Dott. Alexander Berzin: la mia infanzia e la mia formazione alla Rutgers University

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Introduzione

Derek Kolleeny, un maestro di lunga data del Buddhismo tibetano, mi chiese qualche tempo fa di condividere la storia della mia vita con gli studenti presenti e futuri del Buddhismo, in modo tale che possano conoscere le esperienze dei primi traduttori e maestri occidentali del Buddhismo sia nella loro formazione, che nei loro sforzi per beneficiare il Dharma e offrire gli insegnamenti agli altri. Le difficoltà che abbiamo affrontato sono state minime se paragonate a quelle dei grandi traduttori del passato che offrirono gli insegnamenti del Buddha in tutta l’Asia. Non è stato necessario per noi attraversare i deserti dell’Asia Centrale o l’Himalaya, ma abbiamo incontrato altre sfide.

Una delle ragioni per cui accettai la sua richiesta era la seguente: era fondamentale che le persone comprendessero che le risorse attuali per lo studio del Buddhismo non sono nate dal nulla, improvvisamente. Questo è un punto che ho sentito molto. Tutte queste risorse sono nate in base a cause e condizioni in costante mutamento. Sebbene ora il materiale del Dharma appaia istantaneamente sui nostri dispositivi digitali, dando l’impressione ingannevole che si sia generato da sé, dobbiamo la sua creazione al tantissimo lavoro svolto dalla mia generazione e quella precedente. Espandere e continuare questo compito similmente richiederà molto duro lavoro in futuro, ma in forme diverse.

Sebbene ci siano molti articoli sulle varie fasi della mia vita disponibili al link https://studybuddhism.com/it/dr-alexander-berzin, ciò che segue si concentra sulla mia infanzia, l’educazione, la formazione e come questo mi abbia offerto la possibilità di svolgere tutte le mie attività di Dharma fino al momento presente, marzo 2025. Molte altre persone mi hanno chiesto ripetutamente di scrivere un’autobiografia. Per soddisfare entrambi gli scopi ed evitare che sia solo una fredda lista di quello che ho fatto e ho studiato, aggiungerò alcuni dettagli che descrivono le relazioni più strette che ho avuto e le persone che ho incontrato, nonché le storie di alcune mie esperienze e posti che ho visitato. Offrirò anche le mie impressioni riguardo a quello che sento di aver imparato da ciascuna esperienza.

Nel condividere il mio viaggio personale, spirituale, e professionale e le varie sfide che ho dovuto affrontare, cercherò di offrire un quadro più completo di quello che forse Kolleeny aveva chiesto – un ritratto di me stesso più in linea con quello che il mio maestro, il secondo Serkong Rinpoche, aveva spiegato. In una chat sulla relazione tra maestro e studente che abbiamo recentemente videoregistrato, spiegava che il primo passo nel relazionarsi a un maestro spirituale consiste nel vedere la persona come un essere umano che ha gli stessi bisogni e qualità di tutti gli altri. A prescindere da dove si trovino, i maestri spirituali si stancano e hanno bisogno di riposarsi, hanno cose che piace loro fare quando si rilassano, hanno amici, e così via. Penso che potremmo applicare questo punto nelle nostre relazioni con chiunque.

Aggiungerei che, se avete studiato la vacuità delle persone, il secondo passo è applicarla a loro. Una persona non esiste realmente come una sorta di entità concreta identificabile con solo un aspetto o evento della sua vita; né una persona è totalmente, essenzialmente diversa in ciascuna fase della vita. In maniera simile, una vita non esiste da qualche parte nei potenziali karmici, predestinata quando nasciamo e che semplicemente aspetta di svolgersi, in base alle circostanze. Né gli eventi in una vita esistono [in sé e per sé], essendo sorti senza alcuno sforzo da parte nostra ma apparentemente solo per quello che fanno e hanno fatto gli altri. Una vita non esiste come un’unità concreta, a cui possiamo attribuire etichette come “fortunata”, “incredibile”, o persino “significativa”. Né esiste come fasi o episodi concreti e disconnessi tra di loro, riguardo i quali possiamo dire che erano “difficili” o “magici”.

La vita invece sorge in modo dipendente, momento per momento, passando da un episodio all’altro, da cause e circostanze, sia esterne che interne; inoltre, nulla di tutto ciò, individualmente o collettivamente, è qualcosa di concreto, stabilito in sé e per sé. Nulla di tutto questo esiste, agisce o avviene in modo indipendente. Per via di questo, una vita sorge in modo dipendente in un secondo senso: la vita interessante di una persona può solo sorgere ed essere stabilita come una “vita interessante della persona” in base alle parole e i concetti etichettati convenzionalmente come “persona”, “interessante”, e “vita”. Nulla di più, nulla di meno.

I miei genitori e i miei fratelli e sorelle

Sono nato il 10 dicembre 1944 a Paterson, nel New Jersey, in una famiglia ebrea secolare della classe operaia. Quando in seguito studiai il calendario tibetano, notai come fosse la data, in quell’anno, del Ganden Ngamchoe, l’anniversario della morte di Tsongkhapa.

Mio padre, Isadore Berzin, veniva da una famiglia di immigrati giunti in America da quella che ora è la Lettonia nella Russia imperiale. A tredici anni perse quasi totalmente l’udito a causa di una brutta malattia. Incapace di ascoltare in classe, dovette smettere di andare a scuola. Suo padre, un diabetico, era spesso troppo ammalato per lavorare, e c’erano cinque fratelli e sorelle più piccole, più tre cugini, a casa che sua madre doveva accudire. Siccome era il più grande, andava fuori a lavorare sebbene avesse questo handicap, prendendosi la responsabilità e aiutando ad accudire tutti quanti. Il suo impegno nel prendersi cura della famiglia, particolarmente di sua madre quando invecchiò e di sua moglie, mia madre, continuò per tutta la sua vita. Forse per via del suo esempio, anche io mi presi l’impegno di prendermi cura di mia madre – non in modo materiale, ma chiamandola ogni settimana quando ero all’università e poi scrivendole sempre ogni settimana mentre vivevo in India.

Da adulto mio padre lavorava con uno dei suoi fratelli nel business dei rottami di ferro, una prima versione del riciclo. Ognuno di loro aveva un camion e andavano in varie fabbriche, prendevano i rottami contenuti in pesanti barili e li vendevano in un deposito di rottami che apparteneva a quei cugini di cui mio padre si era preso cura da giovane. Questi cugini ora erano molto più ricchi di lui, e non deve essere stato facile. Tornava a casa ogni sera con le mani sporche dal lavoro. Non avevo un buon atteggiamento verso il lavoro che faceva.

Mia madre, Rose Berzin, proveniva anche da una famiglia di immigrati che avevano vissuto nella Russia imperiale – nel suo caso, dalla Polonia. Siccome anche la sua famiglia era molto povera, anche lei dovette abbandonare gli studi alle scuole superiori. Andò a lavorare all’età di quattordici anni. I suoi genitori, i due fratelli e sorelle erano tutti grandi amanti della cultura Yiddish, specialmente del teatro e della musica, ed erano socialmente e politicamente attivi. Sebbene fossero poveri, invitavano a cena a casa loro gli immigrati appena arrivati il venerdì sera, e i suoi fratelli e sorelle gli recitavano poesie per intrattenerli.

Mia madre era l’eccezione della famiglia. Era quella timida e quieta. Non aveva gli stessi interessi o attività dei fratelli e delle sorelle, e non avrebbe mai pensato di competere con loro. Non era emotiva ma, nel suo modo calmo, era molto gentile, in particolare verso quelli meno fortunati di lei. Anche se non aveva appreso molto dai libri, aveva tanto buon senso. Da adulta lavorava come contabile in un piccolo ufficio. Sia al lavoro che a casa, essendo molto pratica ed efficiente, si prendeva immediatamente cura di qualunque cosa fosse necessario fare, in modo diretto e senza mai perder tempo. Mi insegnò a fare lo stesso. Ad esempio rispondo alle e-mail non appena le ricevo, e svolgo tutti i vari compiti non appena mi si presentano. Come lei, anch’io evito di competere con gli altri e cerco di evitare ogni conflitto. Inoltre, come lei, non sono molto emotivo.

Ho una sorella, Charlotte, di sette anni più grande. Quando eravamo piccoli, non giocavamo quasi mai insieme, e si sposò quando avevo undici anni, diventando Charlotte Goodnough. Raggiunti i ventun anni, aveva già due figli, Glen e Gary, e in seguito lavorò nell’ufficio di una scuola superiore. È molto socievole, estroversa ed empatica, e parla facilmente con chiunque; sente molto le sue emozioni e le esprime liberamente – proprio l’opposto di me, specialmente quando ero piccolo. Sebbene sia molto intelligente, non andò mai all’università, cosa che fecero i suoi figli. Glen divenne un giudice, mentre Gary un professore di counseling all’università. Per me sono come dei fratelli più giovani, non come dei nipoti. Anche se non ho mantenuto molto i contatti con mia sorella o con i miei nipoti mentre vivevo in India, dal 1998, quando tornai a vivere in occidente, li chiamo tutti ogni settimana.

I miei genitori avevano anche un altro figlio, Joel, che morì improvvisamente quando aveva due anni, prima che nascessi. Apparentemente gli rimase del cibo in gola. Fu portato in ospedale durante la notte mentre imperversava una bufera di neve. Tossiva fortemente, e morì soffocato prima che un dottore potesse fare qualcosa. Nessuno nella famiglia parlò mai di lui.

Nacqui l’anno dopo, e sembravo proprio come Joel. Durante la mia crescita, sentivo che ero stato concepito per rimpiazzarlo. Pensai che se non fosse morto, non sarei mai nato, e quindi ero responsabile per la sua morte. Sebbene non ci pensassi quasi mai mentre crescevo, questo senso di colpa del sopravvissuto ebbe successivamente un ruolo nel mio sviluppo spirituale. Mi fece riflettere quando cercavo di comprendere gli insegnamenti buddhisti sul karma e la rinascita.

La mia infanzia

Sin dai primi anni di vita, ho sofferto di una brutta forma di asma, e per via di questo sono stato ricoverato spesso in ospedale durante la mia infanzia. La mia prima memoria era di essere in una culla in ospedale mentre vedevo dalla finestra una parata che passava per la strada giù di sotto. Ricordavo di piangere perché non potevo uscire per andarla a vedere, ma nessuno rispose al mio pianto. Anche a casa, mio padre non poteva sentirmi piangere quando rimaneva solo con me. Prese il suo primo apparecchio acustico solo dopo che i vicini confidarono a mia madre la loro frustrazione nel sentirmi piangere quando lei usciva. Tuttavia, il non essere stato emotivamente confortato da piccolo mi ha insegnato a diventare autosufficiente, e a non contare su nessuno per soddisfare questo bisogno in una relazione personale. Per quanto fosse doloroso, ha avuto il beneficio di farmi rivolgere al Dharma per soddisfare questo bisogno.

Poiché assomigliavo a mio fratello morto a soli due anni, specialmente quando soffrivo d’asma mia madre era molto protettiva, ma non volevo essere trattato come un bambino – volevo fare tutto da solo. Questa spinta ad essere indipendente è rimasta con me tutta la mia vita. Non volevo nessuna restrizione nel realizzare e sfruttare tutto il mio potenziale. Mia madre era molto gentile, e si assicurò che avessi tutta la libertà di crescere. Quando ero bambino mi leggeva moltissimi libri, e non appena imparai a leggere, mi iscrisse in un club per bambini, “Il libro del Mese”. In questo programma ogni mese mi inviavano un classico da leggere. Successivamente, per via del mio interesse, mi iscrisse anche in un programma simile per libri di fantascienza. Qualche anno dopo, disse a mio padre di comprarmi un’enciclopedia illustrata, “Il libro della conoscenza”, che amai tantissimo.

Da bambino non avevo nessuno sport e nessun interesse nel vedere eventi sportivi, o persino andare nel triciclo che mio padre mi aveva comprato. Non desiderai mai imparare ad andare in bicicletta o guidare una macchina, e in effetti non ho mai guidato. Mio padre provò a portarmi con lui sul camion e a una gara di baseball, ma mi annoiavo totalmente.

Sin dalla tenera età, la mia passione era studiare e imparare qualunque cosa. Amavo la scuola, e amavo fare i compiti. Adoravo pure fare gli esami. Ero sempre molto motivato, disciplinato e naturalmente concentrato. Non ebbi bisogno di alcun incoraggiamento o aiuto dai miei genitori. Nel corso di tutta la mia formazione, tutto fu facile e veloce, e ricevevo sempre voti alti in ogni materia accademica. Passai due volte alla classe seguente, e quindi ero più giovane della gran parte dei miei compagni di classe. Il mio nomignolo al liceo era “Professore”.

Tutte le mie zie, gli zii, e i cugini dei miei genitori vivevano a pochi chilometri gli uni dagli altri. Erano tutte persone molto gentili, e nessuno beveva o fumava. Tutti erano molto amichevoli tra di loro, e li visitavamo spesso. Sebbene avessi molti cugini, solo due di questi avevano la mia età. Giocavamo insieme quando i miei genitori li visitavano, ma non mi è mai piaciuto molto giocare.

Non ero felice in questi primi anni. Ero un bambino paffuto, arrogante, e francamente odioso che correggeva gli insegnanti ed era troppo intelligente per il suo stesso bene. Praticamente non avevo amici, e occasionalmente fui bullizzato a scuola. La formazione buddhista include sia il metodo che la saggezza, il cuore e la mente. Non avrei avuto molti problemi a sviluppare la mente. Sarebbe stato molto più difficile per me sviluppare il cuore. Avevo bisogno di lavorare molto sul miglioramento della mia personalità e capacità sociali.

L’inizio dello studio delle lingue straniere

Entrambi i nonni morirono prima della mia nascita, ma le due nonne erano ancora vive durante la mia infanzia, e parlavano solo in yiddish. Per via di questo, quando compii otto anni, i miei genitori mi mandarono a scuola di yiddish per imparare un po’ la lingua e la cultura. Ero felice di andare, e sviluppai un amore per le lingue straniere e i caratteri non romani. Inoltre, due dei miei cugini da parte di mia madre erano in un gruppo teatrale che offriva in inglese alcune delle opere del grande drammaturgo yiddish Shalom Aleichem. Quando fui abbastanza grande mi unii anch’io al gruppo. Anche da giovane adolescente, non ero mai nervoso di parlare davanti a un pubblico.

Per fare un piacere a mio padre, frequentai anche una scuola ebraica quando avevo undici anni per prepararmi al mio bar mitzvah. Sebbene la gran parte dei ragazzi iniziasse prima, mia madre disse al maestro, il Rabbino Reuben Kaufman, di non preoccuparsi del fatto che iniziassi così tardi. Lo assicurò che non avrei avuto alcun problema a recuperare, perché già conoscevo i caratteri ebraici. Accettò gentilmente e mi fece frequentare la classe, e quindi ogni giorno dopo la scuola camminavo fino al suo tempio. Lì leggevamo un libro per bambini sulla storia degli ebrei e le vacanze ebraiche. Mi sarebbe piaciuto imparare le credenze religiose ebraiche, ma il Rabbino Kaufman non ne parlò mai. Per quanto riguardava lo studio della lingua ebraica, semplicemente leggevamo la Genesi, memorizzando l’equivalente inglese di ogni parola. Il Rabbino Kaufman ci chiamava uno ad uno fino alla cattedra, e ciascuno di noi doveva recitare in inglese il brano del giorno. Sfortunatamente non ci insegnò mai la grammatica, che desideravo fortemente conoscere. Dovetti apprenderla il più possibile da solo.

Ci fu insegnato come cantare i rituali in ebraico, ma non ci fu mai spiegato il significato di quei canti. Al mio bar mitzvah, condussi e cantai tutta la funzione del mattino – non per devozione religiosa, ma principalmente per sfoggiare quello che ero capace di fare. Il Rabbino Kaufman era seduto accanto a me, pieno di speranza che avrei seguito i suoi passi. Mio padre fu molto orgoglioso di me, particolarmente perché c’erano presenti anche i suoi ricchi cugini, ma io non tornai più. Anche se i canti mi piacevano un po’ in un certo senso, non li trovavo soddisfacenti. Senza conoscere il significato, era un rituale vuoto, e io cercavo qualcosa di più profondo. In seguito, quando mi imbattei nei rituali buddhisti tibetani, inizialmente ebbi lo stesso atteggiamento. Fortunatamente, avevo la maturità e la pazienza di non rifiutarli totalmente, ma di aspettare per poterne imparare il significato.

All’età di dodici anni, ispirato forse da “I libri della conoscenza”, sviluppai l’aspirazione di acquisire la conoscenza del pensiero spirituale e i successi letterari di tutte le civiltà nel corso di tutta la loro storia, e di essere in grado di metterle insieme e di conoscerle tutte contemporaneamente. Con questo altezzoso obiettivo in mente, cominciai a leggere di più di prima, concentrandomi sui classici della letteratura occidentale. Leggevo velocemente, e quando i libri non erano troppo lunghi, li divoravo al ritmo di uno al giorno. Mia madre cominciò a preoccuparsi un po’. Per farmi allontanare dai libri, i miei genitori mi mandarono prima in un campo estivo durante la giornata, e poi anche mi fecero dormire lì, in modo tale da essere fisicamente attivo e socializzare con altri ragazzi della mia età. Era qualcosa di cui avevo molto bisogno.

Alle scuole superiori frequentavo le cosiddette classi “alpha” per gli studenti più avanzati. Facevo parte di tutte le classi più avanzate, e lì incontrai altri studenti che apprendevano rapidamente. A quel tempo sviluppai un buon senso dell’umorismo, e per questo feci qualche amicizia. Entrai a far parte di un gruppo teatrale, partecipai ad alcune rappresentazioni, ed ebbi persino una ragazza nell’ultimo anno. Ma il mio interesse principale era imparare tutto quello che potevo.

Mentre ero al liceo, studiai il latino e il tedesco, che amai molto. A quel tempo l’idea era che fosse necessario conoscere il latino per andare all’università e il tedesco per studiare le scienze. I nostri libri in tedesco erano ancora stampati nei vecchi caratteri gotici. Il mio amore per i caratteri non romani cominciò a crescere.

Si sveglia l’interesse nel Buddhismo

Sebbene nessuno in famiglia avesse i miei interessi, sin dai primi anni dell’adolescenza ero naturalmente attratto dalle culture asiatiche. Questa era l’epoca della “beat generation”, ed essendo interessato alle questioni spirituali, lessi quello che era disponibile a quel tempo – i libri di Alan Watts e D.T. Suzuki e, ovviamente, Siddharta e altre opere di Hermann Hesse. Ero molto affascinato da tutto questo, e cominciai a praticare l’hatha yoga con alcuni amici quando avevo tredici anni.

Sebbene non ci fossero problemi nella nostra grande famiglia estesa, a quest’età sviluppai un senso di rifiuto a sposarmi, all’avere una famiglia, al comprare una casa e una macchina, e a dover lavorare in un impiego insoddisfacente solo per pagare i debiti e il mutuo. Per me avere una cosiddetta vita “normale” era una trappola, un ostacolo che mi avrebbe impedito di sfruttare tutto il mio potenziale. Forse fui influenzato dai libri di Hesse, particolarmente Demian e Narciso e Boccadoro; ma ho mantenuto questo mio sentire per tutta la vita.

Mio padre ebbe un ictus molto invalidante quando avevo quattordici anni, che lo rese semiparalizzato e incapace di parlare o riconoscere nessuno. Fondamentalmente piangeva e gridava per la gran parte del tempo. Sebbene i dottori ci rassicurassero che non era consapevole della sua situazione, io non ne ero convinto. Evitai di pensarci. Dopo che mia madre cercò di prendersi cura di lui a casa – un fallimento totale – dovette essere ricoverato in una struttura statale per malati incurabili. Era troppo agitato e chiassoso per essere tenuto da qualunque altra parte.

La prima volta che lo visitai con mia madre, un infermiere stava trasportando un cadavere su una lettiga nell’ascensore con noi. Quando uscimmo dall’ascensore entrando nella stanza dove era tenuto mio padre, vidi molti altri pazienti la maggior parte dei quali, come mio padre, stavano piangendo e gridando. Mio padre non mi riconobbe e, in tutta risposta, io mi chiusi emotivamente. Vedendo l’effetto traumatico che ebbe su di me l’incontro di tutta questa sofferenza, mia madre non mi portò mai più a visitarlo.

Dato che ora mia madre doveva uscire e lavorare a tempo pieno, dovetti crescere molto velocemente e prendermi più responsabilità. Fortunatamente, la famiglia del mio migliore amico, Jonathan Landaw, mi prese sotto la sua ala protettiva e passai molto tempo a casa loro. Il padre di Jon, un dottore gentile, si interessò di me e passavamo molto tempo in vivaci discussioni intellettuali. Siccome non ebbi mai questa possibilità con mio padre, anche prima che si ammalasse, amai molto passare del tempo con lui.

Presto Jon ed io diventammo come dei fratelli. Ricordo che una volta, quando lavoravamo in un progetto insieme al liceo, improvvisamente ebbi l’impressione che, in un certo senso, avremmo ricoperto un ruolo storicamente significativo. Ovviamente non avevo alcuna idea che Jon e io saremmo diventati insegnanti buddhisti da adulti, e che avremmo aiutato a portare il Buddhismo tibetano nel mondo non tibetano.

La mia formazione alla Rutgers University

La seconda parte degli anni ’50 è considerata l’era “Sputnik” in America, e alle scuole superiori eravamo tutti incoraggiati a studiare la scienza. Ero interessato a come i russi fossero così avanti rispetto all’America, e pertanto a quindici anni decisi di fare una ricerca su questo argomento attingendo alla biblioteca locale. Il risultato fu un report di cinquanta pagine che scrissi sul sistema educativo dell’Unione Sovietica, che era molto più intenso di quello che stavo sperimentando negli Stati Uniti. Non avrei mai potuto sapere che in futuro avrei passato molto tempo in Unione Sovietica coinvolto in progetti per Sua Santità il Dalai Lama.

Dopo aver finito le scuole superiori a sedici anni, andai alla Rutgers University a New Brunswick, nel New Jersey, per studiare chimica, cosa che feci per due anni. Lo studio della chimica fu un grande allenamento per affinare le mie capacità analitiche: adoravo trovare soluzioni a complessi problemi di matematica, chimica e fisica. Questo amore successivamente si trasferì all’analisi di testi e al compiere meditazioni analitiche su argomenti complessi degli insegnamenti buddhisti. Non fui mai attratto dalla meditazione di concentrazione. Sentii che ero già abbastanza concentrato, particolarmente nei miei studi, e volevo sviluppare altre qualità.

La Rutgers University richiedeva che ogni studente ricevesse una formazione integrata. Gli studenti di scienza dovevano passare un esame di materie umanistiche, mentre gli studenti di materie umanistiche dovevano fare un esame di scienza. Pensai che questa politica fosse meravigliosa, e quindi in aggiunta ai miei corsi di scienza, studiai anche alcune materie umanistiche opzionali, come Storia dell’Arte. Apprezzai molto l’equilibrio che questa politica dava a tutti i miei corsi di scienza.

La Rutgers era a quel tempo un’università solo per maschi, ma potevamo frequentare alcuni corsi opzionali al Douglass College, l’università affiliata della Rutgers per sole donne, che si trovava dall’altra parte della città. Durante il mio secondo anno di studi, per sfruttare questa possibilità, presi una materia opzionale intitolata Tradizione e transizione in Asia. Una delle lezioni si concentrò su come il Buddhismo si diffuse in tutta l’Asia e come fu adottato da ogni cultura che incontrava. L’ascolto di questa lezione mi cambiò la vita. Avevo solo diciassette anni, ma dopo aver sentito questo, sapevo cosa volevo fare della mia vita. Volevo imparare come i maestri buddhisti portarono e adattarono gli insegnamenti in altre culture, e volevo fare questo io stesso. Volevo diventare un ponte tra le culture, e non ho mai vacillato da questo obiettivo in tutta la mia vita. Questo si adattava perfettamente con la mia aspirazione dell’infanzia di conoscere e riunire la conoscenza di tutte le civiltà.

Il professore Ardath Burks, uno dei tre professori che insegnava il corso al Douglass college, ci parlò del programma accademico cooperativo in lingue critiche che sarebbe iniziato l’anno seguente all’università di Princeton, molto vicino alla Rutgers. Princeton aveva tutte le strutture per imparare le lingue asiatiche e del Medio Oriente, ma quasi non avevano studenti. Mi resi conto che non volevo passare il resto della mia vita in un laboratorio di chimica e, affascinato da questa opportunità d’oro di andare a Princeton e seguire questo percorso per diventare un ponte tra le culture, feci domanda di studiare il cinese, e fui una delle sei persone che accettarono in questo programma. Come la Rutgers, Princeton era anche un’università solo per maschi. Una di queste sei persone era una donna, che divenne la prima studentessa di Princeton.

Mio padre morì proprio quando venni a conoscenza di questo programma a Princeton. Non ero più andato a visitarlo da quella prima visita traumatica all’istituto statale. Da allora, non volli nemmeno pensare se i suoi pianti e le urla significavano che era consapevole della sua situazione. Persino al funerale, sentii molto poco. Così, avendo letto che il Buddhismo parlava molto della verità della sofferenza, ero pronto per andare più in profondità e imparare di più. Il programma di Princeton era totalmente finanziato dalla fondazione Carnegie, e quindi non c’era nessun ostacolo finanziario per partecipare. In realtà, grazie ai miei voti alti e alla mia modesta famiglia, ricevetti borse di studio complete e generose nel corso di tutta la mia formazione accademica, dalla laurea al dottorato. La mia formazione non mi è mai costata un centesimo, e completai gli studi senza alcun debito. Sebbene il debito degli studenti sia molto diffuso oggi negli Stati Uniti e sia solitamente molto alto, non era così comune a quei tempi ed era molto più basso.

Quando ero alla Rutgers avevo una ragazza, Bernice Berzof. Quando le dissi che sarei andato a Princeton – solo un breve viaggio in autobus da New Brunswick – suggerì di fidanzarci e, quando ci saremmo laureati due anni dopo, di sposarci. Data la mia avversione a rimanere legato in un matrimonio, terminai la relazione quando mi spostai a Princeton. Ciononostante rimanemmo in contatto dopo che si sposò e divenne un avvocato fiscale di successo a Filadelfia, con il nome da sposata di Bernice Koplin.

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