Un sano atteggiamento verso il maestro spirituale

Come ci affidiamo effettivamente a un maestro spirituale? Come ci relazioniamo a lui o lei? Possiamo discuterne sulla base del nostro atteggiamento ma anche del nostro comportamento con l'insegnante. Iniziamo intanto ad approfondire la questione esaminando il pieno significato delle due parole tibetane usate per descrivere il corretto atteggiamento.

Salda convinzione nelle buone qualità del nostro maestro

Il primo termine in tibetano è “mopa” (mos-pa), uno dei fattori mentali. Le definizioni dei fattori mentali si trovano nei testi abhidharma e i tibetani seguono due versioni, una di Vasubandhu e una di Asanga: è importante guardare sempre le definizioni e non fare affidamento solo su ciò che un traduttore o un dizionario offre come parola equivalente.

La parola "mopa" è definita da Vasubandhu come "la comprensione dell’oggetto che viene focalizzato come dotato di buone qualità". La parola "comprensione", in tibetano tog-pa (rtogs-pa), è un termine di difficile traduzione e la maggior parte delle persone non ha un'idea chiara del significato nemmeno in inglese. "Comprendere" qualcosa significa averne cognizione in modo accurato e decisivo, nello specifico parliamo delle buone qualità dell'insegnante. "Accuratamente" significa avere cognizione delle effettive buone qualità dell'insegnante, non di quelle che noi proiettiamo o immaginiamo. "Decisivamente" significa che ne siamo assolutamente certi, non con l’incertezza come quando pensiamo: "Forse l'insegnante ha queste qualità, o forse no". Sulla base dell'esperienza, dell'esame, ecc., ne siamo completamente convinti.

Asanga definisce "mopa" come "ferma convinzione" e sottolinea l'aspetto della convinzione, non necessariamente delle buone qualità; nell’accezione di Vasubandhu si parla invece della ferma convinzione nelle buone qualità dell'insegnante.

Queste buone qualità vengono elencate nelle qualifiche del maestro spirituale. È una persona etica? Ha diminuito le sue emozioni disturbanti almeno in gran parte? È sinceramente preoccupato per il benessere degli studenti? È molto gentile e compassionevole? La lista è lunga e noi dobbiamo esaminare se possiede o meno queste qualità.

Cognizione valida

Per sapere con certezza se possiede queste buone qualità dobbiamo considerare quanto presenta Chandrakirti con i tre criteri per determinare la validità di un'etichettatura mentale: è sempre così quando studiamo il Dharma, mettiamo continuamente insieme diversi pezzi del puzzle.

(1) Per prima cosa, esaminiamo: esiste una convenzione per questa buona qualità? È convenzionalmente accettata come tale? I testi tradizionali accettano convenzionalmente che avere un forte senso dell'etica, essere onesti e così via sono le qualifiche per un insegnante spirituale. È anche convenzionalmente accettato che possiamo fidarci di una persona etica e onesta e che non dobbiamo fidarci di una persona disonesta: sono solo convenzioni comuni su cui la maggior parte delle persone si trova d'accordo.

Essere famosi o avere una buona reputazione non è convenzionalmente accettato come qualifica per essere un insegnante spirituale o per affidare a qualcuno il nostro sviluppo spirituale: Sua Santità il Dalai Lama afferma sempre che i tulku, i lama reincarnati, non dovrebbero fare affidamento solo sul portare il grande nome del loro illustre predecessore, ma devono dimostrare le loro qualifiche in questa vita. Non è una convenzione appropriata che qualcuno sia un grande insegnante solo perché ha il titolo di Rinpoce: alla conferenza dei tulku nel 1988, Sua Santità disse infatti che se avesse potuto fare a modo suo, si sarebbe sbarazzato dell'intero sistema dei tulku, poiché troppo suscettibile ad abusi, rimproverando tutti i giovani tulku di essere pigri.

Questo è il primo criterio per convalidare la nostra ferma convinzione che il nostro maestro spirituale ha certe buone qualità; esse devono accordarsi alla convenzione generalmente accettata di quelle che sono le qualifiche di un insegnante spirituale affidabile.

(2) Il secondo criterio è che la nostra comprensione dell'insegnante che possiede questa qualità non sia contraddetta da una mente che conosce validamente la verità convenzionale. Esaminiamo uno per volta i termini tecnici, "cognizione valida" e "verità convenzionale": "cognizione valida" significa una cognizione non fraudolenta, per cognizione diretta e cioè per esperienza personale, o per cognizione inferenziale; "verità convenzionale" è ciò che una mente non illuminata trova quando esamina mediante la cognizione valida l'apparenza superficiale degli oggetti.

Possiamo osservare come agisce il maestro e chiedere agli altri della loro personale esperienza con lui per confermare ciò a cui abbiamo assistito in prima persona: ciò che osserviamo e ciò che gli altri riferiscono non deve contraddire il fatto che l'insegnante abbia questa buona qualità, e nemmeno ciò che possiamo dedurre da prove inconfutabili deve contraddire questa conclusione. Se ad esempio l'insegnante avesse la buona qualità di essere una persona etica, chiunque ne esaminasse oggettivamente il comportamento lo vedrebbe etico, nessuno potrebbe trovare elementi contraddittori; ma supponiamo di vedere che invece sta agendo in modo assolutamente non etico: quando altri ne osservano il comportamento, riferiranno anche del modo terribile in cui si sta comportando e vedere l'insegnante agire in tal maniera contraddice il fatto che tali buone qualità siano presenti. Non dovrebbero esserci contraddizioni.

(3) Il terzo criterio è che la nostra comprensione dell'insegnante come dotato di questa buona qualità non dovrebbe essere contraddetta da una mente che conosce validamente la verità più profonda, la vacuità (vuoto): una tale mente sa che le buone qualità di un insegnante non sono auto-stabilite o intrinsecamente rintracciabili all'interno della persona, ma sono sorte in modo dipendente da ogni genere di cause, condizioni e altri fattori. Pensare che un insegnante sia una sorta di dio, un essere trascendente su un piedistallo, e che le sue buone qualità siano saldamente stabilite, intrinsecamente dentro di lui e che non c'è modo di poter diventare così, è un punto di vista falso, contraddetto da una mente che comprende validamente la vacuità e il sorgere dipendente. Tutti noi abbiamo la capacità di migliorare le nostre buone qualità: possiamo costruirle e rafforzarle lavorando molto e duramente, così come ha fatto il nostro maestro, così come Buddha è diventato un Buddha. È molto importante non pensare che queste buone qualità siano impossibili da raggiungere e mantenere un atteggiamento realistico su come svilupparle.

La prima componente dell'atteggiamento che dobbiamo avere nei confronti di un insegnante ben qualificato, è dunque la ferma convinzione e la fiducia che possieda le buone qualità richieste: ne siamo convinti e dunque ci fidiamo di lui, di quanto dice e del fatto che non ci deluderà: è una parte molto importante.

È una questione molto delicata, vero? Molti di questi insegnanti non hanno tempo per noi, sono molto impegnati a viaggiare in tutto il mondo, hanno migliaia di cosiddetti studenti o seguaci – che siano poi davvero discepoli è tutta un'altra cosa; tuttavia, confidiamo che abbiano le buone qualità e possiamo essere ispirati da loro. Poi potremmo aver bisogno di un insegnante meno qualificato che ci dia effettivamente delle istruzioni quotidiane: questo è un altro livello di insegnante.

Vedere il maestro come un Buddha

Distinguere

Questo porta all'argomento molto delicato del considerare l'insegnante come un Buddha. "Distinguere" ('du-shes) è un altro fattore mentale, spesso tradotto come "riconoscimento" che però non coglie tutte le sfumature del termine. Cosa significa in realtà distinguere? La sua definizione formale è "il fattore mentale sempre funzionante che considera una qualità caratteristica non comune dell'oggetto che appare a una cognizione non concettuale o una caratteristica composita dell'oggetto che appare a una cognizione concettuale e gli attribuisce un significato convenzionale". In altre parole, all'interno di ciò che appare nel nostro campo visivo, uditivo ecc. e nel nostro paesaggio mentale, il fattore mentale della distinzione differenzia le caratteristiche distintive non condivise di gruppi di pixel, forme colorate, suoni e così via come costituenti singoli oggetti convenzionali. Identificare cosa sono gli oggetti e attribuire loro dei nomi si basa su questo fattore mentale fondamentale che è sempre attivo, altrimenti non potremmo dare alcun senso a ciò che percepiamo o pensiamo. È uno dei cinque aggregati.

Un semplice esempio: nel nostro campo visivo siamo in grado di distinguere alcune caratteristiche di definizione non comuni condivise dai pixel e dalle forme colorate di un oggetto convenzionale come distinte da quelle degli altri oggetti convenzionali che lo circondano, ad esempio la caratteristica di definizione della testa di una persona, distinta da quella del muro sullo sfondo. Se non potessimo distinguere gli oggetti da quelli che sono loro attorno, non potremmo funzionare nella vita: siamo in grado di distinguere la testa di qualcuno dal muro alle sue spalle perché ci sono alcuni tratti caratteristici di questa raccolta di pixel e forme colorate che convenzionalmente vengono concordate come le caratteristiche di una testa e non quelle di un muro.

Nel Buddhismo abbiamo l'esempio di fantasmi che vedono qualcosa come pus, degli umani che lo vedono come acqua e degli dèi come nettare: non è che ci sia un liquido veramente esistente che solo grazie all’etichettatura mentale viene etichettato pus dai fantasmi, acqua dagli umani e nettare dagli dèi, e che a causa del proprio karma si comporta come tale per ognuno, non è così, altrimenti potremmo proiettare qualsiasi cosa su di esso. Come viene spiegato?

Caratteristiche di definizione non comuni

Tsongkhapa o forse il suo discepolo Kedrub Je - non ricordo di chi sia il commento - spiega che convenzionalmente gli oggetti hanno caratteristiche che li definiscono ma, dopo l'analisi, non possono essere trovate dal lato degli oggetti. Cosa significa?

Convenzionalmente, tutti i fenomeni validamente conoscibili sono chiamati "dharma". In questo contesto, un "dharma" è definito come qualcosa che mantiene le proprie caratteristiche che lo definiscono. Ci sono caratteristiche che definiscono le cose, ma esse non hanno il potere, da sole o in combinazione con l'etichettatura, di rendere qualcosa quello che è. È un concetto molto difficile da comprendere.

Per aiutare a chiarire questo in termini di caratteristiche di definizione nell'esempio di pus, acqua e nettare, usiamo l'esempio di dodici uova. Possiamo suddividere dodici uova in quattro gruppi di tre, in tre gruppi di quattro, in due gruppi di sei e in sei gruppi di due. C'è forse qualcosa dal lato delle dodici uova che permette loro di essere suddivise in quel modo? In caso affermativo, dove? Eppure possono essere divise in tutti quei modi a seconda della struttura concettuale della persona che desidera preparare una frittata con due uova, con tre e così via.

Dovremmo dire che le dodici uova possiedono le caratteristiche per essere suddivise in tutti questi modi diversi, ma l'esistenza di queste diverse caratteristiche può essere stabilita solo in dipendenza dalle caratteristiche composte dei concetti "divisibile per tre", "divisibile per quattro" e così via, con cui possono essere etichettate mentalmente. Una “caratteristica composita” (bkra) è la caratteristica di definizione di una categoria, derivante da una fusione delle caratteristiche di definizione di tutti gli elementi che rientrano nella categoria - ad esempio tutti gli elementi divisibili per tre o per quattro.

Convenzionalmente, le dodici uova hanno tutte queste caratteristiche di definizione, ma nessuna di queste caratteristiche può essere trovata dal lato delle uova, con il potere - da sola o insieme all'etichettatura mentale - di renderle divisibili in questi vari modi. Pensiamoci ancora, è un concetto molto profondo. Dove in queste uova o tra di loro risiede la caratteristica di essere divisibile per tre o quattro? Tuttavia ognuno di questi modi di etichettarle è valido, ognuno avrebbe superato i tre criteri di validità di Chandrakirti. Allo stesso modo, etichettare qualcosa come pus, acqua o nettare è valido anche per ciascuno di quei tipi di menti, fantasma, umano o dio.

Possiamo applicare questa analisi per considerare il nostro maestro come un Buddha. Un Buddha è qualcuno con tutte le buone qualità; siamo convinti che anche il nostro maestro abbia molte buone qualità, è preciso, ma può anche avere qualità negative o difetti, poiché è difficile trovare un maestro che abbia solo buone qualità: tuttavia non possiamo trovare le caratteristiche di definizione di questi due tipi di qualità dal lato del maestro, ma in base al suo comportamento e così via, possiamo correttamente dire che egli ha sia pregi che difetti.

Ora la domanda è quale caratteristica di definizione distingueremo. Agiremo come con una struttura mentale simile a un fantasma, distinguendo ed etichettando solo le caratteristiche di definizione di qualità negative? Se lo facciamo vedremo allora il maestro come una persona orribile, che non ha tempo per noi e cadremo in uno stato mentale assai negativo. O al contrario, con la struttura concettuale di qualcuno che vede un Buddha, distingueremo ed etichetteremo solo le caratteristiche che definiscono le buone qualità?

Nel suo lam rim il Quinto Dalai Lama afferma molto chiaramente e anche Tsongkhapa suggerisce che non dovremmo essere ingenui e negare i difetti del nostro maestro, ma dobbiamo renderci conto che non c'è alcun vantaggio nel concentrarsi solo su di essi, poiché conduce solo a lamentarci, mentre se ci focalizziamo sulle buone qualità possiamo trarre grande ispirazione.

Tendenze

Le buone qualità, insieme a corpo, parola, mente e attività, costituiscono i cinque tratti della famiglia di Buddha in una delle presentazioni della natura di Buddha. Tutti noi possediamo questi cinque tratti al loro livello di base ordinario, ciò significa che tutti noi abbiamo buone qualità, così come la tendenza (letteralmente, i "semi") di esse nel nostro continuum mentale. Queste tendenze danno luogo a manifestazioni di queste buone qualità in modo intermittente: prima dell'illuminazione non avviene in modo continuo, sempre.

Per quanto riguarda le tendenze, estrapoliamo alcune delle loro caratteristiche dalla discussione sul karma: uno degli aspetti di una tendenza è la capacità di dare origine a un risultato quando si verificano le circostanze; a causa di ciò i nostri continuum mentali designano i risultati non ancora ottenuti di queste tendenze. Non dovremmo tuttavia ritenere che questi risultati siano già determinati e fissati, in attesa da qualche parte nel nostro continuum mentale, aspettando solo di apparire quando si presentano le circostanze: non possono essere trovati nemmeno indagando a fondo, tuttavia questi risultati non ancora avvenuti possiedono caratteristiche di definizione che possono essere distinte.

Analizziamolo ora a proposito del nostro maestro spirituale. Siamo fermamente convinti delle buone qualità che possiede e che si manifestano solo di tanto in tanto, e quando avviene esse derivano dalla tendenza ad esse, imputabili al suo continuum mentale; queste tendenze alle buone qualità hanno anche l'aspetto di essere in grado di dare origine alla loro manifestazione nella loro forma più completa sempre, quando le circostanze sono complete, perché lui manifesti l'illuminazione. Ciò significa che ci sono qualità di Buddha non ancora manifeste e un Buddha non ancora manifesto che designano il continuum mentale del nostro maestro, con caratteristiche di definizione che possiamo distinguere.

Neppure dobbiamo essere ingenui, come a volte dico per scherzo, nel senso di pensare che il nostro maestro sia un essere onnisciente che conosce i numeri di telefono di tutti sul pianeta e può camminare attraverso i muri, moltiplicarsi in un fantastiliardo di forme, parlare ogni lingua, ecc.; di certo non siamo così ingenui da pensare che abbia tutte queste qualità in pieno e manifeste ora. L'imputazione sul continuum mentale del nostro maestro è quella di un Buddha non ancora manifestatosi, non di un Buddha attualmente presente: siamo in grado di distinguere questo Buddha non ancora manifesto perché abbiamo una ferma convinzione nelle sue basi, le sue buone qualità.

Se la mia analisi è corretta, allora spiega come possiamo validamente distinguere il nostro maestro come un Buddha: ci concentriamo sulle sue buone qualità e sulle sue tendenze ad esse come uno dei tratti della sua natura di Buddha, distinguiamo l'aspetto di queste tendenze di essere in grado di dare origine alle buone qualità illuminanti di un Buddha quando le sue reti di forza positiva e profonda consapevolezza sono complete. Come gli dèi che sperimentano un liquido come nettare, anche noi allora sperimentiamo il nostro maestro come un Buddha non ancora manifestatosi, sebbene di solito il termine “non ancora manifesto” si omette e si dice solo Buddha.

Non è affidabile vedere i difetti del nostro maestro

I testi tradizionali sull'affidarsi a un maestro spirituale ci ammoniscono che “quando il maestro appare con dei difetti, dobbiamo renderci conto che questa apparenza non è affidabile". Possiamo comprendere tale affermazione utilizzando la stessa analisi appena esaminata: quando distinguiamo quelle che ci sembrano le caratteristiche di definizione delle carenze del maestro, invece di essere come gli dèi che percepiscono il nettare, siamo come i fantasmi che percepiscono il pus. La distinzione da parte del fantasma delle caratteristiche che definiscono il pus è valida e allo stesso modo la nostra distinzione delle caratteristiche che definiscono i difetti del nostro maestro può essere valida, ma non è affidabile.

“Inaffidabile" non significa "errato", ma "non adatto per farvi affidamento". Qui non stiamo parlando di fare affidamento sull'apparenza delle caratteristiche di definizione in quanto riscontrabili del lato del nostro maestro e con il potere di stabilire che tale persona è un maestro intrinsecamente buono o cattivo. Non dobbiamo fare affidamento su nessuna delle due apparenze: il nostro maestro non è realmente stabilito né come Buddha né come diavolo. Il consiglio di non fare affidamento sull'apparenza dei difetti viene dato perché farlo non porta alcun beneficio, ci deprime e crea uno stato mentale disturbato e di malessere, che non ci porterà da nessuna parte lungo il nostro percorso spirituale. Senza negare invece i difetti e senza nemmeno essere così ingenui da pensare che l'insegnante sia già un Buddha onnisciente che può parlare ogni lingua nell'universo e così via, è più vantaggioso distinguere le caratteristiche di definizione delle buone qualità del nostro maestro come quelle di un Buddha.

In nessuna lista delle qualifiche di un maestro spirituale viene mai menzionato che debba essere effettivamente un essere illuminato: non prendiamo questo insegnamento di vedere il maestro come un Buddha troppo alla lettera, ma comprendiamolo invece in un contesto più ampio. Allora sì potremo riceverne la massima ispirazione.

Essere inoltre in grado di distinguere le caratteristiche di definizione delle buone qualità del nostro maestro come quelle di un Buddha ci aiuterà sul sentiero del tantra a distinguere i nostri fattori della natura di Buddha come quelli delle varie figure di Buddha che immaginiamo di essere: mentre ci rendiamo conto che il nostro essere effettivamente questa figura di Buddha non si sta ancora verificando, immaginiamo che stia già accadendo per provare ad essere un Buddha.

Immaginare noi stessi come dei Buddha nella pratica del tantra

Ricordiamo con attenzione il significato di questo punto, in particolare nel tantra. Se riusciamo a distinguere le qualità di Buddha nel nostro maestro allora possiamo fare lo stesso con noi stessi, il processo è esattamente lo stesso. Nel tantra ci immaginiamo come dei Buddha, anche se sappiamo che non sta ancora accadendo. Poiché il nostro "io" convenzionale è una designazione sulla totalità del nostro continuum mentale, è una designazione valida sulla base di questo punto non ancora accaduto lungo la linea del nostro continuum. Per questo motivo possiamo validamente designare quel Buddha non ancora verificatosi come "io". Questo viene chiamato "avere l'orgoglio del divino". Come con il nostro maestro, tale imputazione si basa sull'aspetto delle nostre tendenze alle buone qualità di dare origine a un risultato quando le circostanze appropriate sono complete.

In generale, nel tantra miriamo a distinguere tutti come dei Buddha e tutto come una terra pura: in questo contesto, la persona che ci ha insegnato a leggere e la persona che per prima ci ha fornito informazioni sul Buddhismo verrebbero correttamente definite come Buddha, e lo stesso sarebbe per un cane, poiché ci stiamo concentrando sulle qualità della natura di Buddha di tutti gli esseri e vediamo che ognuno ha la capacità di essere un Buddha. In questo modo ci stiamo concentrando sul Buddha in fieri di ogni essere ma che non si è ancora manifestato. Come tuttavia già sottolineato, ciò non significa che essi siano già Buddha, e nemmeno che lo siamo noi quando visualizziamo noi stessi come Buddha e li designiamo come "io".

Livelli di distinzione dei nostri maestri come Buddha

Prima di prendere in considerazione il tantra, ci sono diversi livelli di ciò che significa relazionarsi al nostro maestro come un Buddha. Dal cosiddetto punto di vista hinayana, i maestri sono come il Buddha: al giorno d’oggi Buddha non è qui ad insegnare, ma come lui i maestri spirituali ci insegnano e ci aiutano a raggiungere la liberazione; ovviamente perché questo funzioni abbiamo bisogno, anche in questo contesto hinayana, di avere una ferma convinzione e fiducia nelle buone qualità del maestro come specificato nei testi; da un punto di vista mahayana, consideriamo i nostri maestri come emanazioni di un Buddha che ci insegnano e ci aiutano; dal punto di vista del tantra, tuttavia, non è come se fossero come un Buddha o semplicemente emanazioni di un Buddha. Secondo i testi, distinguerli come Buddha non è solo un abile espediente per aiutarci: essi affermano che essi sono Buddha. Dobbiamo capire cosa significa.

Secondo Sua Santità il Dalai Lama, l'unica situazione in cui il maestro spirituale deve essere letteralmente un Buddha è quando conferisce la quarta iniziazione in un'iniziazione anuttarayoga tantra a un discepolo che si trova nella fase finale del sentiero e sta per diventare un Buddha. Il motivo è che la quarta iniziazione mette il discepolo nelle condizioni di conoscere le due verità simultaneamente, in modo manifesto e non concettuale: solo un Buddha ha tale cognizione e quindi solo un Buddha può autorizzare qualcun altro a raggiungerla.

In tutte le altre situazioni nel tantra, sebbene sia una cognizione valida distinguere che il maestro spirituale è un Buddha, ciò non deve essere preso alla lettera: qualsiasi indagine approfondita rivelerebbe che il maestro spirituale, perfino un maestro tantrico, non è onnisciente, non può parlare tutte le lingue dell'universo e non può emanarsi in un trilione di forme. Ancora una volta, è simile all'analogia secondo cui per i fantasmi questo è pus, per gli uomini acqua e per gli dèi nettare: tutte e tre sono cognizioni valide. Non dobbiamo quindi pensare segretamente che distinguere il maestro come un Buddha sia solo un mezzo abile ma ingannevole: è valido.

Cosa possiamo imparare?

Quello che consegue dall’aver distinto il nostro maestro spirituale come un Buddha è che, una volta che siamo convinti che egli si occupa solo del nostro benessere e che questa è l'unica motivazione alla base della nostra interazione – e questo è corretto – vediamo allora tutto ciò che fa come un insegnamento e automaticamente pensiamo a cosa possiamo imparare da questo.

C'è una storia classica nei Jataka, le storie delle vite precedenti del Buddha, in cui un maestro disse a tutti i discepoli, tra cui il Buddha, di uscire e rubare per lui; tutti andarono ma Buddha non lo fece. Quando il maestro gli chiese: "Non vuoi compiacermi? Perché non esci e vai a rubare?”, Buddha rispose: "Come può il furto fare piacere a qualcuno?", il maestro ribatté allora: “Bene! Sei il solo che ha compreso la lezione”.

C'è anche l'esempio di quando Serkong Rinpoce deliberatamente insegnò qualcosa di totalmente errato nei suoi insegnamenti sulla vacuità a un gruppo di monaci occidentali e poi nella sessione successiva disse: “Forza! Quello che vi ho detto era completamente sbagliato. Non usate la vostra intelligenza per discriminare? Perché non avete chiesto nulla?”

Come un vero discepolo, non avremmo mai risposto alla spiegazione errata di Serkong Rinpoce pensando che fosse stupido e non sapesse nulla della vacuità, sarebbe stata una risposta sbagliata: la risposta corretta sarebbe stata domandarsi quale lezione stesse cercando di darci spiegando in un modo errato.

Ricordo un altro esempio, quando anni fa mi lamentai con Serkong Rinpoce del modo di scrivere di Nagarjuna. Dissi che era molto vago, troppi “questo è” e “quello è” ma non chiari a cosa si riferissero. Come faceva spesso, mi rimproverò: “Non essere così arrogante. Pensi che Nagarjuna non fosse in grado di scrivere un testo chiaro? L'ha scritto in questo modo apposta. Sei davvero arrogante!” E poi spiegò che lo compose in quel modo per far sì che gli studenti comprendano da soli il significato, è un espediente didattico.

Un'altra volta, ricordo che Rinpoce mi spiegò la matematica usata per i calcoli nell'astrologia tibetana. Il modo in cui i tibetani fanno aritmetica è molto diverso dal modo in cui lo facciamo noi, con addizioni, sottrazioni, divisioni, moltiplicazioni, ecc. La mia osservazione a Rinpoce fu "Questo è davvero strano", e di nuovo mi rimproverò di essere arrogante – l’arroganza è stata una delle mie più grandi emozioni disturbanti – e mi spiegò: “È diverso. Non strano, ma solo diverso”.

La lezione è che quando i nostri maestri sottolineano i nostri difetti e ci rimproverano, dobbiamo vederla come una lezione che ci stanno insegnando, piuttosto che come un segnale che non sono molto gentili.

Apprezzamento per la gentilezza del nostro maestro

Il secondo aspetto di un sano atteggiamento nei confronti del nostro maestro spirituale è l'apprezzamento della sua gentilezza (gus-pa). A volte questo termine viene tradotto come "rispetto" e benché in altri contesti possa significare rispetto, se esaminiamo effettivamente la definizione e l'applicazione della parola nel contesto della relazione con un maestro spirituale, in realtà si riferisce all'apprezzamento della sua gentilezza: naturalmente, se apprezziamo la sua gentilezza e pazienza nell'insegnarci, questo implica che è il motivo per cui lo rispettiamo.

Potremmo anche apprezzare la gentilezza degli insegnanti che ci hanno insegnato a leggere e scrivere o dei professori che ci hanno fornito informazioni sul Buddhismo all'università, indipendentemente dalle loro motivazioni, siano esse il lavoro, il voler guadagnare dei soldi o altro. Quanto a come relazionarsi e comportarsi con loro, in breve, cercando di sostenere il loro lavoro, aiutarli ed essere rispettosi. A scuola, ad esempio, non dobbiamo interrompere la lezione, non prestare attenzione o non fare i compiti che vengono assegnati per casa, ma pratichiamo in base a ciò che insegnano.

Questi sono principi generali che si potrebbero applicare a qualsiasi insegnante, non dovremmo pensare che siano solo per un maestro di un qualche livello di tantra, o simili. Sono le linee guida generali per apprezzare quanto sia incredibile che non siamo nati come dei vermi - un esempio comunemente usato che indica l’essere senza speranza e incapaci di migliorare la nostra condizione, perché non in grado di imparare nulla. Tutto ciò che ci è stato insegnato che ci consente di funzionare come esseri umani è dovuto all'incredibile gentilezza degli altri. Come sarebbe se fossimo cresciuti completamente isolati da tutti e nessuno ci avesse insegnato nemmeno a parlare? Non sapremmo come farlo. Queste sono in realtà linee guida molto pratiche.

Se guardiamo agli esempi classici del rapporto tra maestro e studente - il modo in cui Marpa trattava Milarepa e così via - spesso scopriamo che li picchiavano, gridavano loro o li rimproveravano: mi ritengo molto fortunato ad aver avuto quel tipo di relazione con Serkong Rinpoce che, anche se non mi ha mai picchiato, di sicuro mi ha rimproverato molto quando mi comportavo da idiota. Bisogna essere molto forti e maturi per poter resistere a questo genere di rapporto: non arrabbiarsi mai è, in un certo senso, parte del "contratto" della relazione studente-maestro nel Buddhismo. Ricordiamoci che sottoscrivere questo contratto implicito avviene con la piena consapevolezza, da entrambe le parti, che l'insegnante non abuserà di noi né farà nulla per danneggiarci in alcun modo.

Lasciate che vi dia un esempio dei duri metodi che Serkong Rinpoce usava con me, così cortesi ma efficaci: fatta eccezione per Kalachakra, Serkong Rinpoce non avrebbe mai accettato di insegnarmi alcunché, a meno che non lo avessi tradotto per qualcun altro; non me lo avrebbe insegnato in privato: ogni cosa che ho imparato da lui doveva essere studiarla allo scopo di giovare agli altri e non solo a me stesso: questo fu un modo incredibilmente gentile per aiutarmi a crescere.

Tuttavia sembra che in generale essere così severi non sia il metodo migliore per gli occidentali: la maggior parte di loro soffre di bassa autostima. Il mio problema era l'arroganza, non la scarsa autostima. I problemi per indiani, tibetani e cinesi spesso non sono una bassa autostima, che sembra essere un fenomeno prettamente occidentale. La maggior parte degli occidentali ha bisogno di un rinforzo per sapere che sta andando bene. Come già ho detto, i miei insegnanti, sia Serkong Rinpoce sia Geshe Ngawang Dhargyey, usavano l’immagine del non diventare come un cane in attesa di una pacca sulla testa - "Ben fatto" - e poi scodinzoliamo.

I tre tipi di convinzione

Riassumendo, il primo aspetto di un sano atteggiamento verso il nostro maestro spirituale è la ferma convinzione delle sue buone qualità. Abbiamo questo termine generale "depa" (dad-pa), spesso tradotto come "fede": questa può essere una traduzione molto fuorviante perché "fede" di solito implica una fede cieca; piuttosto, il termine significa "credere che un fatto sia vero". Stiamo parlando di un fatto, non il credere a Babbo Natale, o credere che il mercato azionario salirà: deve trattarsi di un fatto e noi crediamo che esso sia vero. Nel contesto dell’essere convinti delle buone qualità del nostro maestro, il fatto che abbia queste qualità deve essere un dato di fatto e dobbiamo essere decisivi su questo fatto.

Ci sono tre tipi di credenze che un fatto sia vero, come le buone qualità del nostro maestro:

  • Credere a un fatto basato sulla ragione - basato sull'evidenza, logica o d’osservazione.
  • Credere con lucidità a un fatto riguardo a qualcosa - libera le nostre menti dalle emozioni disturbanti. Credere che sia vero che il nostro maestro ha buone qualità ci libera da dubbi, gelosia, arroganza ("Lo so meglio di te"), rabbia ("Non hai abbastanza tempo per me") e dall’afferrarci a lui con avidità e possessività ("Ti voglio per me, solo per me e per nessun altro"). Quando siamo pienamente convinti delle sue buone qualità ci rendiamo conto che questi atteggiamenti egocentrici sono assurdi. Il maestro è lì per aiutare tutti, non solo noi.
  • Credere in un fatto con un'aspirazione che lo riguarda - essendo pienamente convinti e rispettosi delle sue buone qualità, aspiriamo a cercare di diventare così, è quanto desideriamo emulare.

C'è un altro punto rilevante. Come accennato prima, non è necessario che tutti coloro che vanno in un centro di Dharma debbano sentire che il loro maestro spirituale debba essere il fondatore dell'organizzazione a cui appartiene il centro; se troviamo che tale maestro ci ispira ad "aspirare a sviluppare le sue buone qualità" non significa che dobbiamo compiere ogni singola pratica in cui lui si impegna, solo perché pratica questo o quello yidam non vuol dire che sia adatta anche a noi: ognuno ha un karma completamente diverso, ovviamente. Attraverso rinascite senza inizio, abbiamo studiato con molti maestri diversi in molte tradizioni diverse ed abbiamo istinti per molte cose diverse, non solo per ciò che pratica un maestro particolare.

Certamente, i tipi generali di insegnamenti e pratiche che il maestro ha svolto sarebbero naturalmente utili per noi, ma non necessariamente in ogni dettaglio. Ad esempio Serkong Rinpoce non fu solo un incredibile maestro tantrico e, come Sua Santità, un maestro di tutte e quattro le classi di tantra, ma anche uno dei principali partner di dibattito di Sua Santità, quindi il migliore in assoluto nel suo monastero. Ma io che provenivo dall’ambiente di Harvard, ero già incredibilmente logico, razionale e intellettualmente molto aggressivo; i miei insegnanti sapevano, come lo sapevo anch’io, che se avessi studiato il dibattito mi avrebbe portato a diventare quello che chiamo un "mostro del dibattito", cioè qualcuno che non sa mai quando smettere di discutere e non distingue quando è appropriato e quando non lo è: non importa quello che qualcuno dice, se è illogico, una simile persona salta e attacca, come in un dibattito.

Pertanto, sebbene Serkong Rinpoce fosse un maestro del dibattito, non mi incoraggiò mai a studiarlo, né mi insegnò a dibattere poiché non sarebbe stato utile per la mia personalità, non era quello di cui avevo bisogno: avevo bisogno invece che senza alcuna pietà mi facesse notare costantemente quando mi comportavo da idiota.

Questi sono i diversi tipi di ferma convinzione.

La gentilezza del nostro maestro spirituale

Il secondo aspetto di un atteggiamento sano verso il nostro maestro spirituale è l'apprezzamento per la sua gentilezza. Ci sono molte descrizioni della sua gentilezza: qui e ora con noi non c’è il Buddha ad insegnarci ma il nostro maestro, e a questo si riferiscono i testi affermando che i nostri insegnanti sono più gentili dei Buddha.

Una delle meravigliose qualità di un maestro veramente qualificato è che prende tutti sul serio: se siamo sinceramente interessati all'apprendimento, anche se ci troviamo a un livello molto basso, ci prende sul serio e ci insegna adeguandosi al nostro livello. Ad esempio una volta un hippie strafatto venne a trovare Serkong Rinpoce e gli chiese di insegnargli i sei yoga di Naropa; Rinpoce non lo rimproverò perché era stordito, né lo cacciò o nemmeno fece qualcosa di simile, al contrario lo prese molto sul serio. L'effetto di prendere sul serio le persone è che esse stesse iniziano a farlo. E così Rinpoce gli disse: “Molto bene. Se davvero vuoi farlo, allora devi iniziare in questo modo!” e gli spiegò cosa doveva fare prima di poter finalmente studiare i sei yoga di Naropa. Questo è un esempio di cosa significa prendere qualcuno sul serio. Insegnare invece i sei yoga di Naropa a qualcuno che è completamente impreparato non sarebbe gentile.

Apprezzare il nostro maestro spirituale

Kacen Yesce Gyaltsen, il tutore del Settimo Dalai Lama, approfondì questo senso di apprezzamento per la gentilezza del maestro nel suo Indicare con chiarezza le menti primarie e i fattori mentali: significa che stimiamo e amiamo il maestro e ne apprezziamo gentilezza. "Stimare" significa nutrire un grande rispetto per loro, porta con sé questa connotazione di rispetto. "Apprezzare" significa un tipo di amore premuroso, e ciò porta alla luce l'intera discussione sull'opportunità o meno di amare il nostro maestro. Dobbiamo davvero amarlo? E se sì, di che tipo di amore si tratta?”

Abbiamo già visto che abbiamo quel tipo di fede nelle sue buone qualità che elimina dalle nostre teste le emozioni disturbanti nei suoi confronti. Pertanto, quando diciamo che lo apprezziamo e amiamo, non significa certamente con desiderio ardente e lussuria come una sorta di partner sessuale o che siamo possessivi e lo vogliamo solo per noi stessi: la definizione di amore nel Buddhismo è “il desiderio che gli altri siano felici e abbiano le cause della felicità", e noi di certo desideriamo che sia felice.

A proposito del comportamento con il maestro, è pratica comune fare offerte, donare oggetti per compiacerlo: ciò che più gli piace è la nostra pratica. Questo rientra forse nel desiderare che sia felice? La questione qui diventa un po’ delicata perché, come detto, vogliamo compiacerlo ma la verità è che i Buddha hanno equanimità, come una tigre verso l'erba. Non vogliamo compiacerli in modo infantile, per ottenerne approvazione, pacche sulla testa e complimenti così noi scodinzoliamo; lo amiamo con premura in quanto vorremmo constatare che mangia bene, è a suo agio, ha un giaciglio adeguato o qualsiasi altra cosa. Siamo premurosi, non è forse questo un aspetto dell'amore?

“Avere a cuore” nel contesto dell'allenamento su causa ed effetto in sette parti

Kachen Yeshe Gyaltsen usa questo termine solitamente tradotto come "avere a cuore" che appare anche negli insegnamenti di bodhicitta, nel processo di causa-effetto in sette parti per lo sviluppo di bodhicitta.

  • Si comincia con il passo preparatorio zero, non contato tra i sette: l'equanimità in cui non proviamo attrazione, repulsione o indifferenza verso alcuno, e ciò livella il nostro atteggiamento verso tutti gli altri.
  • Successivamente, distinguiamo la caratteristica che tutti in un certo momento sono stati nostra madre.
  • Poi ricordiamo la gentilezza dell'amore materno, la gentilezza che in un certo momento abbiamo ricevuto da tutti. Ricordiamo che stiamo apprezzando la gentilezza che abbiamo ricevuto dal nostro maestro spirituale ma, in innumerevoli vite, tutti ci hanno insegnato, tutti prima o poi sono stati nostri maestri.
  • Successivamente viene quello che di solito è tradotto come "ripagare tale gentilezza". Dobbiamo stare molto attenti a questo termine in modo da evitare qualsiasi senso di colpa per non aver contribuito o per avere un debito da ripagare: non stiamo qui parlando di un atteggiamento simile, al contrario naturalmente vogliamo bilanciare la situazione.

Ciò che ne consegue automaticamente è che abbiamo un amore caldo. "Amore caldo" (yid-’ong byams-pa) è un termine difficile da esprimere; letteralmente, il termine tibetano è "amore che con facilità sorge nella mente". Nella spiegazione di questo amore, arriviamo adesso alla parola che stiamo approfondendo. Abbiamo a cuore l'altro, ci dà un grande piacere vederlo e, se dovesse accadergli qualcosa di brutto, ci sentiremmo malissimo: questo tipo di amore consegue automaticamente dal passaggio precedente, senza dover fare ulteriori meditazioni. Non avrebbe senso se traducessimo il passaggio precedente come "ripagare la gentilezza": sentirsi in colpa o in debito non produrrebbe gioia nel vedere gli altri, nell’apprezzarli o nel sentirsi malissimo se accadesse loro qualcosa di brutto, e dunque non può essere davvero la connotazione corretta di questo passaggio precedente.

Se approfondiamo ancora un po’ la nostra analisi, notiamo che lo stato mentale che soggiace a questo voler bilanciare la gentilezza con l'essere a nostra volta gentili con qualcuno è un profondo senso di gratitudine: riconosciamo e apprezziamo veramente la gentilezza e ne siamo davvero grati. "Sono così grato per quanto aiuto mi hai dato che, quando ti vedo, mi illumino. Sono così felice di vederti. Ti apprezzo e voglio che tu sia felice. Sarebbe terribile se ti accadesse qualcosa di brutto". Questo è quanto proviamo, ed è tutto a causa di quella gratitudine, di quell'apprezzamento, alla luce di quanto qualcuno è stato gentile con noi.

Abbiamo il termine "avere a cuore" anche nel contesto di eguagliare e scambiare i nostri atteggiamenti con quelli degli altri. Invece di pensare di noi – "Sono così grande, sono interessato solo a me stesso" – lo pensiamo degli altri: ci prendiamo cura di loro tanto quanto ci siamo presi cura di noi stessi. È lo stesso termine.

Quando ci addentriamo nella discussione su cosa significa amare il nostro maestro, arriviamo al termine "avere a cuore" che troviamo nei testi: con lui non ci sono emozioni disturbanti, quando siamo insieme al nostro maestro o anche solo pensiamo a lui, "riscalda il nostro cuore" e ci riempie di gioia.

Ad esempio nella pratica di Vajrayogini c'è il punto in cui immaginiamo che il nostro maestro entri nella nostra testa e si dissolva in noi; troviamo qualcosa di simile in quasi ogni pratica. Ciò che qui viene enfatizzato è provare intensa gioia e piacere nel fondersi con lui; non significa fondersi sessualmente, ma fondere le sue buone qualità di corpo, parola e mente con le nostre, il punto centrale del guru-yoga. Nella pratica di Vajrayogini questa incredibile sensazione di gioia e piacere si espande fino al raggiungere le dimensioni dell'universo e poi, con la comprensione della vacuità di quella gioia, la nostra mente diventa sempre più sottile.

A proposito dell’avere a cuore il nostro maestro, il punto è provare questa incredibile sensazione di piacere e gioia quando lo vediamo o anche solo pensiamo a lui o lei, figuriamoci quando siamo impegnati nella pratica del guru-yoga. Il corollario naturale, ovviamente, è che desideriamo prendercene cura e ci sentiremmo davvero male se gli accadesse qualcosa di brutto: vogliamo che abbia le risorse per poter aiutare gli altri, desideriamo prendercene cura quando sta male, ecc.

Non è facile provare realmente questa gioia, specialmente se compiamo questa fusione come parte della nostra pratica quotidiana in una sadhana, una pratica di recitazione tantrica. Come possiamo svilupparla se davvero abbiamo una relazione corretta con il maestro spirituale? Apprezzandone la gentilezza, esattamente come nella meditazione di bodhicitta in sette parti: prima pensiamo alla sua gentilezza, per poi generare un toccante sentimento di gratitudine che porta automaticamente a questo stato mentale molto gioioso, un amore che commuove.

L’ispirazione dal maestro

Ciò che segue da tutto questo è la pratica tradizionale nota come "fare richieste" o solua deb (gsol-ba ’debs) in tibetano, che si trova in ogni tipo di pratica. Ciò che chiediamo ovviamente non è nulla di materiale, una Mercedes o simili; quello che leggiamo spesso nella traduzione è "Benedicimi affinché possa fare questo o quello", ma non è una traduzione accurata di ciò che chiediamo e proviene da un diverso punto di vista religioso tradizionale: il termine tradotto come "benedizione" ha la connotazione di ispirazione, che illumina ed eleva le nostre menti con maggiore energia, "chingyilab" (byin-gyis rlabs) in tibetano. In effetti, quindi, ciò che chiediamo è l'ispirazione, "Ispirami ad essere più compassionevole o ad avere una maggiore comprensione verso i miei genitori o i miei figli", o qualsiasi cosa per cui abbiamo bisogno di ispirazione. Dobbiamo applicare le nostre richieste alle situazioni attuali nella nostra vita quotidiana.

Non dobbiamo pensare all'ispirazione come a qualcosa di simile a un pallone in mano al nostro maestro e che egli ci lancia: ancora, con ferma convinzione nelle buone qualità del nostro insegnante, ricordiamo e rivediamo le sue buone qualità, quanto sia paziente, quanto comprenda gli altri; osservando e pensando a questo, siamo ispirati a seguire quell'esempio e cerchiamo di essere così.

Nella mia esperienza, dopo che il maestro muore l’ispirazione diventa ancora più forte e molti mi hanno confermato questa sensazione. Serkong Rinpoce morì nel 1983. Quando il maestro è vivo, spesso si trova altrove e potremmo avvertirlo piuttosto distante, ma una volta morto è molto più interiorizzato, sentiamo che è sempre con noi.

In realtà con noi ci sono i valori e gli esempi del suo comportamento: quando sono in una situazione difficile penso a come Serkong Rinpoce la affronterebbe, cosa farebbe, oppure mi chiedo come la affronterebbe Sua Santità il Dalai Lama. Tutti possiamo trarre ispirazione per cercare di essere come i nostri maestri, è molto utile ma per farlo è ovviamente necessario avere familiarità con il modo in cui il nostro maestro gestisce le diverse situazioni: spesso non ne abbiamo la possibilità, ma se lo facciamo è fantastico.

Moltissimi testi ricordano quanto sia importante fare richieste e pertanto è importante capire cosa significa, cosa chiediamo e perché. L'ispirazione del nostro maestro spirituale è spesso chiamata la radice del sentiero: è ciò che ci dà energia, ci ancora al terreno e ci dà stabilità; sappiamo che altri hanno seguito questo sentiero spirituale prima di noi e che non siamo soli.

Domanda sulla trasmissione orale

Può spiegare la questione della trasmissione orale in generale e, più specificamente, di come tutte le trasmissioni orali risalgono a Buddha Shakyamuni? Se abbiamo ricevuto una trasmissione orale per una particolare pratica da un maestro, dovremmo aspirare a ricevere trasmissioni orali per quella stessa pratica anche da altri insegnanti?

L'usanza della trasmissione orale nacque nel contesto dell'antica India, dove originariamente nessuno degli insegnamenti veniva scritto e l'unico modo per apprenderli era di ascoltarli dallo stesso Buddha Shakyamuni oppure mentre venivano recitati dalle generazioni successive di discepoli. Ciò implica la memorizzazione: qualcuno lo memorizza e altri poi ascoltandolo più e più volte sono in grado di memorizzarlo a loro volta; ancora oggi vediamo che tra i tibetani tutti memorizzano i testi prima di studiarli, perfino le puja.

Ci sono tre tipi di consapevolezza discriminante che sorgono: prima dall’ascolto, poi dalla riflessione e infine dalla meditazione. Per cominciare, dobbiamo essere molto decisi riguardo alle parole degli insegnamenti che ascoltiamo: dobbiamo distinguere che sono accurate, che sono le reali parole degli insegnamenti e che le abbiamo ascoltate correttamente e solo in seguito possiamo iniziare a riflettervi e cercare di capirle.

Per questo motivo dobbiamo prima ricevere la trasmissione orale da qualcuno che ha memorizzato correttamente l'insegnamento: quando la ascoltiamo dobbiamo ovviamente prestare attenzione, non addormentarci, ecc.; poi, alla fine, possiamo memorizzare le parole e trasmettere l'insegnamento alle generazioni successive. Questo è il contesto in cui nacque la consuetudine della trasmissione orale.

Ero solito pensare che la persona che dava la trasmissione orale dovesse effettivamente capire il testo in modo che chi la riceveva ne fosse ispirato: se chi recita il testo lo capisce davvero chi ascolta avrebbe la fiducia di poterlo comprendere, ma ho scoperto che è non è così.

Il padre del precedente Serkong Rinpoce, il primo Serkong Dorjechang, fu uno dei più grandi yogi dell'inizio del secolo scorso, del lignaggio di Kalachakra. Uno dei testi più difficili di Tsongkhapa è Drang-nges legs-bshad snying-po, o L’essenza delle buone spiegazioni dei significati interpretabile e definitivo. Sebbene ci sia un lignaggio e una trasmissione orale dallo stesso Tsongkhapa, Serkong Dorjechang ebbe una visione di Tsongkhapa durante un ritiro, in cui Tsongkhapa gli diede un'altra trasmissione speciale del testo.

Il vecchio Serkong Rinpoce ricevette quella trasmissione orale da suo padre e, sebbene fosse un testo di 250 pagine, Rinpoce lo recitava a memoria ogni giorno in aggiunta alle recitazioni tantriche e a tutte le sue pratiche quotidiane. Pur essendo uno degli insegnanti di Sua Santità il Dalai Lama, egli non gli diede mai quella trasmissione orale, dicendo che aspettava fino a quando non avesse avuto qualche comprensione molto speciale per poterlo spiegare a Sua Santità.

Ma il precedente Serkong Rinpoce morì prima di poterlo fare. Alcuni anni fa, la sua reincarnazione, il giovane tulku che ora ha ventisette anni, disse che voleva davvero ricevere questa trasmissione. Gli sono molto vicino, come lo ero con il suo predecessore. Stava cercando qualcuno che avesse questa trasmissione per potergliela dare.

Si scoprì che io ero praticamente l'unico rimasto ad aver ricevuto la trasmissione orale dal suo predecessore, il vecchio Serkong Rinpoce, che l'aveva data a un gruppo di sole tre persone, e io ero una di queste; ciò che fu ancora più incredibile è che diede la trasmissione orale a memoria, nella forma classica, non dalla lettura del testo. Tuttavia, sebbene avessi la trasmissione orale, non avevo mai studiato e nemmeno letto il testo.

Chiesi a Sua Santità il Dalai Lama se avessi potuto dare la trasmissione orale e Sua Santità mi spiegò che, a prescindere dal fatto che avessi studiato e compreso o meno il testo, avrei dovuto dare la trasmissione orale al giovane Serkong Rinpoce. Mi esercitai a recitare il testo ad alta voce finché fui in grado di leggerlo a una velocità sufficiente in modo che non fosse una tortura per lui ascoltarlo ma non lo memorizzai, poi mi recai in India per incontrare Rinpoce e gli diedi la trasmissione orale. La cosa veramente bella è che alcuni mesi fa a Bodhgaya, Rinpoce diede la trasmissione orale per la prima volta a un gruppo di tibetani, inclusi Lama Zopa e Dagri Rinpoce, continuando a tramandarlo.

Ho forse trasmesso le benedizioni di questo testo? Non posso dirlo. C'è stata qualche ispirazione? Certamente nessuna dovuta a una mia comprensione o realizzazione, poiché non ho mai nemmeno studiato il testo, ma c'è una sorta di ispirazione dal fatto che c'è continuità. Certamente ha portato beneficio: dicono sempre che se riceviamo la trasmissione orale, questa fungerà da circostanza per aiutarci a capire meglio il testo e per questo motivo è sempre utile ricevere più volte una trasmissione orale.

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