistemi, la divisione dipende da come conosciamo qualcosa che è più oscuro di ciò che possiamo vedere.

Consideriamo il caso di conoscere lo stato mentale di qualcun altro. Secondo la struttura buddhista potremmo conoscerlo basandoci su un processo di ragionamento: "Lui non mi parla e ha l’espressione che di solito ha qualcuno che è arrabbiato per qualcosa, quindi è arrabbiato: questo corrisponde a quello che chiamiamo in Occidente "una conoscenza intellettuale” e che il Buddhismo chiama “cognizione inferenziale” (rjes-dpag).

In alternativa sappiamo che è arrabbiato senza fare affidamento su un processo di ragionamento, solo presumiamo che lo sia in base a ciò che "sentiamo", il che significa in base a ciò che pensiamo. Il Buddhismo chiama questa "supposizione" (yid-dpyod), un modo inaffidabile di sapere qualcosa: ciò che presumiamo sia vero può o non può essere il caso; in alternativa potremmo avere maturato una tale esperienza che ci basta semplicemente vedere qualcosa per “conoscerlo”: in Occidente definiremmo ciò come un sapere intuitivo, perché non abbiamo dovuto ragionarci sopra, ma in realtà il Buddhismo direbbe che stiamo ancora adoperando l'inferenza, anche se in forma non verbale, e in base all’aver riconosciuto alcuni segni abbiamo concluso che la persona è arrabbiata. Un'altra possibilità è che potremmo sapere che qualcun altro è sconvolto grazie a percezioni extrasensoriali, che il Buddhismo identifica come una forma di cognizione mentale diretta non concettuale e che in Occidente sono considerate un altro esempio di ciò che verrebbe chiamato "intuizione".

Un altro esempio è la comprensione della vacuità, la natura della realtà: potremmo comprenderla basandoci sulla logica e sul ragionamento, oppure automaticamente per abitudine, sulla base delle molte esperienze delle vite passate. Forse in termini occidentali si potrebbero chiamare uno “intellettuale” e l'altro “intuitivo”.

Da un altro punto di vista quando in Occidente diciamo che abbiamo solo una "comprensione intellettuale" della vacuità, di solito intendiamo che la nostra comprensione non viene avvertita fino in fondo a livello di pancia, mentre lo è invece una "comprensione intuitiva". Da un punto di vista analitico buddhista, la differenza tra le due comprensioni sta nel livello di convinzione che accompagna la comprensione: lo stesso livello di convinzione può accompagnare una cognizione di vacuità sia che derivi dall'affidarsi a un processo di ragionamento che dall'abitudine e dalla familiarità.

Questo è il modo in cui lo spiega il Buddhismo, senza usare concetti come "anima" o "spirito": non dipende da dove proviene la comprensione, ma piuttosto da come sorge, quali fattori mentali la accompagnano e quali sono i livelli di intensità di tali fattori.

Un ultimo punto: proprio come ho spiegato il karma indicando le diverse strutture concettuali che non stiamo spiegando, allo stesso modo, per rispondere a questa domanda, dovremmo escludere tutto ciò che non fa parte della spiegazione buddhista indo-tibetana, come anima, spirito ecc.: poiché stiamo descrivendo un'esperienza è solo questione di come lo facciamo, sono sistemi diversi.

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