Malintesi comuni sul Buddhismo

Vi sono molti malintesi riguardo al Buddhismo che nascono per diverse ragioni. Alcuni sono specifici di una cultura, di quella occidentale oppure della cultura asiatica e di altre culture che sono influenzate dal pensiero occidentale moderno. Alcuni derivano da altre aree culturali, come il pensiero tradizionale cinese. Vi possono essere malintesi che sorgono in maniera più generale, a causa delle emozioni disturbanti delle persone. Vi possono essere anche fraintendimenti che sono dovuti solamente al fatto che la materia sia difficile da comprendere. Alcune incomprensioni possono nascere anche perché i maestri non spiegano le cose in modo chiaro, oppure non spiegano alcune cose, e questo fa sì che noi sovrapponiamo sugli insegnamenti ciò che noi pensiamo significhino. Può anche accadere che i maestri stessi fraintendano gli insegnamenti, poiché non tutti i maestri sono pienamente qualificati: molti sono mandati ad insegnare o gli viene chiesto di insegnare prima di aver raggiunto la qualifica. Inoltre, anche se i maestri spiegano le cose in modo chiaro, potremmo non ascoltare bene, oppure, dopo l'insegnamento, potremmo non ricordare le cose correttamente. Oppure, prendiamo male gli appunti e magari non li rileggiamo neanche più. Sebbene ci siano così tanti fraintendimenti che sorgono in questi modi, proviamo a chiarirne alcuni tra quelli più comuni su certi argomenti generali, nonostante moltissimi altri potrebbero essere discussi.

Malintesi generali sul Buddhismo stesso

Pensare che il Buddhismo sia pessimista

Il primo insegnamento che diede il Buddha fu quello delle quattro nobili verità, tra cui la prima è quella delle “vere sofferenze”. Sia che parliamo dell’infelicità, delle nostre forme comuni di felicità o dell’esperienza onnipervasiva di rinascite che ricorrono in modo incontrollabile, tutte queste sono sofferenza. “Sofferenza” è una parola piuttosto forte in inglese [e in italiano, N.d.R.]: qui vuol dire che tutti questi stati sono problematici e insoddisfacenti, e poiché tutti vogliono essere felici e nessuno vuole essere infelice, abbiamo bisogno di superare i nostri problemi della vita.

È un fraintendimento se pensiamo che il Buddhismo affermi: “C’è qualcosa di sbagliato nell’essere felice”. Il punto è che le nostre forme ordinarie di felicità hanno dei difetti: non durano, non ci soddisfano e quando finiscono ne vogliamo sempre di più. Se abbiamo troppo di qualcosa che ci piace, come il nostro cibo preferito, ce ne stanchiamo e non vogliamo mangiarne più. Il Buddhismo così ci insegna a puntare alla felicità che giunge dall’essere liberi da tutte queste situazioni insoddisfacenti. Ciò non significa che lo scopo supremo sia il non sentire alcunché; significa che ci sono vari tipi di felicità e ciò che normalmente sperimentiamo, sebbene sia meglio dell’infelicità, non è il livello più ampio della felicità che possiamo sperimentare.

Pensare che l’impermanenza abbia solo una connotazione negativa

È un malinteso pensare all’impermanenza applicandola solo alla nostra felicità ordinaria, pensando che finirà e che diventerà insoddisfazione e infelicità. l’impermanenza implica anche che qualunque periodo specifico di infelicità nella nostra vita volgerà anch’esso al termine, lasciando aperte la possibilità di guarigione e di trarre vantaggio da nuove opportunità per migliorare la situazione della nostra vita. Il Buddhismo offre quindi un immenso numero di metodi per cambiare le nostre attitudini e prospettive nella vita e, infine, per raggiungere la liberazione e l’illuminazione. Anche tutti questi cambiamenti derivano dal principio di base dell’impermanenza.

Pensare che il Buddhismo sia una forma di nichilismo

Il Buddha insegnò che la vera causa dei problemi della vita di ciascuno di noi è la nostra inconsapevolezza (ignoranza) della realtà: di come noi, gli altri, e tutto esista. Il Buddha insegnò la vacuità come antidoto a questa confusione. È un malinteso pensare che questa vacuità sia una forma di nichilismo e che il Buddha insegnò che non esiste nulla (tu non esisti, gli altri non esistono e i tuoi problemi non esistono), e che quindi la soluzione dei nostri problemi consista nel realizzare che nulla esiste.

La vacuità non si riferisce affatto a questo. Proiettiamo sulla realtà ogni sorta di modi impossibili in cui le cose esistono, per esempio che siano isolate e indipendenti da tutto il resto. Siamo inconsapevoli del fatto che tutto sia correlato e interdipendente da tutto il resto in un modo olistico e organico. La nostra confusione abituale rispetto a questo fa sì che alle nostre menti le cose appaiano esistere in modi impossibili, come questo sito web che sembra esistere così com’è, tutto da solo, in modo indipendente dalle decine di migliaia di ore di lavoro delle più di cento persone che l’hanno creato. Questo modo impossibile d’esistenza non corrisponde a nulla di reale. La vacuità è la totale assenza di qualunque referente effettivo che corrisponda alla nostra proiezione di modi d’esistenza impossibili. Nulla esiste da solo, ma ciò non significa che non esiste nulla.

Malintesi sull’etica e i voti

Pensare che l’etica buddhista sia basata su giudizi morali di giusto e sbagliato

Per quanto riguarda l’etica e anche molti altri casi, i malintesi possono spesso sorgere a causa di traduzioni di termini fuorvianti, per cui attribuiamo concetti non buddhisti agli insegnamenti. Potremmo usare, per esempio, una terminologia connotata dalle nostre tradizioni bibliche come virtuoso, non virtuoso, merito e peccato. Questo tipo di parole attribuiscono agli insegnamenti di etica buddhista l’idea di giudizio morale e di colpa: alcune cose sono virtuose, nel senso di buone e appropriate, siamo brave persone se ci comportiamo in quel modo e accumuliamo merito, come fosse una sorta di ricompensa. Se agiamo in modo non virtuoso, non da santi, allora siamo cattivi e accumuliamo peccati, a causa dei quali dobbiamo soffrire. Questa è una chiara proiezione della moralità biblica sull’etica buddhista.

L’etica buddhista è fondamentalmente basata sullo sviluppo della consapevolezza discriminante: bisogna imparare a distinguere tra ciò che è costruttivo e ciò che è distruttivo, ciò che è di beneficio e ciò che è dannoso. Comprendendo questo dovremmo astenerci dal comportamento dannoso e distruttivo.

Pensare che l’etica buddhista si basi sull’obbedienza a delle leggi

Poi è un malinteso considerare che l’etica buddhista sia basata sull’obbedienza a delle leggi piuttosto che sulla consapevolezza discriminante. In alcune culture le persone prendono molto sul serio le leggi e si mostrano alquanto inflessibili; non vogliono infrangere la legge. Al contrario i tibetani sono molto più rilassati per quanto riguarda le linee guida dell’etica. Questo non vuol dire che le trascurino, ma che in determinate situazioni bisogna usare la propria consapevolezza discriminante nel modo in cui si applicano le linee guida, perché ciò che qui stiamo cercando di distinguere è se stiamo agendo sotto l’influenza di un’emozione disturbante o se c’è una ragione costruttiva nel modo in cui ci comportiamo.

Pensare che i voti siano leggi con possibili scappatoie

All'estremo opposto possiamo osservare i voti proprio come farebbe un avvocato. Cerchiamo delle scappatoie nella presentazione del karma per trovare delle scuse al comportamento distruttivo o per compromettere e sminuire un voto. Ad esempio potremmo prendere un voto per evitare il comportamento sessuale inappropriato e poi affermare che fare sesso orale va bene perché è un’espressione di amore: ci giustifichiamo perché questa forma di comportamento sessuale ci piace. Oppure, dopo aver preso un voto per non assumere più alcol, affermiamo che bere del vino a tavola con i nostri genitori per non offenderli va bene, oppure che va bene bere occasionalmente se non ci si ubriaca: ci inventiamo questo tipo di scuse per cercare di aggirare un voto.

Il punto è che se si prende un voto, lo si prende integralmente non lo si prende in parte. Questo è il modo in cui viene precisato il voto. Se non riusciamo a mantenere tutti i dettagli dei voti o di un voto in particolare, come precisato nei testi, allora non prendetelo. Non c’è l’obbligo di prendere un voto.

C’è un’alternativa. Nell’abhidharma, quando si parla dei voti, ci sono tre categorie: c’è un voto in cui si promette fondamentalmente di astenersi da ciò che è distruttivo. Poi c’è qualcosa molto difficile da tradurre, letteralmente un anti-voto. È un voto nel quale non ci si astiene dal fare qualcosa di distruttivo, ad esempio, dall'uccidere. Se entri nell’esercito, per esempio, potresti giurare di non astenerti dallo sparare quando il nemico attacca. E poi c’è qualcosa che è una via di mezzo: astenersi solo da una parte di ciò che è specificato in un voto.

Potremmo qui applicare proprio questa categoria intermedia. Per esempio, se consideriamo il voto dei laici rispetto all’evitare comportamenti sessuali scorretti e pensiamo che ci sono parti del voto che non possiamo proprio mantenere, potremmo promettere soltanto di non avere rapporti con il partner di qualcun altro/a e di non usare la violenza nel sesso, come stuprare o forzare qualcuno a fare sesso. Fare una promessa del genere in effetti non corrisponde al voto così come precisato nel testo. Ma è molto più positivo, fa accumulare forza positiva (preferisco forza positiva a meritoforza negativa a peccato)Quindi fa accumulare più forza positiva nel nostro continuum mentale rispetto al solo astenersi da quel tipo di comportamento. Quindi questo non compromette il voto e allo stesso tempo continua ad essere una forma molto forte di pratica etica.

Pensare che l’etica buddhista sia umanistica: evita soltanto di danneggiare gli altri

Una delle ragioni principali per la quale molti di noi vorrebbero saltare gli insegnamenti dell’ambito iniziale è questa: noi pensiamo che la rinascita non esista. Dopotutto l'enfasi nell’ambito iniziale è di evitare le rinascite inferiori; è per questo che prendiamo rifugio (diamo una direzione positiva alla nostra vita) e seguiamo le leggi del karma per evitare il comportamento distruttivo, perché ci porta [ad avere] rinascite inferiori. Lo evitiamo oppure lo sminuiamo perché non crediamo alla rinascita. E soprattutto, di certo non crediamo ai reami infernali e ai reami degli spiriti afferranti (spiriti famelici) e agli dèi e semi-dèi. Pensiamo che non esistano veramente, e che le descrizioni che si trovano nei testi di Dharma si riferiscano semplicemente a stati psicologici degli esseri umani. Questa è davvero un’ingiustizia nei confronti degli insegnamenti ed è un grande fraintendimento.

Malintesi sulla rinascita

Poiché non consideriamo le rinascite, non lavoriamo sul nostro comportamento distruttivo e sulle emozioni disturbanti

Quest'idea errata che l’etica buddhista sia umanistica - semplicemente non danneggiare gli altri - spesso sembra provenire da un’enfasi prematura data alla pratica mahayana, pensando di poter saltare a piè pari gli stadi iniziali e intermedi del lam-rim. Il “lam-rim” si riferisce agli stadi graduali del sentiero per l’illuminazione. Il livello iniziale di motivazione consiste nell’evitare rinascite peggiori. Beh, non crediamo nemmeno nella rinascita. Il livello intermedio consiste nell’evitare tutto il ciclo di rinascite che ricorrono in modo incontrollabile. Beh, non crediamo ancora nella rinascita, quindi la cosa non ci appare davvero importante; e pensiamo di saltarla. Siamo invece attratti dagli insegnamenti mahayana perché, sotto molti aspetti, assomigliano molto ad alcuni [insegnamenti] della nostra tradizione occidentale sull'amore, la compassione, la generosità, la tolleranza, la generosità, la carità e così via. Questo ci sembra molto bello e ne siamo attratti, trascurando o minimizzando l’importanza di quei due ambiti iniziali.

Così facendo trascuriamo anche una parte importante dei loro contenuti, quella in cui si lavora per superare il nostro comportamento distruttivo, così come le emozioni e le attitudini disturbanti perché sono distruttive per noi stessi. Semplicemente ci buttiamo cercando di aiutare gli altri: questo è un errore. Anche se è importante porre l’accento sul mahayana, questo dev’essere fatto sulla base degli ambiti iniziali e intermedi: dobbiamo prima lavorare sui nostri comportamenti distruttivi e sulle emozioni disturbanti, in quanto interferiscono molto con il nostro tentativo di aiutare gli altri.

Non considerare seriamente le rinascite

Una delle ragioni principali per la quale molti di noi vorrebbero saltare gli insegnamenti dell’ambito iniziale è questa: noi pensiamo che la rinascita non esista. Dopotutto l'enfasi nell’ambito iniziale è di evitare le rinascite inferiori; è per questo che prendiamo rifugio (diamo una direzione positiva alla nostra vita) e seguiamo le leggi del karma per evitare il comportamento distruttivo, perché ci porta [ad avere] rinascite inferiori. Lo evitiamo oppure lo sminuiamo perché non crediamo alla rinascita. E soprattutto, di certo non crediamo ai reami infernali e ai reami degli spiriti afferranti (spiriti famelici) e agli dèi e semi-dèi. Pensiamo che non esistano veramente, e che le descrizioni che si trovano nei testi di Dharma si riferiscano semplicemente a stati psicologici degli esseri umani. Questa è davvero un’ingiustizia nei confronti degli insegnamenti ed è un grande fraintendimento.

Video: Khandro Rinpoche — “L'inferno nel Buddhismo”
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Non considerare seriamente le rinascite in forme di vita non umane e non animali

Non voglio qui addentrarmi in molti dettagli, ma se pensiamo ad una mente, ad un continuum mentale che sia il nostro o quello di chiunque altro, non c’è alcuna ragione per cui non possa sperimentare l’intera gamma di felicità ed infelicità, piacere e sofferenza e non soltanto una parte limitata di questa gamma che è definita dai parametri del corpo e della mente di un essere umano. Dopo tutto, questo avviene con i diversi tipi di percezioni sensoriali. Alcuni animali hanno maggiori capacità visive degli esseri umani, altri di loro sentono meglio e così via. Allora perché i confini di ciò che possiamo provare in termini di felicità, infelicità, piacere e dolore non possono essere anch’essi estesi ed avere un’appropriata forma fisica come base, come quella di un corpo infernale o di una divinità?

Ridurre le altre forme di vita a meri stati psicologici umani

Sebbene nella presentazione del karma si dica che in una vita umana possiamo avere delle ripercussioni, dei residui di vite precedenti trascorse in altri reami - ovvero sperimentiamo cose simili a ciò che abbiamo provato in quelle vite - ciononostante, questo non vuol dire che possiamo ridurre la discussione sulle forme di vita che noi e gli altri possiamo assumere semplicemente a stati psicologici umani: questo significa imbrogliare sul significato degli insegnamenti.

Pensare che il karma non abbia senso, poiché lo limitiamo a una vita soltanto

Dal momento che non accettiamo la rinascita e questi altri stati di esistenza, fraintendiamo il karma ritenendo che esso descriva solo le conseguenze delle nostre azioni che accadranno in questa vita. Questo limite causa molti dubbi sugli insegnamenti relativi al karma. Dopotutto ci sono grandi criminali che sembrano farla franca, che non vengono mai catturati, mentre noi potremmo provare ogni genere di cose orribili nel corso della nostra vita, come morire di cancro, senza aver compiuto nessuna azione eccezionalmente distruttiva. Se limitiamo la nostra discussione o la nostra visione soltanto a questa vita, il karma non sembra avere nessun senso.

Malintesi sul Dharma

Rimuovere dal Buddhismo le parti che non ci piacciono

Tutto ciò sottolinea un problema molto più ampio, un malinteso molto più grande relativo al Dharma, e cioè pensare che possiamo prendere dagli insegnamenti solo ciò che ci piace, scartando o ignorando quello che abbiamo difficoltà ad accettare: il cosiddetto Buddhismo “depurato”. Lo depuriamo o ripuliamo da tutte le cose difficili.

Quando ascoltiamo tutte quelle storie sul karma con elefanti che vanno sotto terra e defecano oro, e tutte quelle altre cose, pensiamo: “ma via! sono favole per bambini!”. Non riusciamo a vedere che contengono degli insegnamenti. Sia che le prendiamo a livello letterale (come fanno alcuni tibetani) o meno, non è questo il punto. Il punto è non rifiutarle: fanno parte degli insegnamenti. Un altro esempio si trova nei sutra mahayana, in cui i Buddha insegnano a centinaia di milioni di esseri, e ci sono centinaia di milioni di Buddha presenti; e in ciascun poro di un Buddha ce ne sono altri cento milioni, e così via. Ci sentiamo spesso imbarazzati per queste cose e diciamo “È troppo strano”. Non le accettiamo come parte del Dharma.

Qui il problema è prendere e scegliere le parti del Buddhismo che ci piacciono. Ci sono certi voti tantrici e del bodhisattva che sono contrari all’abbandonare alcuni insegnamenti buddhisti o all’asserire che non siano autentici; in altre parole al prendere solo delle parti di insegnamenti ignorandone altre, prendendo solo quello che ci piace. Se accettiamo il Buddhismo come nostro sentiero spirituale, come minimo dobbiamo restare abbastanza aperti da dire: “questo insegnamento non lo capisco,” anche se ci suona molto strano, e “per ora sospendo il mio giudizio, fino a quanto non otterrò una comprensione e una spiegazione più profonda”. È importante non chiudere la nostra mente ed escluderli.

Pensare che sarà facile assumere una preziosa rinascita umana

Perfino se accettiamo la rinascita, un altro fraintendimento consiste nel pensare che ottenere nuovamente una preziosa rinascita umana sia facile. Spesso pensiamo: “Sì, sì, credo alla rinascita, naturalmente rinascerò ancora come essere umano e naturalmente continuerò ad avere tutte le opportunità per continuare a praticare”, e così via. Questo è molto ingenuo, molto, molto ingenuo. Soprattutto se pensiamo alla quantità di comportamenti distruttivi che abbiamo compiuto, alla quantità di tempo che abbiamo passato sotto l’influenza di emozioni disturbanti: collera, avidità, egoismo, ecc., paragonata alla quantità di tempo in cui abbiamo agito per puro amore e compassione, risulta molto chiaro che sarà estremamente difficile ottenere di nuovo una preziosa rinascita umana.

Mirare a una preziosa rinascita umana per poter continuare a essere vicini ai propri cari

Un altro errore è che a causa dell’attaccamento ai nostri amici e alla famiglia, desideriamo ardentemente ottenere una preziosa rinascita umana per continuare a stare con loro. Oppure pensiamo semplicemente che se otterremo di nuovo una preziosa rinascita umana, incontreremo di nuovo tutti gli amici e parenti e le persone amate. Anche questo è un malinteso. Ci sono infinite forme di vita ed esseri viventi: a seconda di ciascuna delle nostre storie karmiche rinasceremo tutti in situazioni differenti. Quindi non c’è proprio nessuna garanzia rispetto a come rinasceremo o a chi incontreremo nelle nostre prossime vite. Infatti ci sono molte più possibilità che trascorra un tempo molto lungo prima di poter rincontrare qualcuno di questa vita. Può succedere, non è una cosa impossibile. Ma è un malinteso pensare che sia facile o garantito.

Malintesi sul karma

Pensare che siamo cattivi e che ci meritiamo la maturazione dei nostri potenziali karmici negativi

Un altro punto relativo al karma e alla rinascita è il seguente: anche se accettiamo il fatto che la sofferenza in questa vita sia la maturazione di potenziale karmico negativo accumulato nelle vite passate, potremmo pensare: “Se sto soffrendo, se mi succede qualcosa di brutto, me lo merito”. Oppure: “Te lo meriti, se succede a te”. Qui il malinteso consiste nel pensare vi sia un “io” solidamente esistente che ha infranto la legge, è colpevole e cattivo, e ora riceve la punizione che si merita. Diamo quindi la colpa all' “io”, a questo “io” solido che è così cattivo e che ora viene punito, perché fraintendiamo le leggi del karma, la causa ed effetto del comportamento.

Pensare di essere responsabili della maturazione del karma altrui

Poi espandiamo questo concetto di senso di colpa al nostro ruolo nella maturazione del karma altrui: non notiamo che ci sono molti fattori e circostanze implicate nello sperimentare la maturazione del karma e ciascuno di questi ha le sue cause. È un malinteso pensare di essere la causa della maturazione del karma delle altre persone. Ciò che sperimentano sorge in base a tutti questi fattori, non soltanto da me.

Vi faccio un esempio: immaginiamo di essere investiti da una macchina. Non è per via di quello che ho fatto in una vita precedente che fa in modo che l'altra persona mi investa. Se pensiamo: “Sono responsabile in modo karmico del fatto che mi abbia investito”, non è corretto. Ciò di cui siamo responsabili in modo karmico è la nostra esperienza di essere investiti. Il karma dell’altra persona è invece responsabile del fatto che questa ci abbia investito con la macchina. Similmente, quello che ci accade è il risultato dell’interazione di moltissimi fattori karmici differenti, così come di emozioni disturbanti e di fattori generali, come il tempo: stava piovendo, la strada era scivolosa, ecc. Tutti questi fattori operano insieme in una rete fornendo una circostanza in cui proviamo sofferenza o problemi.

Malintesi sui guru

Ignorare che il guru debba essere qualificato e ci debba ispirare

Ora parliamo dei guru, credo che questo argomento sia una grande fonte di malintesi, non solo tra gli occidentali. Prima di tutto grazie all’importanza che viene data al guru, tendiamo a trascurare il fatto che il guru debba essere qualificato: ci sono liste di queste qualifiche. Anche se il guru è qualificato, abbiamo bisogno di sentirci ispirati da questa persona.

Una delle ragioni principali dell’importanza del maestro spirituale è che il maestro è per noi fonte di ispirazione, di energia per praticare, è il modello che vogliamo seguire. Le informazioni possiamo trarle dai libri, da internet e così via. Naturalmente il maestro deve rispondere alle nostre domande, e deve anche essere in grado di correggerci quando facciamo errori nella nostra pratica meditativa. Ma se la persona non ci ispira, non potremo andare molto lontano.

Accettare qualcuno come il nostro guru senza un previo esame appropriato

A causa di questo malinteso rispetto al fatto che debbano essere veramente qualificati e che debbano ispirarci davvero, abbiamo fretta di accettare qualcuno come nostro guru, senza prima esaminare lui o lei pienamente o nel modo appropriato. Ci sentiamo sotto pressione a causa dell’enfasi: “Devi avere un guru; devi avere un guru”. Così rischiamo di essere delusi quando più tardi vedremo in maniera obiettiva che lui o lei hanno dei difetti: non li avevamo esaminati nel modo appropriato. Questo è un grosso problema, perché molti sono gli scandali nati intorno a maestri spirituali che sono stati accusati a torto o a ragione di comportamento improprio. A volte le accuse sono giuste: non erano veramente qualificati e potremmo esserci sentiti pressati da questa enfasi sul guru ad accettare questa persona come il nostro guru. Poi quando apprendiamo di questi scandali in cui sono coinvolti i nostri guru ne siamo devastati.

Pensare che tutti i tibetani, soprattutto i monaci e quelli che hanno titoli, siano buddhisti perfetti

Oltre a questo, è un malinteso pensare che tutti i tibetani, o in maniera più limitata tutti i monaci e monache o, in modo ancora più limitato, tutti i Rinpoche, i Ghesce e i Kenpo siano esempi perfetti della pratica buddhista. Questo è un malinteso molto comune. Pensiamo che “devono essere dei buddhisti perfetti, sono tibetani”, o “buddhisti perfetti, indossano l’abito monacale” o “buddhisti perfetti, hanno il titolo di Rinpoche. Devono essere degli esseri illuminati”. Questo è molto ingenuo; la maggior parte di loro sono solo persone normali.

Probabilmente tra i tibetani c’è una proporzione più ampia di praticanti buddhisti rispetto alla maggior parte delle altre società e ci possono essere determinati valori buddhisti che fanno parte della loro cultura; ma questo non vuol dire che sono tutti perfetti, in nessun modo. Se uno diventa monaco o monaca, le ragioni possono essere molte. Tra i tibetani, può darsi che la famiglia lo abbia messo in monastero da bambino perché non aveva di che nutrirlo, mentre lì avrebbe ricevuto cibo e istruzione. Oppure la ragione potrebbe essere una motivazione più personale, magari la persona ha dei problemi e ha bisogno della disciplina della vita monastica per superarli.

Come disse uno dei miei amici rinpoche, “Il fatto che indosso la veste monastica è un segno che ho veramente bisogno di questa disciplina perché sono una persona davvero indisciplinata, ho molte emozioni disturbanti e mi sto impegnando con tutti i miei sforzi per superarle”. Questo non vuol dire che le abbiano già superate. Così non dovremmo pensare ingenuamente che sono tutti illuminati, specialmente per quanto riguarda i rinpoche e così via. Come dice sempre Sua Santità il Dalai Lama: affidarsi solo al nome di un predecessore famoso è un grande errore. Sottolinea il fatto che quei rinpoche in questa vita devono dimostrare e provare le loro qualità, non affidandosi semplicemente alla reputazione del loro nome.

Non rispettare i monaci e le monache, e fare in modo che servano la gente comune

Dall’altro lato è un malinteso non rispettare e non sostenere i monaci e le monache e ridurli a servi della gente [che frequenta] i centri di Dharma. Accade spesso che ci siano centri di Dharma con un monaco o una monaca residenti. Questo monaco o monaca deve pulire il centro, riordinare ed organizzare tutto per gli insegnamenti e raccogliere le quote, ecc. Se si tratta di un centro residenziale devono occuparsi delle stanze e di cose di questo genere quando ci sono i corsi di fine settimana, senza poter partecipare agli insegnamenti perché troppo indaffarati. È come se le persone comuni pensassero che questi monaci siano i loro servitori.

Dovrebbe essere il contrario. In quanto monaci o monache meritano rispetto, a prescindere dal livello della loro etica. È parte degli insegnamenti relativi alla direzione sicura o al rifugio nel Sangha: uno rispetta perfino l’abito monastico. Ciò non vuol dire pensare ingenuamente che siano perfetti, tuttavia bisogna mostrare un certo rispetto.

Immaginare che il guru sia letteralmente un Buddha infallibile, abbandonando ogni responsabilità per la nostra vita

Vi è poi un grosso malinteso circa la cosiddetta devozione al guru. Penso che questa non sia una traduzione molto utile, perché sembra implicare quasi una venerazione cieca al guru, come in un culto. Questo è un grande fraintendimento. La parola che viene usata per riferirsi alla relazione con il maestro spirituale vuol dire affidarsi e riporre fiducia nel maestro spirituale così come faremmo affidamento ed avremmo fiducia in un medico qualificato. Lo stesso termine viene usato sia per la relazione con il nostro medico, che con il nostro guru. Ma a causa dell’istruzione secondo cui il guru deve essere visto come un Buddha, pensiamo erroneamente che il maestro sia infallibile e che quindi la nostra obbedienza nei suoi confronti debba essere assoluta, come in un culto. Questo è un errore. A causa di questo rinunciamo a tutte le nostre capacità critiche e alla responsabilità verso noi stessi, diventando dipendenti e chiedendo spesso che ci vengano fatti dei mo (mo, divinazione con i dadi); i dadi vengono lanciati e prenderanno tutte le decisioni che ci riguardano al posto nostro.

Aspiriamo a diventare noi stessi dei Buddha, a sviluppare la consapevolezza discriminante per essere in grado di prendere noi stessi decisioni intelligenti e compassionevoli. Quindi se un insegnante ha il solo scopo di renderci dipendenti da lui o lei, come in un delirio di onnipotenza, c’è qualcosa di sbagliato. È un errore pensare che ciò vada bene e consentire queste cose. Giocare con questo tipo di potere e sindrome da controllo con un insegnante vuol dire non seguire le linee di condotta in modo appropriato.

Proiettare sul guru il ruolo di terapista o di pastore

È un malinteso anche attribuire a un maestro buddhista il ruolo di pastore o di terapista, con cui discutiamo dei nostri problemi personali e a cui chiediamo consiglio. Non è questo il ruolo di un maestro spirituale buddhista. Un maestro spirituale buddhista tradizionalmente offre insegnamenti, poi sta a noi capire come applicarli. In realtà l’unica cosa appropriata consiste nel fare domande sulla comprensione degli insegnamenti e sulla nostra pratica meditativa.

Se abbiamo dei problemi psicologici bisogna andare da uno psicoterapeuta, non dal maestro spirituale. Soprattutto, la cosa più inappropriata da fare è parlare di problemi coniugali, di coppia o sessuali con un monaco o una monaca. Sono celibi, non si occupano di queste cose, non sono le persone a cui rivolgersi per questo tipo di problemi. Ma provenendo da tradizioni di pastori, preti e rabbini ci aspettiamo che assumano questa generica funzione pastorale di guidarci attraverso i momenti difficili delle nostre vite personali.

Vi faccio un esempio: ho passato nove anni con il mio maestro spirituale Tsenciab Serkong Rinpoche, in cui eravamo molto vicini per la maggior parte del tempo, tutto il giorno. Nel corso di questi nove anni non mi fece mai una domanda personale. Mai. Sulla mia vita personale, sulla mia famiglia, sulle mie origini. Niente. Ogni giorno mi dava insegnamenti o lavoravo con lui per beneficiare gli altri: traducevo per lui, organizzavo i suoi viaggi o qualunque altra cosa. Era un tipo di relazione molto diversa rispetto a quelle a cui siamo abituati in occidente e non una che sia facile da capire per noi.

Sminuire la presa del rifugio, dare una direzione sicura alla nostra vita

Il tema della relazione con il maestro ci porta all’argomento del rifugio, che a me piace chiamare “direzione sicura”. Significa dare una direzione sicura alla nostra vita, come indicata dal Buddha, dal Dharma e dal Sangha. È un fraintendimento rendere insignificante il rifugio considerandolo come l’adesione ad un club. Ci si taglia un ciuffetto di capelli, si indossa un cordino rosso al collo, si prende un nome tibetano ed eccoci nel club. Questo è un problema soprattutto quando, a causa dello specifico lignaggio tibetano del maestro, consideriamo questo club al quale ci siamo uniti come uno specifico lignaggio del Buddhismo tibetano, piuttosto che del Buddhismo in generale: “Ora sono diventato un Gelugpa”. “Ora sono diventato un Karma Kagyu”. “Ora sono diventato un Nyingma”. “Ora sono diventato un Sakya”. Piuttosto che: “Ora sto seguendo il sentiero del Buddha”. A causa di questo malinteso diventiamo settari, esclusivisti ed evitiamo di frequentare un centro di Dharma differente dal nostro. È davvero interessante come la maggior parte dei praticanti buddhisti occidentali frequentino un solo centro di Dharma e non mettano mai piede in nessun altro centro.

Ogni maestro che viene in occidente deve stabilire il proprio centro di Dharma o la propria organizzazione

Ciò che disorienta ancor di più è che ogni maestro tradizionale che arriva in occidente sembra voler fondare un proprio centro di Dharma e la propria organizzazione. Questo è un grande errore, io penso, perché poi la situazione diventa insostenibile. Non si possono sostenere 400 differenti tipi di Buddhismo in modo indefinito in futuro. Inoltre ciò causa molta confusione ai nuovi studenti. È anche un notevole salasso finanziario e un peso mantenere tutti questi luoghi con i loro altari, le biblioteche, pagando l’affitto e così via. In Tibet, anche se arrivarono molti maestri dall’India e dal Nepal e furono fondati molti monasteri differenti, infine si riunirono formando gruppi distinti. Non erano gli stessi gruppi che c’erano in India - non c’erano i Kagyu o i Sakya in India - ma si amalgamarono in gruppi che divennero sostenibili e unirono vari lignaggi.

Quindi anche se in occidente ci sono delle grandi organizzazioni di Dharma, come quelle fondate da Trungpa Rinpoche, Sogyal Rinpoche, da Lama Yeshe e Lama Zopa ecc., bisogna pensare a gruppi che si mettono insieme per formare lignaggi più vasti, come è accaduto in Tibet. Tuttavia nel fare questo ci sono due estremi da evitare: uno è che se il Buddhismo occidentale è troppo frammentato, non funziona. Dall’altro lato se è troppo regolamentato, non funziona lo stesso. Ci vuole molta cautela, ma credo che la sostenibilità sia molto importante.

Pensare che se abbiamo un maestro non possiamo studiare con altri maestri

Per quanto riguarda il non frequentare altri centri di Dharma, è anche un malinteso pensare che non si possa studiare con altri maestri, persino se appartengono al lignaggio del nostro maestro. La maggior parte dei tibetani ha diversi maestri, non uno soltanto. Per esempio, è documentato che Atisha aveva 155 maestri. Maestri differenti hanno specializzazioni differenti: uno è bravo a spiegare una cosa, uno un’altra, uno ha questo lignaggio, uno quest’altro. Avere molti maestri non vuol dire essere sleale verso il proprio maestro. Come dice Sua Santità il Dalai Lama: possiamo considerare i nostri maestri come Avalokiteshvara a undici teste, ogni maestro è come un volto differente e tutti insieme costituiscono un unico corpo per la nostra guida spirituale.

Avere diversi maestri in disaccordo tra di loro

È molto importante allora non seguire diversi maestri che siano in conflitto tra loro. Questo non funziona, bisogna trovare dei maestri che abbiano uno stretto ed armonioso legame tra di loro, quello che in tibetano si chiama dam-tshig. Perché sfortunatamente tra vari maestri spirituali esistono quelle che a volte chiamiamo “guerre stellari spirituali” in cui c’è un violento dissenso riguardo a determinati argomenti, che si tratti dei protettori, di chi è il vero Karmapa, o altro. Quindi se volete avere più di un maestro, scegliete dei maestri che siano in armonia tra di loro.

Pensare che il solo ascolto di una lezione renda il relatore il proprio maestro spirituale

È anche essenziale capire che ascoltare una lezione di un maestro buddhista non fa automaticamente di questa persona il nostro maestro spirituale con tutte le implicazioni della devozione al guru, anche se naturalmente bisogna mostrargli rispetto. Come dice Sua Santità, “Si può partecipare agli insegnamenti di chiunque come si fa con un insegnamento universitario”. Non comporta nulla al di là di questo.

Malintesi sulla pratica

Non unire studio e pratica

Per quanto riguarda la pratica, è un malinteso pensare che la tradizione Gelug sia puramente un lignaggio di studio e quelle Kagyu e Nyingma siano solo lignaggi di pratica. A causa di tale ingenuità, potremmo pensare che se si segue uno di essi l’altro aspetto vada trascurato, abbandonando il nostro studio o la nostra meditazione. Quando i maestri danno importanza a uno o all’altro, allo studio o alla meditazione, questo non vuol dire che dobbiamo applicarci solo ad un aspetto ed ignorare l’altro. È abbastanza chiaro che abbiamo bisogno di entrambi.

Recentemente Sua Santità il Dalai Lama, durante un incontro con un gruppo di occidentali che hanno studiato alla biblioteca di Dharamsala negli anni ’70 e ’80, ha usato un ottimo esempio. Ha detto che il tantra, il mahamudra, lo dzogchen e pratiche avanzate del genere sono come le dita di una mano. Il palmo della mano, la base, sono gli insegnamenti della tradizione indiana del monastero di Nalanda, gli insegnamenti sui sutra dei maestri indiani di Nalanda. L’errore consiste nel dare troppa importanza alle dita. A volte lo fanno anche i maestri – ha detto – danno troppa importanza alle dita. I loro studenti studiano e praticano solo le dita e si dimenticano della mano. Le dita sono un prolungamento della mano e di per sé non hanno una funzionalità. Questa era l’immagine, l’analogia usata da Sua Santità; credo sia un consiglio molto utile. È un errore pensare: “Devo solo praticare lo dzogchen; devo semplicemente sedermi ed essere naturale”. Fare così significa semplificare eccessivamente questo tipo di insegnamenti senza averne le basi.

Pensare di essere dei Milarepa e di dover stare in ritiro di meditazione per tutta la vita

Similmente, è un malinteso pensare di essere come Milarepa e che tutti (nello specifico noi stessi) debbano andare in ritiro per il resto della vita o fare almeno un ritiro di tre anni. Solo poche persone sono adatte ad una vita totalmente dedita alla meditazione; la maggior parte ha bisogno di fare una vita impegnata nel benessere sociale. Questo consiglio viene direttamente da Sua Santità il Dalai Lama. È davvero molto raro che qualcuno sia adatto a ritirarsi in meditazione per tutta la vita, o che possa sul serio trarre beneficio da un ritiro di tre anni senza trascorrerlo semplicemente seduto a recitare mantra ma senza davvero lavorare su sé stesso ad un livello più profondo.

Pensare che possiamo diventare illuminati meditando solo nel nostro tempo libero

È naturale che per ottenere la liberazione o l’illuminazione sia necessaria un’intensa pratica di Dharma a tempo pieno ed è un errore pensare di poterle ottenere senza questa pratica a tempo pieno. Pensiamo: “Beh, posso praticare solo nel mio tempo libero e diventerò liberato o illuminato”. Anche questo è un malinteso. Ma è anche un errore non essere obiettivi con noi stessi riguardo alla nostra capacità di praticare in modo così intenso adesso. Perché quello che accade è che se chiediamo troppo a noi stessi senza essere in grado di svolgere questo tipo di pratica, diventeremo molto frustrati. Ci verrà quello che i tibetani chiamano lung, un’energia nervosa frustrata che ci mette sottosopra psicologicamente, emotivamente e fisicamente.

Non pensare realisticamente che ci vorranno eoni di vite per raggiungere l’illuminazione

Questo ha anche un po’ a che fare con il non credere alla rinascita, perché se non si crede alla rinascita non si prenderanno sul serio gli obiettivi a lungo termine di molti, molti eoni di pratica. C’è l’insegnamento in cui si dice che è possibile ottenere l’illuminazione in questa vita, ma questa non dovrebbe essere una scusa per pensare: “Abbiamo solo questa vita, perché la rinascita non esiste”, e quindi spingersi al di là di ciò che al momento siamo in grado di fare.

Sottovalutare l’importanza di una pratica quotidiana sostenuta

Dall'altro lato è un errore dare poca importanza alla pratica meditativa quotidiana. Se vogliamo sostenere la nostra pratica di Dharma, è molto importante avere una routine quotidiana di meditazione. Ci sono moltissimi benefici in termini di disciplina, impegno, stabilità nella nostra vita e affidabilità: qualunque cosa accada, mediteremo tutti i giorni. Se siamo seri nel voler instaurare abitudini più benefiche, che è lo scopo della meditazione, abbiamo bisogno di praticare.

Video: Geshe Lhakdor — “La vera meditazione”
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Che cosa significa “pratica”? Vuol dire instaurare abitudini benefiche attraverso l’analisi e la ripetizione. Per esempio, in un ambiente protetto, potremmo immaginare diverse situazioni difficili che normalmente ci fanno agitare, analizzando poi le cause della nostra inquietudine emotiva. Analizziamo ad esempio: “Perché sono così turbato da questa o quella situazione? Perché quando mi ammalo, per esempio, divento irascibile? È perché...”. Approfondiamo sempre di più e notiamo che “Sono concentrato su me stesso. Sto soffrendo. Povero me”.

Anche se non pensiamo in maniera conscia “povero me” mentre siamo ammalati, se siamo onesti dobbiamo ammettere che la nostra attenzione normale è comunque su quel “me” che rendiamo molto importante nelle nostre considerazioni. Poi, siccome non ci piace ciò che stiamo provando, ci facciamo prendere dal nervosismo e trasferiamo l’irritazione ad altre persone. Quindi nella meditazione analizziamo situazioni come questa che provengono dalla nostra esperienza personale, generando poi un atteggiamento più benefico – in questo caso la pazienza – rispetto alla situazione difficile. Una pratica quotidiana in cui analizziamo queste cose e lavoriamo per allenarci in abitudini positive è estremamente utile. È un grande malinteso pensare di poterne fare a meno.

Pensare che la pratica buddhista consista solo nello svolgere rituali

Inoltre è un malinteso pensare che la pratica buddhista sia semplicemente eseguire un rituale e non lavorare principalmente su noi stessi. Molte persone, sia in gruppo che da soli, recitano periodicamente una sadhana, un testo tantrico di visualizzazione. E spesso lo recitano in tibetano – una lingua che non capiscono nemmeno – e pensano che questa sia “la pratica”. Dzongsar Khyentse Rinpoche offrì una bellissima analogia per questo. Disse che se i tibetani dovessero recitare quotidianamente preghiere e varie pratiche in tedesco scritto con la fonetica tibetana, senza avere la minima idea di cosa stiano dicendo, secondo lui sarebbero in pochissimi a farlo. Eppure noi da occidentali lo facciamo, lo consideriamo una pratica e pensiamo sia sufficiente per raggiungere l’illuminazione. In realtà praticare vuol dire lavorare su noi stessi: lavorare per cambiare i nostri atteggiamenti, per superare le nostre emozioni disturbanti attraverso l’analisi e la comprensione e, in questo modo, instaurare abitudini più positive come amore, compassione, comprensione corretta e così via.

Pensare che per praticare il Dharma correttamente dobbiamo adottare le usanze tibetane

Un altro fraintendimento è pensare che per praticare il Dharma in modo appropriato sia necessario seguire gli usi tibetani o qualche altra forma di usi asiatici, come avere un elaborato altare in stile tibetano nella nostra camera-santuario personale a casa, o anche in un centro di Dharma. Naturalmente molti maestri tibetani che arrivano in occidente amano fondare centri di Dharma e decorarli come un tempio tibetano, con le pareti colorate nello stesso modo, mettendo i dipinti ecc.

Come direbbe un mio amico tibetano, se agli occidentali piace, perché no? Non fa male a nessuno... Ma pensare che sia assolutamente necessario decorare in questo modo è un grande errore. Soprattutto quando richiede una spesa molto ingente, quando i soldi potrebbero essere spesi in altri modi con maggiore beneficio. Quindi sia che si tratti di un centro di Dharma, sia che si tratti di casa vostra, non c’è bisogno di qualcosa di elaborato, in stile tibetano, per poter praticare il Buddhismo tibetano. È sufficiente che la stanza dove meditate sia pulita, ordinata e in questo modo rispettosa di quello che state facendo.

Pensare che ci libereremo velocemente dalle nostre emozioni disturbanti

Anche se la cosa più importante nel Dharma è eliminare per sempre le cause della sofferenza, cioè la nostra ignoranza o inconsapevolezza della realtà e le nostre emozioni disturbanti, il malinteso consiste nel pensare che il superamento delle emozioni disturbanti avverrà rapidamente. Ci dimentichiamo facilmente che solo quando diventeremo un arhat, un essere liberato, saremo completamente liberi dalla rabbia, dall’attaccamento e così via, anche se lungo il cammino diminuiranno. Se ce ne dimentichiamo, ci scoraggeremo quando dopo anni di pratica continueremo ad arrabbiarci. Questo accade molto, molto spesso.

È quindi un errore non avere pazienza con noi stessi. Dobbiamo comprendere come la pratica del Dharma abbia alti e bassi, proprio come il samsara. A lungo termine possiamo sperare in un miglioramento, ma non sarà così facile. È un errore non avere pazienza con noi stessi quando abbiamo periodi negativi. Ma dall’altro lato dobbiamo evitare l’estremo per cui siamo troppo permissivi nei confronti delle nostre abitudini negative, e siamo negligenti o pigri nel lavorare su noi stessi. Qui ci vuole una via di mezzo: non fustigarsi quando ancora una volta ci arrabbiamo, ma neppure dire soltanto “Sono arrabbiato” o “Sono di cattivo umore” senza cercare di applicare qualche metodo del Dharma per superare [tali stati].

È molto interessante osservare ciò a cui ci rivolgiamo quando siamo di cattivo umore per trovare sollievo. Ci rivolgiamo alla meditazione? Al rifugio? O alla cioccolata, al sesso, alla televisione, oppure alle chiacchiere con gli amici? O a internet? A cosa mi rivolgo? Credo che la nostra reazione quando siamo di cattivo umore ci dica molto sulla nostra pratica di Dharma.

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