I temi di indagine
L’argomento per questo seminario del fine settimana è “Karma: di chi è la colpa?”. In realtà ci sono tre argomenti coinvolti in questa discussione: il karma, il sé – “me” – e la colpa. Per esaminare questa questione, dobbiamo analizzare e capire cosa intendiamo con ciascuno di questi tre argomenti, in quanto possono esserci molte idee sbagliate su ciascuno di essi. Come sappiamo dagli insegnamenti buddhisti generali, l’avere idee sbagliate su temi molto rilevanti nella nostra vita causa sofferenza. Il Buddhismo aiuta a eliminare la sofferenza.
Con questo argomento specifico, uno dei grandi pericoli è il senso di colpa. Pensiamo al karma e a ciò che abbiamo fatto e concludiamo “Io, io, io, sono da biasimare. Sono cosi cattivo. Sono stato punito per quello che ho fatto”. Questo è senso di colpa e causa molta infelicità. È un argomento importante da capire, con la corretta comprensione delle quattro nobili verità possiamo ottenere un vero arresto – la terza nobile verità – del senso di colpa, dell’infelicità, della sofferenza e dell’effetto paralizzante che hanno su di noi.
C’è una grande differenza tra sentirsi in colpa e assumersi la responsabilità di ciò che facciamo e sperimentiamo. Questo va indagato grazie allo strumento dell’analisi. Ci poniamo domande come: “Cos’è il karma? Qual è la visione buddhista del sé? Quali sono i problemi legati alla colpa e alla responsabilità?”.
Sua Santità il Dalai Lama sottolinea sempre l’importanza dell’analisi e della meditazione analitica. Naturalmente, per poterla attuare dobbiamo conoscere e comprendere correttamente gli insegnamenti rilevanti sul karma, ecc., e avere gli strumenti per l’analisi razionale.
Cos’è il karma?
Come introduzione, inizieremo con una panoramica generale delle questioni che esamineremo in questo seminario. Il primo di questi tre argomenti è il karma. Cos’è il karma?
Ci sono molti malintesi riguardo al karma. Questo tema riguarda in realtà la compulsività associata al nostro comportamento, nel pensare, parlare e comportarci. L’argomento del karma non riguarda l’azione in sé: questo è il punto più importante di tutti. Non si pensi solo in termini di azione o comportamento, il problema è il modo compulsivo in cui agiamo, parliamo e pensiamo sotto l’influenza della nostra confusione e delle nostre emozioni disturbanti, senza avere il controllo.
Come nasce questo malinteso sul significato della parola “karma”? La parola tibetana per karma è anche la parola colloquiale per azione. Se chiediamo a un tibetano di tradurre questa parola ovviamente la tradurrà come “azione”. Tuttavia, con tale comprensione potremmo pensare che se l’azione è il problema da superare per evitare la sofferenza, allora dobbiamo solo smettere di fare, dire o pensare qualsiasi cosa e così saremmo liberi da tutti i problemi. Chiaramente è assurdo, non ha senso smettere di fare qualsiasi cosa per essere liberi.
Questo fa parte del processo di analisi e di domande, in particolare del mettere in discussione i termini di traduzione, perché gran parte dei nostri malintesi deriva dalla traduzione utilizzata, quando i termini hanno una connotazione completamente diversa da quelli originali. Se qualcosa non ha senso, dobbiamo scavare sempre più in profondità per cercare di capirlo. Ovviamente, se abbiamo fiducia negli insegnamenti e nel Buddha, siamo fiduciosi che ciò che ha insegnato non è una sciocchezza e ha senso, pertanto il problema qui non consiste nel compiere qualsiasi tipo di azione.
Pensate per qualche minuto a queste domande:
- Qual è la differenza tra un’azione e gli aspetti compulsivi del nostro comportamento?
- Il problema è il modo in cui agiamo o è molto più profondo del semplice fare delle cose?
- Se il problema è la compulsività delle nostre azioni, sono fuori controllo?
- La compulsività è controllata della mia ignoranza e delle emozioni disturbanti – la mia rabbia, la mia avidità, ecc.?
- Il problema è davvero la compulsività?
- C’è differenza tra un’azione problematica e la compulsività dietro quell’azione? Pensateci. Il problema è urlare a qualcuno o la compulsività sottostante l’urlare? Forse a volte urlare può essere utile, può esserlo a volte. Tuttavia, se urliamo compulsivamente senza controllo ogni volta che qualcosa ci disturba, è questo il problema? Dobbiamo identificare il problema. Qual è? Questa è la prima nobile verità: identificare il problema.
Quando parliamo di karma non parliamo solo di quello distruttivo: esiste anche un karma costruttivo. Qual è il problema se qualcuno pulisce la sua casa? Non c’è niente di sbagliato in questo ma se qualcuno è un pulitore compulsivo, totalmente fuori controllo, pulisce sempre trovando costantemente delle macchie ed è preoccupato che qualcuno possa rovinare tutto – il pulire di questa persona è fuori controllo. È la compulsività il problema, non l’azione.
Mi piace essere molto diretto e questo è il punto più importante. Sarebbe piuttosto positivo se alla fine di questo seminario capissimo che il problema è la compulsività nel nostro comportamento e che questo è ciò su cui dobbiamo lavorare. Sarebbe utile. Parliamo e agiamo compulsivamente per rabbia, per avidità e attaccamento o come dei perfezionisti? Di questo tratta il karma. Dobbiamo riconoscere che le nostre compulsioni fanno sì che le nostre azioni siano fuori controllo. Pensate a tutto questo per un momento.
[Pausa]
Sebbene il karma abbia questo significato specifico, di solito la maggior parte di noi include nella discussione anche i risultati del karma. Esamineremo anche quali sono i risultati del nostro comportamento compulsivo, come l’essere sempre infelici, avere sempre problemi o essere nei guai. I risultati fanno parte dell’analisi del karma.
Le due principali presentazioni del karma della tradizione di Nalanda
Esistono due spiegazioni del karma elaborate dai maestri buddhisti indiani dell’università monastica di Nalanda. Anche i theravada hanno la loro spiegazione del karma, tuttavia nel contesto della tradizione di Nalanda ce ne sono due.
- La più antica è la presentazione Madhyamaka che si trova nelle Strofe radice sulla via di mezzo chiamata consapevolezza discriminante di Nagarjuna ed elaborata sia dai maestri indiani Svatantrika-Sautrantika che Prasangika. Vasubandhu e i suoi commentatori la elaborarono anche nel contesto del sistema filosoficoVaibhashika.
- L’altra presentazione fu formulata da Asanga nel contesto del sistema Cittamatra, con una variante Sautrantika di Vasubandhu.
La spiegazione Cittamatra è molto più semplice e facile da capire, è quella che di solito viene insegnata per prima, piuttosto che la presentazione Madhyamaka e Vaibhashika, più complesse. Vogliamo comprendere la relazione tra karma e sé, tra “me” agente del karma e colui che ne sperimenta i risultati. Se analizziamo il sé nel contesto degli insegnamenti prasangika non possiamo adattare quella comprensione del sé con la spiegazione cittamatra del karma: una spiegazione prasangika di una cosa deve adattarsi alla spiegazione prasangika dell’altra.
Quindi, se vogliamo analizzare il sé dal punto di vista prasangika e la sua relazione con il karma dobbiamo considerare il karma dal punto prasangika. Non entrerò nei dettagli sul perché i due sistemi non combaciano per quanto riguarda la visione prasangika del sé e la discussione cittamatra sul karma; è piuttosto complesso e occorre studiare le scuole filosofiche. Tuttavia, nel corso del seminario, potrei menzionare alcuni punti in conflitto. È importante capire perché questo è rilevante, perché è importante che la comprensione del sé e del karma siano allineati alla stessa base filosofica.
I comportamenti distruttivo, costruttivo e non specificato e l’afferrarsi a un “io” auto-stabilito
Cos’è il comportamento distruttivo nel contesto della visione Prasangika? È un comportamento che è sotto l’influenza di emozioni disturbanti oltre all’afferrarsi a un “io” veramente esistente e auto-stabilito. Feriamo qualcuno perché “Io sono arrabbiata”. C’è la rabbia e il concetto sbagliato di “io”. “Devo fare a modo mio. Io ho ragione e tu hai torto”.
Anche se un comportamento costruttivo non è influenzato di un’emozione disturbante è comunque influenzato da questo afferrarsi a un “io” veramente esistente e auto-stabilito. L’obiettivo è avere il non-attaccamento e non-rabbia come emozioni presenti. Ciò significa semplicemente che non esageriamo le qualità buone o cattive delle cose, poiché queste sono l’essenza dell’attaccamento e della rabbia.
Esistono due tipi di comportamento costruttivo. Con uno, ci asteniamo dall’agire in modo distruttivo perché comprendiamo che se lo facciamo produrremo sofferenza. Non vogliamo sperimentare il risultato di un comportamento distruttivo e, per evitarlo, riconosciamo che alla base di tale comportamento c’è il costante pensiero di un “io, io, io” veramente esistente. Pensiamo compulsivamente “Io non voglio sperimentarlo”.
L’altro tipo di comportamento costruttivo è aiutare effettivamente qualcuno, ma ancora una volta può esserci un attaccamento molto forte al “me” come “Voglio essere quello buono. Voglio essere quello perfetto. Voglio raggiungere l’illuminazione. Voglio che le persone mi ringrazino e mi apprezzino”. Sebbene non vi sia alcuna influenza della rabbia e nessuna esagerazione della situazione o delle qualità positive con attaccamento o avidità, c’è ancora questo attaccamento al “me”, “Devo essere quella buona, quella perfetta. Io sono l’unica che può fare le cose bene”.
Anche se compiamo un’azione non specificata come fare una passeggiata – che Buddha non ha specificato come costruttiva o distruttiva in sé – diventa costruttiva o distruttiva in base alla motivazione e allo scopo sottostanti. Possiamo fare una passeggiata per uccidere qualcuno, per aiutare qualcuno, o semplicemente fare una passeggiata. Questo è ciò che si intende per azione non specificata o neutra dipendente dalla motivazione. Tuttavia, anche questo può risultare compulsivo. Ad esempio, dobbiamo andare compulsivamente tutti i giorni alle quattro a fare una passeggiata perché è il nostro momento di esercizio, c’è sempre “io, io, io devo andare a fare una passeggiata”.
Pensateci. “Io devo andare al negozio”, forse allora ci lamentiamo “Devo uscire nel traffico”. C’è sempre l’ “io” anche in questi tipi di azioni neutre. Un esempio perfetto è quello di un bambino piccolo “Non voglio andare a letto. Non voglio mangiarlo”, queste sono azioni neutre ma sono incentrate sull’ “io, io, io”.
Pertanto, in tutti questi tipi di azioni, siano esse costruttive, distruttive o non specificate, alla base di tutte c’è questo attaccamento a un “io” veramente esistente e auto-stabilito. Vogliamo decostruire la nostra concezione sbagliata del sé, “me”, perché è essenziale per superare l’influenza della compulsività del karma. Ciò che è comune a tutti e tre questi tipi di comportamento è l’afferrarsi a un sè veramente consolidato. “Non mi piace il modo in cui lo stai facendo”, “Voglio essere perfetto”, “Non voglio andare a letto”. Tutto ruota intorno al nostro concetto di “me”; il karma si basa su questa ignoranza e inconsapevolezza di come esistiamo realmente ed è per questo che è così compulsivo.
Una visione olistica in evoluzione del Dharma
Questa comprensione della compulsività del karma basata sull’ignoranza indica un principio molto importante da tenere sempre presente quando si studia il Dharma. Qualsiasi insegnamento su un argomento specifico deve essere compreso nel contesto del sistema in cui appare. È una visione olistica, in caso contrario potremmo mescolare due o tre cose insieme e, poiché non si basano sugli stessi presupposti, si confondono. Realisticamente non è così facile perché richiede di aver studiato e imparato molto per poter conoscere il contesto del sistema più ampio da cui proviene ogni particolare insegnamento.
Questo è il motivo per cui, mentre impariamo e studiamo, molto spesso dobbiamo rivedere la nostra comprensione anche delle cose più basilari del Dharma come l’impermanenza o il karma, il nostro argomento. Spesso abbiamo bisogno di rivedere e di ottenere una comprensione sempre più profonda, senza mai accontentarsi finché non diventiamo un Buddha. È uno dei voti quello di non limitare prematuramente il nostro studio e la nostra comprensione. Penso che un atteggiamento corretto sia quello di considerare lo studio del Dharma come un’avventura, piuttosto che scoraggiarsi dal fatto che la nostra comprensione è così basilare, che è così complicato e vasto. Meglio pensare che ci sono tutte queste cose fantastiche da scoprire man mano che andiamo sempre più in profondità.
Ecco perché avete qui questo programma Alla scoperta del Buddhismo e questo è un buon nome perché qualunque cosa scopriamo è come un tesoro in quanto i problemi diminuiscono se applichiamo ciò che abbiamo scoperto alla nostra vita. Questo è il punto centrale del Dharma: rendere la vita più facile. Sentiamo tutta questa pubblicità che ci dice che dobbiamo mirare alla liberazione e all’illuminazione per tutti gli esseri senzienti. Molte persone lo idealizzano e la pratica del Dharma diventa o tutto o niente: o raggiungiamo l’illuminazione oppure non è soddisfacente.
Allora potremmo pensare “Non sono abbastanza brava. Quello che sto facendo non è sufficiente”. Ci spingiamo sempre di più perché guardiamo al Dharma e ai conseguimenti nel Dharma come tutto o niente. Penso che questo sia un grosso errore perché, invece di aiutarci, il Dharma ci fa sentire più frustrati, più colpevoli e non abbastanza bravi. Poiché siamo frustrati, ci sforziamo e ci stressiamo. La pratica del Dharma non è qualcosa che dovrebbe essere stressante. Quindi, poiché siamo stressati, diventiamo aggressivi. Qualcosa non va in questo.
Il progresso non è lineare
Ricordate, il Dharma è un sentiero verso l’illuminazione costituito da stadi. Il progresso non è mai lineare, lo sottolineo sempre. La natura del samsara è che ha alti e bassi pertanto la nostra pratica del Dharma avrà alti e bassi. Non aspettatevi che sarà sempre perfetto. Non lo è. La cosa principale è che non importa se ci sono alti e bassi, dobbiamo solo avere perseveranza pensando che continueremo qualunque cosa accada.
Per periodi di tempo più lunghi, siate soddisfatti che la situazione stia migliorando un po’. È fantastico che sia così: non perdiamo tanto la pazienza, siamo un po’ più gentili o andiamo un po’ più d’accordo con i nostri genitori: è fantastico.
Uno degli aspetti della costruzione di forza positiva, il cosiddetto merito, è la gioia. Rallegratevi delle piccole cose che siete in grado di realizzare, non provate rimpianto che distrugge la forza positiva. Ad esempio “Non stavo facendo abbastanza. Non ero abbastanza bravo”. Così rimpiangiamo le cose positive che abbiamo fatto e questo distrugge tutta l’energia.
Evitare i due estremi di colpa e irresponsabilità
Vogliamo evitare i due estremi. Un estremo è essere così super critici nei confronti di noi stessi da pensare di non essere mai abbastanza bravi. Non siamo un Buddha quindi ovviamente possiamo sempre fare meglio. Non è questa la domanda. Tuttavia, non dobbiamo essere così duri con noi stessi, giudicando e pensando “Non sono abbastanza bravo”. Questo è il “me, me, me” di nuovo qui.
La pratica del Dharma non dovrebbe essere compulsiva, con “io, io, io” che deve essere perfetto e devo raggiungere l’illuminazione entro stasera. Ciò non accadrà, è controproducente ed è l’estremo della colpa. “Sono troppo pigro, non sono abbastanza bravo”, ecc.: questo è un estremo sia nel nostro comportamento regolare sia nella nostra pratica del Dharma. Sono coinvolte le stesse questioni.
L’altro estremo è pensare “Non m’importa, non mi interessa, posso fare qualsiasi cosa”. Questo atteggiamento del “vabbè” non ci si assume la responsabilità della pratica o del nostro comportamento.
Naturalmente non è facile superare la compulsività e non vogliamo diventare praticanti rigidi e tesi come poliziotti con noi stessi. È molto dualistico, una parte di me è il poliziotto e l’altra il cattivo ragazzo o la cattiva ragazza. Ciò causa una grande infelicità. Tuttavia, l’altro estremo che vogliamo evitare è l’essere troppo indulgenti, avere un atteggiamento per cui non importa ciò che facciamo, semplicemente essere naturali e fare qualunque cosa ci sentiamo di fare. Allora siamo completamente compulsivi.
C’è un equilibrio delicato qui perché dobbiamo essere rilassati; è un’arte la pratica del Dharma, essere rilassati, responsabili, non tesi. Non ci trattiamo come bambini e nemmeno come criminali. Questo è l’equilibrio che dobbiamo trovare; se non abbiamo grandi aspettative, non ci saranno grandi delusioni. Questa è un’istruzione di base nella meditazione: nessuna aspettativa e nessuna delusione. Semplicemente fallo e persevera.
Una riflessione sulla questione del karma e di chi è la colpa
Pertanto la comprensione del “me” è cruciale nel lavorare con il karma. Se riconosciamo che la compulsività del nostro comportamento è un problema, allora poniamoci le seguenti domande:
- Sentiamo che non possiamo smettere di agire in un certo modo? Lo sentiamo spesso? Penso che questo identifichi davvero il problema. Ad esempio, sentiamo di non riuscire a smettere di arrabbiarci e di urlare o di non riuscire a smettere di cercare di essere perfetti in tutto ciò che facciamo?
- Se è ciò che sentiamo spesso, cosa dice questo sul nostro concetto di “me”?
- Ci sono due “io” coinvolti quando pensiamo “Non riesco a fermarmi”. C’è qualcosa di sbagliato in questo, non è vero?
Per affrontare la questione del karma, di chi è la colpa, la prima cosa da capire è che il problema è la nostra compulsività. La seconda cosa da riconoscere è che sentiamo “Non posso smettere di agire in modo compulsivo”. Ora possiamo avvicinarci alla radice del problema. Quando pensiamo “Non posso impedirmi di comportarmi in quel modo” allora possiamo vedere lo scenario del “me” poliziotto e del “me” criminale, che non funziona. Ecco perché è cruciale la corretta comprensione del sé, di come esistiamo, per poter affrontare il karma.
- Prendete un minuto per riflettere e pensare a come sperimentiamo la compulsività con cui agiamo, parliamo o pensiamo in un certo modo. Al di là del modo in cui agiamo e parliamo, possiamo avere ogni sorta di pensieri davvero orribili e incontrollabili.
- Chiedetevi “Posso smettere di agire, parlare o pensare in quel modo?”
- Anche se riusciamo a fermare noi stessi, sperimentiamo quell’arresto in modo dualistico? È il “me” buono a fermare il “me” cattivo? Il “me” poliziotto a fermare il “me” criminale?
- Pensando in questo modo dualistico sentiamo che non possiamo smettere e che, anche se ci fermiamo, c’è ancora questo dualismo. Questo pensiero dualistico ci rende felici? Oppure ci rende stressati e tesi, causandoci sofferenza?
- Ricordate tutte le volte che vi siete detti, nella vostra testa “Sono un tale idiota” o “Perché l’ho detto o fatto?”.
[Pausa]
Spero che potremo iniziare a comprendere qual è il problema e quali sono le questioni che dobbiamo affrontare. Quando abbiamo a che fare con questioni di karma, non si tratta solo di voler essere una brava ragazza o un bravo ragazzo. Dobbiamo andare molto più in profondità.
Colpa e responsabilità
Dopo aver esaminato il karma e la relazione con il sé, “me”, possiamo ora passare al terzo argomento, la colpa. La domanda è:
- Se non riusciamo a smettere di agire, parlare o pensare compulsivamente in un certo modo, allora di chi è la colpa? Dobbiamo incolpare noi? La colpa è degli altri?
- Ad esempio, se mi hai infastidito, è colpa tua se ti ho urlato contro? Oppure potremmo dare la colpa a fattori esterni come l’economia pensando “Ho dovuto rubare perché l’economia andava davvero male”.
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo analizzare il ruolo del sé, delle cause, delle condizioni e delle circostanze coinvolte nel commettere atti e nello sperimentarne i risultati.
L’origine interdipendente
Tutto nasce in dipendenza da cause e condizioni, questo è un principio fondamentale nel Dharma. Poiché tutto nasce in dipendenza da cause e condizioni, la situazione attuale cambia continuamente. Questo perché cambiano continuamente anche le cause e le condizioni che la determinano e la influenzano. Inoltre, le cose non nascono da una sola causa. Questo è un principio fondamentale nel karma, nelle leggi di causa ed effetto comportamentali. Pertanto, tutto ciò che sperimentiamo non è solo “colpa mia”, ma una combinazione di molti fattori.
Ricordo un adolescente che conoscevo che aveva un’autostima così bassa che, quando andava a una partita di calcio e la sua squadra perdeva, diceva “Hanno perso perché ero lì, è colpa mia”. È chiaramente ridicolo. Sebbene, da un punto di vista karmico, abbiamo costruito varie cause perché ci accadano certe cose e per agire in un certo modo, le nostre esperienze e le nostre azioni derivano da cause e condizioni, così come da ciò che altre persone dicono che innescano queste cose, come i fattori economici. La realtà e la nostra esperienza di essa sono una grande miscela o rete di fattori che sorgono in modo dipendente. Non tutto è solo “colpa mia”.
Quando iniziamo a pensare in termini di colpa, “io sono da incolpare”, “tu sei da incolpare” o “la società è da incolpare”, significa attribuire la colpa. “Io sono il colpevole” e quindi “sono una persona cattiva”, oppure “Tu sei il colpevole e quindi sei una persona cattiva”, oppure “La società è colpevole e quindi la società è cattiva per avermi fatto agire in quel modo”.
Se pensiamo “Ciò che provo è colpa mia” allora pensiamo “Sono il colpevole, il cattivo e vengo punito per quello che ho fatto, me lo merito”. Questo è un completo fraintendimento degli insegnamenti buddhisti sul karma. È anche un malinteso applicare questo tipo di pensiero a una situazione in cui riteniamo che la colpa sia di qualcun altro, come in “Sei colpevole e cattivo e devi essere punito per avermi fatto fare quello che ho fatto”. O quando si pensa che la colpa sia della società che è colpevole e cattiva, e che l’ordine sociale deve essere demolito o distrutto per averci costretto a fare quello che abbiamo fatto – uscire e rubare per esempio.
L’etica buddhista
È molto importante capire che l’etica buddhista non si basa su leggi promulgate da Dio o da un legislatore che dobbiamo obbedire e, se non lo facciamo, siamo cattivi, colpevoli e dobbiamo essere puniti. Questo non è Buddhismo. L’etica buddhista si basa sulla comprensione che l’agire sotto l’influenza di emozioni disturbanti e degli impulsi impellenti del karma, produrrà problemi e sofferenze. Inoltre, anche l’agire sotto l’influenza dell’ego produrrà problemi o sofferenze.
Vogliamo quindi sviluppare la consapevolezza discriminante e non l’obbedienza alle leggi, discriminare tra ciò che ci porterà o meno sofferenza. Se non vogliamo soffrire, non agiamo in quel modo. È così semplice. Pensate per un momento di chi è la colpa del nostro agire.
- Ci sentiamo colpevoli?
- Pensiamo che gli altri siano colpevoli?
- Riteniamo che la società sia colpevole?
- Anche se stiamo studiando il Buddhismo, lo mescoliamo ad un altro sistema che include l’idea di colpa, leggi infrante e punizione?
- Pensiamo “Sono cattiva e voglio essere brava per piacere a mamma, papà e ai miei insegnanti” e “Questo mi renderà una brava ragazza o un bravo ragazzo”?
È così che ci avviciniamo all’idea del karma? Se è così, questo non è Buddhismo e lo stiamo mescolando con qualcos’altro.
[Pausa]
La consapevolezza discriminante non giudicante
C’è una grande differenza tra l’assumersi la responsabilità del proprio comportamento e il sentirsi colpevoli, incolpando noi stessi per il modo in cui agiamo. Non vogliamo essere bambini colpevoli e cattivi per come ci comportiamo, ma adulti responsabili e non giudicanti. Non c’è nessun giudice qui. Semplicemente usiamo la consapevolezza discriminante su ciò che è utile o dannoso, andando sempre più in profondità nella nostra comprensione e analisi.
Inizia con l’autocontrollo e gioisci per i passi graduali
All’inizio esercitiamo solo autocontrollo, ma poi andiamo sempre più in profondità affrontando la compulsività del nostro comportamento e come ci sentiamo per non riuscire a smettere di agire in quel modo, esamininando il nostro concetto di sé. Andiamo sempre più in profondità.
Penso che la questione dello scarso autocontrollo sia legata al problema del focalizzare la nostra attenzione solo sulla liberazione e l’illuminazione e non sulla gioia dei progressi che facciamo verso quell’obiettivo. Dovremmo evitare di pensare che non siamo abbastanza bravi perché non siamo ancora illuminati. L’analogia è il pensare di acquisire la cognizione non concettuale della vacuità con la perfetta concentrazione e qualsiasi cosa al di sotto di ciò è irrilevante, quindi non ci preoccupiamo nemmeno di esercitare l’autocontrollo riguardo al nostro comportamento compulsivo.
Se siamo in grado di esercitare l’autocontrollo quando abbiamo voglia di urlare a qualcuno o di dire qualcosa di stupido, allora scopriremo che c’è uno spazio tra il momento in cui abbiamo voglia di dire qualcosa e il momento in cui lo diciamo effettivamente. Semplicemente ci fermiamo: questo è autocontrollo. Se siamo in grado di farlo, anche se può essere frustrante e farci sentire come dei poliziotti, è comunque meglio che urlare in modo incontrollato, ferire le persone e dire cose stupide. Il semplice esercizio dell’autocontrollo è un passo verso il passo finale, ma dobbiamo compiere passi graduali per arrivarci e gioire di ognuno di questi. Non dobbiamo sentirci in colpa per non essere ancora al passo successivo.
Viviamo in società occidentali che pongono così tanta enfasi sulla colpa e sulla legge, sia essa divina o civile, da portare a una scarsa autostima. Anche il senso di colpa costituisce un ostacolo alla gioia: una delle cose più difficili da sviluppare per noi occidentali è gioire delle piccole cose che realizziamo piuttosto che sentire che non sono abbastanza buone. Oltre a comprendere l’intero argomento del karma e di chi è la colpa, dobbiamo sviluppare un senso di responsabilità, piuttosto che di colpa e rallegrarci di qualunque cosa siamo in grado di realizzare.
Non sentirti arrogante nella tua gioia, ma non umiliarti nemmeno. Potrebbe non essere qualcosa che viene enfatizzato abbastanza nella pratica delle persone. Imparare a gioire non è così facile per molti di noi. Un ultimo pensiero per questa sessione: l’incolpare noi stessi, pensando di non essere abbastanza bravi e di non aver fatto abbastanza, costituisce davvero un ostacolo per il miglioramento. Rallegrarsi delle piccole cose che siamo stati in grado di fare ci dà un senso di fiducia in noi stessi e di autostima, e costituisce una base molto più solida per andare avanti e fare ulteriori progressi.
Lasciamo che questo venga assorbito per un momento e poi potremo vedere qualche domanda.
[Pausa]
Domande e risposte
È corretto dire che, in questo momento, non possiamo praticare meglio a causa del nostro karma? È il nostro karma che non ci permette di praticare meglio? Se siamo in grado di sbarazzarci lentamente del nostro karma, col tempo saremo in grado di praticare meglio, ma per ora non possiamo fare di meglio?
È molto interessante osservare quali pensiamo siano i nostri limiti e come a volte ci limitiamo e pensiamo di non poter fare di più. Ero l’interprete del mio insegnante Serkong Rinpoce e lui mi diceva sempre che non importa quanto sei stanco, puoi sempre fare cinque minuti in più. Penso che sia verissimo, a meno che non abbiamo qualche condizione medica o qualcosa del genere in cui il cervello smette di funzionare a un certo punto. Conosco qualcuno con una lesione cerebrale in cui è così. Tuttavia, la maggior parte di noi può sempre fare qualcosa in più.
Ad esempio, faccio molto allenamento fisico, sollevamento pesi e quel genere di cose. La questione di poter fare sempre un po’ di più è importante perché ci viene detto, ad esempio, di fare un numero x di flessioni. Potremmo pensare “Non posso farne così tante”. Tuttavia vieni spronato “Dai, puoi farne un’altra”. Poi mi rendo conto che ne restano solo altre due e, anche se sono davvero stanco, posso spingermi oltre e farcela davvero.
Ciò dimostra, per quelli di noi che si impegnano in queste cose, che siamo capaci di fare un po’ di più di quanto pensiamo di essere capaci. Quel qualcosa in più aumenterà nel tempo. Vedo un bodybuilder qui che annuisce, sai di cosa sto parlando. Ci sono limiti realistici e limiti autoimposti che esistono semplicemente nella nostra concettualizzazione di noi stessi. Dobbiamo distinguere tra i due.
Un’altra questione interessante qui è la vergogna, che è diversa dal senso di colpa. Sembra che la vergogna si riferisca ad azioni limitate e distruttive e potrebbe aiutarci a progredire nella nostra pratica. Può parlarne?
Ci sono due fattori mentali che devono essere sempre presenti nell’azione costruttiva. I loro opposti sono sempre presenti in un’azione distruttiva, secondo gli insegnamenti dell’abhidharma. Nelle azioni distruttive, il fattore viene talvolta tradotto come “mancanza di vergogna”, ma forse è più accurato “mancanza di dignità o autostima”, per cui semplicemente non ci interessa come il nostro comportamento si riflette su noi stessi e sul nostro senso di autostima. L’altro fattore mentale è la mancanza di interesse per come il nostro comportamento si riflette sul gruppo più ampio di cui facciamo parte. Questa prospettiva è abbastanza diffusa nella cultura asiatica. Ad esempio, se siamo buddhisti e agiamo in modo distruttivo, ciò dà una cattiva reputazione a tutti i buddhisti, alla nostra famiglia o al nostro paese. L’idea occidentale di vergogna riguarda più ciò che gli altri pensano di noi, nel Buddhismo l’enfasi è più su ciò che pensiamo di noi stessi.
D’altro canto, il comportamento costruttivo è sempre accompagnato da un senso di autostima e dalla consapevolezza di come il nostro comportamento si riflette positivamente su coloro a cui siamo vicini: i nostri genitori, amici, famiglia, religione e società. Una volta ho chiesto alla mia classe a Berlino perché non andavano a rubare, fare atti vandalici e cose del genere. Era perché avevano paura di andare all’inferno? Gli studenti risposero che non era per quello.
Chiedetevi “Perché non esco, vandalizzo e distruggo la proprietà di altre persone?”
La risposta di tutti i miei studenti è stata “perché non mi sembra giusto”. Era quello che pensavate? Avrei dovuto chiedervelo.
Non ho voglia di farlo perchè penso che potrebbe essere doloroso per gli altri.
Molto interessante, ovviamente ci sono vari motivi. La classe di Berlino ha fornito la risposta corretta dal punto di vista buddhista, che semplicemente non è giusto essere cattivi e ferire gli altri e così via. Perché non vogliamo ferire qualcun altro? Perché non è giusto e abbiamo autodignità “Non mi abbasserei così tanto da fare una cosa del genere. Valgo di più che uscire, distruggere tutto e comportarmi in modo orribile e antisociale”. Questo perché se diciamo che non andiamo a fare atti vandalici perché non abbiamo voglia di farlo, allora dovremmo chiederci “E se avessi voglia di farlo, lo farei allora?”. Questa sembra essere l’implicazione di quella risposta.
In tal caso, se ne avessi voglia, lo farei.
In tal caso questo è un buon esempio di disinteresse e di mancanza di senso di autostima che accompagna un’azione distruttiva. Questo senso di autostima è una questione molto centrale per l’etica buddhista e si collega a ciò che dicevamo sulla gioia, sull’avere sentimenti positivi e sul rispetto di noi stessi. Quando rispettiamo noi stessi, è molto più facile assumerci la responsabilità di come ci comportiamo. Quando non abbiamo rispetto per noi stessi o autostima, allora non ci importa come ci comportiamo.
Nelle sessioni successive approfondiremo questi argomenti del karma, del sé e della colpa.
Dedica
Possa qualunque forza positiva, potenziale positivo e comprensione emersi da questa discussione andare sempre più in profondità e agire come causa affinché tutti raggiungano lo stato illuminato di un Buddha per il beneficio di tutti noi.