Affrontare i nostri problemi

Abbattere i muri per imparare

Come abbiamo discusso ieri, quello che cerchiamo di fare è di sentirci aperti ad essere d'aiuto agli altri, relazionandoci direttamente con loro, con i muri abbassati. I muri devono essere abbassati non solo verso le persone, ma anche verso la possibilità d'imparare. È un processo simile. Bisogna tenerli abbassati per riuscire ad essere aperti e a mettere le cose in pratica noi stessi, senza erigere muri o una sorta di barriera intellettuale. In altre parole, ciò che potremmo fare è alzare un muro per proteggere un “io” interiore dall’apparenza solida e pensare: “Queste cose le ascolterò solo come un esercizio intellettuale, per imparare qualcosa di curioso e interessante. Perché se devo andare a toccare qualcosa di intimo e profondo, questo mi sembra pericoloso, e pertanto alzerò un muro.” Anche questo tipo di muro va abbattuto.

Cerchiamo di essere aperti in questo modo per imparare e per trasformare noi stessi, così da poter aiutare gli altri verso i quali siamo aperti ad un livello personale. In maniera simile a ciò che abbiamo descritto ieri, possiamo sviluppare tale sentimento caloroso all'inizio guardando gli altri intorno a noi, le altre persone in questa stanza o le immagini dei Buddha alle pareti, e dopo aver abbassato i muri, sentiamo la motivazione ad essere aperti alla trasformazione, ad un livello più profondo, di noi stessi e della nostra relazione con gli altri.

Facciamo questo per un momento. E per favore facciamolo con l'intenzione di essere attenti e concentrati. Non è che vogliamo starcene semplicemente lì seduti con la mente che vaga dappertutto.

[pausa]

Usare la “pratica” buddhista come un muro

Quando ci avviciniamo al Buddhismo, sostanzialmente lavoriamo per un certo livello di trasformazione personale. La trasformazione personale può fare paura. Ne abbiamo parlato un po’ ieri. Per non dover cambiare, alziamo i muri. Poi, con questi muri alzati, ci avviciniamo al Buddhismo come se fosse un diversivo, uno sport o un hobby. Guardiamo alla pratica buddhista come a qualcosa che è piuttosto indipendente dalla nostra vita.

È molto interessante chiedere a persone coinvolte ne

Buddhismo da un po’ di tempo: “Qual è la tua pratica?” Molto spesso la risposta è che la loro pratica consiste in un certo rituale quotidiano, derivante dal fatto che hanno preso un’iniziazione tantrica. Ogni giorno devono recitare qualcosa, e quella è la loro pratica. Magari guardano la cosa perfino da un punto di vista cristiano: “Devo dire le mie preghiere ogni giorno.” E in effetti molti chiamano questi testi rituali le loro “preghiere”. In questo fine settimana abbiamo usato la metafora del dipinto; ora possiamo aggiungere qualche pennellata alla parte del dipinto che ha a che fare con il senso del “ dovrei”, “ dovrei dire le mie preghiere perché voglio essere una brava persona, perché l’ho promesso...” Ed eccoci tutti presi dall’idea di Dio e del guru.

Ora iniziamo a dare piccole pennellate in giro per il quadro. Anche se non svolgiamo alcun tipo di rituale tantrico, forse facciamo delle prostrazioni o qualche altra pratica allo stesso modo. Come dicevo prima, è molto facile che queste cose vengano prese come uno sport, qualcosa di completamente separato dalla nostra realtà interiore. In altre parole, diciamo che svolgiamo le nostre “pratiche” o per un senso del dovere: “qualcosa che dovrei fare perché ho detto che l’avrei fatto”; o come un tipo di sport che non ha alcuna relazione con la nostra vita: “e questa è la mia pratica!”

Si tratta di un modo estremamente sbagliato di avvicinarsi al Buddhismo. Ci sono molte persone che fanno così da moltissimi anni e che, a causa di questa visione erronea, ne traggono solo un beneficio minimo. Ci possono essere dei benefici; certo, non lo nego. Ma non molti in confronto a ciò che potrebbe essere. Quando noi o qualcun altro – in genere si tratta di qualcun altro - diciamo: “La mia pratica è la compassione, la vacuità, l’impermanenza e così via”, a volte le persone possono avere delle strane reazioni. Se la nostra pratica consiste in rituali e qualcuno ci parla così, potremmo pensare che quella persona è pretenziosa e molto orgogliosa e che in qualche modo sta cercando di sminuirci e criticarci perché noi facciamo delle pratiche rituali. In un certo senso, la vediamo quasi come una minaccia.

Ecco che ritorna questo IO solido, racchiuso tra i muri, che recita tutti questi rituali quasi fosse un modo per rinforzare ulteriormente i muri. Ci comportiamo così perché, dall’interno dei muri, non dobbiamo affrontare noi stessi e la nostra vita. Ci teniamo molto occupati con i rituali così che non dobbiamo avere a che fare con gli altri o con noi stessi. Avete presente quelle persone che dal primo momento in cui si svegliano al mattino accendono la radio con la musica e la tengono accesa tutto il giorno, oppure quelle case in cui c’è la televisione costantemente accesa? Al giorno d’oggi molte persone vanno in giro tutto il giorno con le cuffie, sparandosi la musica nelle orecchie. L’effetto, anche se non cosciente, è che non si ritrovano mai a pensare o a stare da soli con se stessi. È un modo strano di affrontare la solitudine ma noi, come persone con uno stile di vita occidentale, sappiamo di cosa si tratta. Il vero risultato di tali abitudini è che siamo distratti dalla possibilità di dare sul serio uno sguardo alla nostra mente e alla nostra vita.

È molto facile riprodurre questo schema anche con la pratica buddhista. Facciamo i rituali o ripetiamo un mantra tutto il giorno, il che è simile ad ascoltare musica per tutto il giorno. Non va veramente a toccare una parte profonda di noi. In altre parole, usiamo quella pratica come fosse un altro muro, un altro strato di quel muro spesso che ci circonda. Anche se la nostra pratica diventa estremamente sofisticata – diciamo che riusciamo a visualizzare per tutto il giorno ogni tipo di cose come mandala e divinità – è molto facile usarla come se fosse un altro muro grazie al quale non ci dobbiamo mettere in gioco nella vita. Credo sia molto importante che la struttura di base della nostra pratica non consista in cose esterne alla nostra vita, cose che pratichiamo per un’ora al giorno o quanto sia. La nostra stessa vita dev’essere la pratica.

Video: Geshe Lhakdor — “Studiare la mente”
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La prima nobile verità — le vere sofferenze

Per fare in modo che la nostra vita diventi la nostra pratica, bisogna tornare alla struttura di base degli insegnamenti del Buddha, le Quattro Nobili Verità, i Quattro Fatti della Vita. È necessario prenderli molto seriamente. La prima di queste verità, come abbiamo detto ieri sera, è “ la vita è difficile”. Si potrebbe dire “Tutto è sofferenza”, ma è un'espressione molto sgradevole. È molto più rilevante dire: “La vita è difficile”.

Il punto è che è necessario affrontare ed accettare il fatto che la vita è difficile. A volte lo neghiamo. Oppure, alzando i muri, diciamo semplicemente in termini teorici: “Sì c’è tutta questa sofferenza”, ma in realtà non applichiamo questo fatto a noi stessi e non lo riconosciamo come vero in relazione alla nostra vita. Siamo troppo preoccupati a cercare la felicità. Più tardi nella giornata di oggi oppure domani, prenderemo in esame l’intera questione della felicità e se sia giusto essere felici quando si è un praticante buddhista. Ecco un altro punto delicato per i praticanti occidentali, un aspetto con il quale abbiamo difficoltà a riconciliarci. Ma lasciamolo da parte per un momento.

Molte persone, in particolare le donne ma non solo, si trovano in situazioni difficili nella vita; ad esempio devono occuparsi dei bambini, delle faccende domestiche ed in più magari devono anche lavorare. A volte hanno anche delle difficoltà con il marito o il compagno perché questi o non aiuta o non riconosce la difficoltà della situazione. Spesso l’uomo trova piuttosto difficile relazionarsi alla donna perché il modo tipico in cui gli uomini rispondono è “Dimmi, qual è il problema?” E poi vogliono aggiustarlo come fosse un tubo rotto. Questo in realtà non è quello che la donna cerca in una situazione del genere. A volte potrebbe solo desiderare che le difficoltà vengano riconosciute, e ricevere un po’ di conforto, non nel senso di “oh, poverina” ma conforto nel senso di sostegno emotivo e comprensione. Questa è una vera pratica della generosità, la prima paramita o atteggiamento lungimirante.

Un altro punto che ha una certa importanza in questo contesto ci viene dal maestro indiano Shantideva che disse, e lo sto parafrasando: “Non si può fare affidamento sugli esseri ordinari perché sono infantili e immaturi, e ci deluderanno sempre”. Grazie Shantideva. Questo è di grande importanza per la situazione in molte case, perché spesso il marito non può davvero offrire il tipo di supporto che la donna vorrebbe. È anche rilevante per la nostra discussione sulla Prima Nobile Verità, perché la situazione di una donna che accudisce la casa e i bambini è solo un esempio di come “ la vita è difficile”. Anche per gli uomini la vita è difficile, sentono la responsabilità di fornire una sicurezza economica alla famiglia e in qualche modo di dover proteggere tutto e tutti. Anche questo è difficile.

Quando parliamo di questa Prima Nobile Verità, come facciamo a parlarne in modo da non negarla ma da riconoscerla come davvero rilevante per noi? Credo che ciò di cui abbiamo bisogno sia di soddisfare, in qualche modo, quest'impulso di ricevere un certo sostegno emotivo e comprensione per il fatto che la nostra vita è difficile e che la vita in generale è difficile.

Rivolgersi ai Tre Gioielli per avere sostegno

La domanda è: a chi dobbiamo rivolgerci per ottenere comprensione e sostegno? Se ci rivolgiamo agli esseri ordinari, questi hanno i loro problemi ed è difficile ricevere sostegno da loro. Questo ci porta all’argomento del rifugio. Il termine “rifugio” non mi piace molto perché dà un’idea di passività. Il mio modo di concepirlo è invece un processo attivo nel quale prendiamo una direzione sicura e positiva nella nostra vita. Se desideriamo rivolgerci a qualcuno che possa davvero sostenerci amorevolmente, allora come buddhisti nel contesto del rifugio ci rivolgiamo ai Tre Gioielli: i Buddha; i loro insegnamenti e conseguimenti, ovvero il Dharma; e la comunità del Sangha.

In occidente abbiamo iniziato ad usare la parola sangha in un modo totalmente non buddhista, equivalente alla congregazione d'una chiesa. La usiamo per riferirci alle persone che frequentano un centro buddhista. Questo non è il significato originale. Comunque, anche se gli altri membri della nostra comunità buddhista non sono oggetti di rifugio, possono tuttavia offrirci una certa solidarietà e riconoscere la realtà che la vita è difficile. La MIA vita è difficile, non solo la vita in generale è difficile.

Per quanto riguarda la Seconda, Terza e Quarta Nobile Verità, queste sono paragonabili al modo tipicamente maschile di risolvere le cose: “Troviamo la causa e risolviamo il problema”, come se si trattasse di aggiustare un tubo. Ma dobbiamo farlo nel contesto di quest'approccio più femminile, che è il riconoscimento e il sostegno [del fatto] che la vita è difficile. È difficile. Sia come uomo che come donna, abbiamo bisogno della combinazione di entrambi. Non dobbiamo pensare che il sesso stabilisca un punto di vista esclusivo.

Come riceviamo questo sostegno? Rivolgersi agli altri membri della nostra comunità buddhista, da una parte, può sembrarci una buona idea. Ma a volte scopriamo che le persone nella nostra comunità non sono molto mature, e quindi tendiamo a giudicarle; tendiamo ad essere chiusi l'uno verso l’altro. In molte delle comunità buddhiste occidentali, le persone si circondano di alti muri perché pensano che in qualche modo debbano dare l’immagine di essere dei santi spiritualmente avanzati. Quindi spesso ci si incontra per una lezione o per qualche rituale o per meditare insieme e poi tutti se ne vanno. Così ci facciamo l’idea che sia questo il significato del praticare in gruppo: semplicemente stare seduti insieme o recitare insieme un mantra, simile al pensare che è questo ciò che significa praticare da soli. In realtà il vero scopo della pratica in un gruppo buddhista è essere amichevoli l'uno con l’altro, essere di aiuto agli altri, avere comprensione ed essere aperti ed amorevoli. Se questo è l’aspetto principale dalla pratica di gruppo, allora possiamo trarre un qualche supporto emotivo l'uno dall’altro considerando che la vita è difficile e che stiamo tutti lavorando su noi stessi nei confini di questa realtà. Restiamo comunque esseri ordinari e a volte è molto difficile riuscire a dare quel tipo di sostegno agli altri.

Se guardiamo all'effettivo rifugio Sangha, questo si riferisce agli esseri arya, coloro che hanno ottenuto la cognizione non concettuale della vacuità. Una bella differenza, no? Anche se tali persone non si sono ancora liberate dalla sofferenza, il loro senso dell’ego è molto più debole e per questo possono offrire molto più facilmente un sostegno a noi. Ma non ci sono molti arya intorno a noi, vero?

Poi forse ci possiamo rivolgere al rifugio nel Buddha per ricevere questo sostegno. Sentiamo che “il Buddha mi capisce; il Buddha capisce le difficoltà della mia vita”. Questo ci dà sicuramente un certo conforto. Questo richiama alla mente la funzione che ha nel Cristianesimo l’affermazione: “ Gesù mi ama”. Se Gesù mi ama, non posso essere così orribile. Più crediamo che Gesù ci ama davvero, più rinforziamo il nostro valore di essere umano, il che ci dà la forza di affrontare la nostra vita. A volte, non ci è sufficiente solo l’amore del nostro cane!

Possiamo trasferire questo stesso tipo di atteggiamento cristiano al Buddha: “il Buddha mi ama, il Buddha mi capisce.” Questo ci dà conforto e sostegno. Ora possiamo dare un’altra pennellata al nostro quadro, dalla parte del maestro spirituale – di nuovo un maestro spirituale qualificato, non chiunque. Ricordo molto bene il mio maestro principale, Serkong Rinpoche. Una delle sue eccezionali qualità era che prendeva tutti sul serio. A prescindere dalle assurde richieste che la gente faceva - ad esempio venne una volta un hippy davvero strano e gli chiese: “Insegnami i sei yoga di Naropa” - non importava quanto strana una persona potesse apparire, lui la prendeva sul serio. Disse: “Fantastico! Hai veramente un interesse per questo meraviglioso insegnamento e se davvero lo vuoi imparare, bene, devi iniziare a preparare te stesso interiormente”. Quindi gli insegnò qualcosa di appropriato al suo livello. Questo funzionò molto bene con quella persona, perché se il maestro l'aveva presa sul serio, anche quella persona avrebbe potuto cominciare a prendersi sul serio.

Si può osservare che “il mio maestro mi capisce e mi ama” funzionerebbe in modo simile a: “il Buddha mi capisce e mi ama”. Spesso però non abbiamo uno stretto contatto personale con un maestro, e nemmeno con il Buddha. Inoltre, i maestri con i quali siamo in contatto a volte non sono perfettamente qualificati. Comunque ci rivolgiamo a loro perché ci sembra un po’ troppo teorico e distante dire: “il Buddha mi capisce” o “il Buddha mi ama”.

Così dobbiamo fare riferimento ad un altro livello del rifugio. Possiamo prendere una direzione sicura non solo nel Buddha, Dharma e Sangha, come una sorta d'ispirazione che ci spinga ad intraprendere il sentiero spirituale; possiamo anche prendere rifugio e direzione sicura nello stadio risultante che noi stessi otterremo seguendo quel sentiero. Questo vuol dire che in via definitiva il sostegno e la comprensione devono venire da noi stessi, perché tutti noi abbiamo i potenziali completi e le abilità, nel contesto della natura di Buddha, per ottenere lo stato della liberazione e dell’illuminazione di Buddha, Dharma e Sangha. Abbiamo inoltre tutti i potenziali per dare questa comprensione e questo sostegno non solo a noi stessi, ma anche agli altri. Credo sia davvero un punto molto importante. Io l’ho trovato di grande importanza nel mio stesso sviluppo.

Shantideva diceva, e anche mia madre lo diceva, “Se vuoi che qualcosa venga fatta bene, allora falla tu stesso. Se chiedi a qualcun altro di farla, non verrà fatta nel modo in cui volevi tu”. La stessa cosa è vera per quanto riguarda ottenere la comprensione, il riconoscimento e il conforto di cui abbiamo bisogno per affrontare la realtà che la vita è difficile. Non c’è nulla di più affidabile che offrire a noi stessi questo sostegno comprendendo noi stessi, accettando la situazione della nostra vita, ed essendo gentili con noi stessi per quanto riguarda quelle circostanze, senza giudicarci in tutto questo processo.

Non giudicare noi stessi

Se giudichiamo noi stessi, tutto ciò che facciamo è aggiungere un’altra pennellata nella parte del dipinto del “Dovrei fare questo e non dovrei fare quest’altro, voglio essere buono e non voglio essere cattivo”. Se abbiamo questo atteggiamento, in effetti stiamo osservando noi stessi dicendoci che “La mia vita è difficile. È perché sono 'cattivo'. C’è qualcosa di sbagliato in me”. Se consideriamo la nostra vita in questo modo critico: “Voglio essere buono, non voglio essere cattivo”, allora stiamo giudicando noi stessi in base alla nostra vita: “La mia vita è difficile. Sto facendo per forza qualcosa di sbagliato, sono cattivo”. Invece di concederci un qualche sostegno emotivo, finisce che ci rimproveriamo e ci puntiamo contro il dito in modo critico. Questo non ci è di alcun aiuto; ci fa solo sentire peggio.

Comunque confortarci solamente non vuol dire trattare noi stessi come dei bambini, e poi non fare nulla per la nostra situazione. È ovvio che quando una donna cerca la comprensione e il conforto del marito, non è questo tutto ciò che desidera. Se lui lavasse anche i piatti, la donna lo apprezzerebbe molto. Allo stesso modo, ci farebbe piacere se qualcuno ci accarezzasse la testa come si fa con un cane, ma desideriamo anche ricevere un aiuto autentico. Funziona allo stesso modo nei confronti di noi stessi. Da una parte dobbiamo essere comprensivi e buoni verso noi stessi, ma poi abbiamo bisogno anche di aggiustare da soli il tubo rotto e fare qualcosa per venire incontro ai nostri bisogni più profondi.

La cosa nel suo insieme è piuttosto complessa. È una materia delicata. Penso ad esempio a coloro che non hanno avuto un’infanzia felice o genitori particolarmente comprensivi. Queste persone spesso sono alla ricerca di un sostituto dei genitori, che sia la madre o il padre. Entrano in delle relazioni e inconsciamente attribuiscono al partner il ruolo della madre o del padre e pretendono che questi dia loro quel tipo di comprensione che non hanno avuto da bambini.

Come ci si comporta con qualcuno che ha questo tipo di problema? Queste sono relazioni piuttosto nevrotiche. Potremmo dire: “Cerca di capire i meccanismi inconsci del tuo comportamento, cerca di capire quanto sei stupido e quanti problemi stai causando a te stesso, e smettila!” È come quando il cane fa i suoi bisogni sul pavimento, a volte le persone ci mettono dentro il naso del cane e dicono “Guarda che disastro hai fatto. Smettila!” Ma non funziona molto bene. Magari può funzionare con il cane, ma non funziona molto bene con noi stessi perché va semplicemente a rinforzare la sensazione di essere una cattiva persona e genera senso di colpa e il desiderio di “Voglio essere una brava ragazza; voglio essere un bravo ragazzo”. Tutti questi atteggiamenti giudicanti girano intorno all’idea di un IO solido.

Riconoscere il nostro diritto

Se ci affidiamo a dei metodi psicologici un po’ più sofisticati, ciò che è di grande aiuto è il nostro riconoscimento che avere un genitore amorevole e comprensivo sarebbe stato un suo diritto. Tutti ne hanno il diritto ed è stata davvero dura per coloro che non l’hanno avuto. Lo psicologo riconosce questo fatto in modo che anche la persona stessa possa ammetterlo ed accettarlo. L’analogia sta nel rendersi conto che la vita è difficile e, in particolare, la nostra vita è difficile e che abbiamo diritto ad essere felici. Abbiamo diritto di diventare un Buddha, perché abbiamo la natura di Buddha.

Sulla base di questo riconoscimento, scopriamo che il nostro bisogno di avere avuto un bravo genitore in genere si trasforma. Viene soddisfatto quando noi stessi diventiamo il bravo genitore di qualcun altro. Posso dire dalla mia esperienza che funziona davvero. Nel riconoscere che la nostra vita è difficile e nel trarre in un certo senso un supporto emotivo da questo riconoscimento, scopriamo che nel fronteggiare le difficoltà della vita, ciò che può guarirci al meglio è donare ad altri il nostro riconoscimento e la nostra comprensione. Più riusciamo a dare questo agli altri in modo molto sincero, più siamo in grado di fronteggiare le difficoltà della nostra vita e, in realtà, scopriamo che quelle difficoltà si fanno molto meno intense. Questo è molto diverso dall'essere un assistente sociale che vuole impulsivamente risolvere i problemi del mondo, andando sempre in giro cercando di fare cose per gli altri, ma senza affrontare mai la propria vita. In genere la vita di questa persona è un caos. Essenzialmente, dipende dal modo in cui diamo rifugio a noi stessi.

Ora per qualche istante ammettiamo la difficoltà della nostra vita, senza esprimere critiche su di essa. Cerchiamo di rendercene conto e basta. Rendersene conto vuol dire ovviamente affrontarla. Non con i muri alzati. Non con qualche pratica esterna che chiamiamo “Il mio Buddhismo”. Questo vuol dire anche farlo in un modo tale per cui non proviamo commiserazione per noi stessi. Come la madre oberata di cose che non vuole che il marito dica: “Oh, poverina...” e provi pena per lei, non vogliamo fare questo neanche verso noi stessi.

Il tipo di riconoscimento di cui sto parlando è qualcosa di molto gentile. È piuttosto come “ essere lì” – se possiamo immaginare questo strano modo di idearlo. È semplicemente un “essere lì” con noi stessi. Se siamo molto ammalati, non vogliamo che qualcuno venga a dirci “Oh, poverino”, trattandoci con condiscendenza. Quello che ci aiuta è qualcuno che non è spaventato dalla nostra malattia e che ha la capacità di sedersi accanto a noi e farci compagnia tenendoci la mano. Sebbene questo modo di concepire sia l'opposto della comprensione della vacuità, a un livello emotivo quello di cui abbiamo bisogno è tenere la nostra stessa mano, senza avere paura e senza sentire in qualche modo di dover mostrare platealmente la nostra comprensione o autocommiserazione. Proviamo a farlo.

[pausa]

Nutrire il demone

Svolgere questa pratica in modo astratto come ora descritto può presentare delle difficoltà; proviamo quindi a praticare nella maniera di “nutrire il demone”. Possiamo guardare ai nostri vari problemi come se fossero dei demoni al nostro interno. Possiamo quindi provare ad osservare le sensazioni che nascono in noi, dovute all’aspetto ed alle qualità del demone, ad esempio di questo demone che cerca un po’ di comprensione: “La mia vita è così difficile: Ho così tante responsabilità. Ho così tante cose da fare. Non ho abbastanza tempo, non ho abbastanza energia, non ho abbastanza sostegno...”

Per cominciare, ci domandiamo qual è l’aspetto di questo demone. Quando ci siamo fatti un’idea della sua immagine, lo facciamo uscire fuori da noi stessi e lo facciamo sedere su un cuscino di fronte a noi. Poi gli chiediamo: “Cosa vuoi?” Possiamo quindi andarci a sedere sul cuscino oppure solo immaginare di farlo: “Voglio comprensione. Voglio sostegno. Voglio che le difficoltà della mia vita vengano riconosciute”. Poi dal posto in cui siamo seduti, immaginiamo di nutrire il demone. Diamo al demone sostegno, comprensione, riconoscimento privo di critiche, tutto ciò che vuole.

Facendo così, scopriamo che è un metodo molto più efficace per aiutare noi stessi, invece di stare semplicemente lì seduti cercando di farlo in modo astratto. Nutrire il demone è molto utile anche nel senso che ci allena a dare comprensione agli altri. Lentamente, incominciamo a capire che offrendo comprensione e cura agli altri, cercando di essere un bravo genitore per qualcun altro, daremo inizio al nostro stesso processo di guarigione. Funziona nello stesso modo. Così come dare comprensione al demone vuol dire curare noi stessi, allo stesso modo anche dare sostegno agli altri guarirà noi stessi.

Ora per qualche momento diamo questa comprensione e riconoscimento al demone – che la vita è dura anche per il demone ed è questo che mi sta consumando dentro. Fate questo processo cominciando dall'inizio, ovvero comprendendo questo nostro bisogno interiore, facendolo uscire all'esterno e nutrendolo. Date al demone al vostro interno quello di cui ha bisogno e che vuole.

[pausa]

Adesso pensate a persone che fanno parte della vostra vita e concedete loro la stessa comprensione e riconoscimento delle difficoltà della loro vita. Che siano malate o anziane o appesantite dal troppo lavoro, qualunque cosa sia, riconoscetelo, accettatelo e date loro sostegno. Questo include le persone con difficoltà emotive, quelli che sono sempre arrabbiati o che si comportano sempre male con le altre persone. Ammettete che anche la loro vita è difficile. Nutrite queste persone, così come avete fatto con il demone. Immaginate di avere una scorta infinita di quello che l’altra persona vuole, così come avete una scorta infinita di quello che il demone vuole.

Lasciando che una scorta infinita di questa comprensione e accettazione passi attraverso di noi e giunga all’altra persona, potremo essere generosi in un modo che non ci turba. Se ne siamo turbati, sentiamo che: “Oh, devo fare qualcosa in questa situazione difficile, ma non posso fare niente. Sono impotente. Sono senza speranza. Com’è tremenda tutta questa situazione...” Quindi siamo emotivamente turbati da tutta la faccenda. Invece, lasciamo semplicemente che la generosità scorra da noi come un infinito flusso di acqua rinfrescante.

Questo è un po' simile alle visualizzazioni in cui immaginiamo il nettare che fluisce dal Buddha verso di noi. È una cosa simile ma ad un livello più semplice. Possiamo lasciare che questo flusso scorra per tutto il tempo necessario. Non c’è pericolo che si asciughi; semplicemente scorre verso gli altri per rinfrescarli e risollevarli. Senza sforzo, semplicemente scorre. Come facciamo a farlo scorrere? Abbassiamo i muri! Non c’è niente di cui aver paura, non c’è niente da perdere.

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