Ripasso
Siamo arrivati stamattina alla quarta sessione della nostra discussione della meditazione in sette parti di causa ed effetto per sviluppare l’obiettivo di bodhichitta. Abbiamo esaminato il livello del pianoterra, o passo numero zero, di questo processo, ovvero lo sviluppo dell’equanimità. Questa equanimità è uno stato mentale libero da emozioni disturbanti nei confronti degli altri, ovvero attaccamento e attrazione per chi ci piace, repulsione e avversione per chi non ci piace, e indifferenza per coloro che consideriamo estranei – che si basano sull’ingenuità, l’essere inconsapevoli della possibilità che potrebbero essere amici e così via.
Le emozioni disturbanti da cui siamo liberi – l’attaccamento o l’aggrapparsi, e l’avversione o la repulsione e l’ingenuità – riguardano le persone. Questo perché prendiamo in considerazione l'equanimità, un aspetto condiviso anche dagli insegnamenti Hinayana. L’obiettivo degli insegnamenti Hinayana è di ottenere la liberazione, e dal punto di vista di quegli insegnamenti, tutto ciò che abbiamo bisogno per raggiungere la liberazione è avere una comprensione dell’assenza di un sé impossibile, o anima, nelle persone. Secondo il loro sistema di principi – qui stiamo parlando del Madhyamaka non-Prasangika nella tradizione Gelug – questa assenza, o vacuità, delle persone è definita in modo differente dalla vacuità di tutti i fenomeni. Dunque affinché questa equanimità sia condivisa dall’Hinayana e dal Mahayana, dal Gelug Prasangika e così via, è necessario che consideri le emozioni disturbanti che riguardano specificatamente le persone. Non stiamo parlando di arrabbiarci con i nostri computer, provare avversione per certi cibi o attaccamento per alcuni programmi televisivi.
Per essere equanimi, è necessario eliminare, in una certa misura, queste varie emozioni disturbanti rivolte agli altri. Abbiamo visto come questo stato di equanimità non sia uno stato assente, privo di emozioni. Al contrario, per usare la terminologia Nyingma, è “un’apertura”. È come un terreno fertile, una base solida su cui far germogliare le emozioni positive che portano allo sviluppo del bodhichitta.
Abbiamo anche visto che, una volta generata questa base di equanimità, la prima cosa che facciamo in questa sequenza è di essere consapevoli che tutti gli esseri sono stati nostra madre in qualche vita precedente – e di mantenere questa consapevolezza con la presenza mentale, che è una sorta di colla mentale. Abbiamo inoltre compreso che, grazie alla logica, possiamo stabilire la possibilità che tutti gli esseri siano stati nostra madre a un certo punto nel tempo. Considerate le ipotesi buddhiste del tempo senza inizio, il numero finito di esseri, e l’uguaglianza di tutti, è qualcosa di ragionevole. “Uguaglianza” qui significa che in ogni vita, tolte quelle in cui si è nati dal calore, dall’umidità, e da un loto, ciascun essere ha una madre, e che tutti ugualmente accumulano cause per avere rinascite come maschio o femmina. Questo ci fa entrare in tutta una discussione su quali siano le cause per rinascere come l’uno o l’altro. Ovviamente, bisogna rinascere come una femmina per diventare madre.
Le cause per rinascere come maschio o femmina non sono chiarissime nei testi. Gli insegnamenti del lam-rim indicano otto circostanze favorevoli all’interno della preziosa rinascita umana, che consentono di avere maggiore influenza sugli altri. Una di queste otto è rinascere come un uomo. Ovviamente si può discutere se questo modo di vedere sia specifico di una cultura o di un’epoca.
Ho trovato molto interessante un commento fatto da Sua Santità il Dalai Lama alla conferenza delle bhikshuni (monache) ad Amburgo quest'estate. Tuttavia, le sue osservazioni erano di natura generale e non specificamente legate agli insegnamenti del lam-rim sulle rinascite maschili e femminili. Disse che quando esaminiamo l’evoluzione della società umana su questo pianeta, troviamo che in periodi antichi, quando c’erano animali selvaggi e altri pericoli fisici, la forza bruta era necessaria per sostenere la società. In quelle circostanze, la rinascita maschile era la preferita. In periodi successivi, quando l’intelletto era necessario per sostenere la società, né la rinascita maschile né quella femminile era la più preferibile. Ai giorni nostri, quando c’è così tanto odio e terrorismo e le cose sono sempre più fuori controllo, Sua Santità commentò che la compassione fosse assolutamente fondamentale per sostenere la società. In questa situazione, per via degli istinti innati delle donne, lui disse che la rinascita come donna fosse la più preferibile.
Sottolineò che stava basando i suoi commenti puramente sulla biologia. Quando si considera la forza fisica, l’uomo è più forte. Quando si parla di intelligenza, nessuna delle due rinascite è migliore. Quando si tratta della compassione, le donne hanno un vantaggio perché da un punto di vista semplicemente biologico, le donne portano in grembo i loro figli, li allattano – almeno nelle società più tradizionali – e quindi naturalmente provano sentimenti di accudimento, di affetto, e un senso di connessione con l’umanità degli altri. Questa qualità compassionevole, disse, è assolutamente necessaria per risolvere i problemi del mondo e i problemi ambientali che stiamo vivendo.
L’implicazione qui – sebbene questo non sia discusso nel Dharma – è che il tipo di rinascita più appropriata per influenzare gli altri in modi positivi dipenderebbe dalle epoche e dallo stadio di sviluppo della società. Questo certamente avrebbe senso in termini del sorgere dipendente – non c’è nulla di intrinsecamente migliore o peggiore riguardo le diversità di genere.
In ogni caso, gli insegnamenti riguardanti le cause per una rinascita maschile fondamentalmente dicono che ammirare la forma maschile e disprezzare quella femminile è una causa della nascita maschile. Uno potrebbe chiedersi, però, se questa potesse anche essere una causa per una rinascita gay. Ma lasciando questo da parte, sembrerebbe che il desiderio per un corpo femminile porti a una rinascita femminile. Poi se una donna desiderasse un corpo maschile, ciò porterebbe a una rinascita maschile. Se fosse così, potremmo anche sostenere che tutti, a un certo punto, hanno avuto una base femminile.
È importante stabilire se tutti, a un certo punto, sono nati come una femmina, perché l’obiezione al punto che tutti sono stati nostra madre potrebbe essere: “Non potevi rinascere sempre come un uomo, e in tal caso non sei mai stato mia madre?”. Dunque dobbiamo considerare che c’è un requisito per essere stati nostra madre, ovvero rinascere come una femmina. Se la causa principale per le rinascite maschili e femminili è il desiderio sessuale verso un certo tipo di corpo, allora probabilmente quel desiderio si è alternato anche in termini di fattori biologici, se vogliamo esaminarlo anche in questo modo. Tutti questi punti sono molto importanti, effettivamente, per convincerci che è un metodo ragionevole da utilizzare – per sapere che non è solo un lavaggio del cervello.
Poi avendo riconosciuto come tutti siano stati nostra madre, ci ricordiamo e siamo consapevoli – tramite la presenza mentale che mantiene questo pensiero – della gentilezza che ci hanno mostrato quando erano nostra madre. Come minimo non ci hanno abortito – abbiamo avuto bisogno di tutti i tipi di rinascita avuti in passato per essere dove siamo ora. Possiamo apprezzare questo punto: anche quando siamo rinati come un animale o in qualche altra rinascita inferiore, le madri che abbiamo avuto in quelle rinascite sono state molto gentili con noi perché ci hanno dato l’opportunità di bruciare il karma negativo che avevamo, che a sua volta ha permesso al karma positivo di maturare nelle preziose rinascite umane che abbiamo ora. Dunque la mamma tartaruga e la mamma ragno sono state molto gentili con noi.
Ovviamente ci sono state volte in cui siamo stati abortiti. Quando non siamo stati abortiti, potremmo essere stati mangiati dalle nostre madri – ad esempio i ragni a volte mangiano i loro piccoli. Queste sono alcune delle obiezioni che sono emerse nelle nostre discussioni riguardo il riconoscere tutti come una madre. “Che dire della madre che ci ha mangiato quando siamo nati?”. Ma in qualche modo siamo arrivati a questa preziosa rinascita umana. È il prodotto di tutte le precedenti rinascite che sono avvenute. Semplicemente su questa base, tutti sono stati molto gentili con noi, quanto una madre. Ci hanno dato l’opportunità di arrivare dove siamo qui ora e di affrontare il karma che abbiamo accumulato da tempo senza inizio. È molto importante fare una meditazione analitica – pensare a tutto questo e lavorare con le obiezioni che sorgono.
Quando meditiamo sulla gentilezza della madre, cominciamo con la madre di questa vita. Possiamo usare il metodo di guardare alle nostre vite in blocchi di cinque anni, pensando alla gentilezza che abbiamo ricevuto in ciascun periodo. Se vogliamo espandere la meditazione e includere altri metodi per sviluppare il bodhichitta, possiamo anche pensare alla gentilezza che abbiamo ricevuto da altre persone in questi periodi di cinque anni. Fare questo ci porta al passo successivo, ovvero quello in cui apprezziamo la gentilezza che abbiamo ricevuto che ci fa sentire molto, molto grati.
Eravamo arrivati a questo punto ieri.
Sbloccare i sentimenti bloccati
Inoltre è stata posta una domanda importante ieri, che forse posso elaborare un po’. La domanda era: “Alcuni di noi potrebbero avere dei blocchi emotivi e non sentire nulla con queste meditazioni – in tal caso che si fa?”. Qui introdurrei un esercizio per sbloccare i sentimenti proposto nell’addestramento alla sensibilità che ho sviluppato. Si trova nel libro Sviluppare una sensibilità equilibrata.
Quello che mi sembra necessario per sbloccare i sentimenti è – come suggerito dagli insegnamenti stessi – innanzitutto di acquisire serenità, calma, e poi questa equanimità. In altre parole, se calmiamo la mente in modo tale che non voli da un pensiero all’altro, e la svegliamo da un certo livello di torpore mentale così da non essere assente (che è un altro modo di non prestare attenzione agli altri e anche un blocco), arriveremo ad uno stato in cui la mente e il cuore sono aperti. Poi, con queste meditazioni sull’equanimità, se almeno ci sbarazziamo, in una certa misura, delle emozioni disturbanti che abbiamo verso gli altri e dell’energia nervosa associata a tali emozioni; e se poi introduciamo un certo livello di comprensione che otteniamo con il livello intermedio di motivazione – la comprensione della vacuità dell’io, della persona, che non esiste in modi impossibili – in modo tale da non essere così a disagio e circondati dalle grandi mura di un’immaginata esistenza solida, allora penso che avremo una buona base per far fluire i sentimenti emotivi.
Anche se semplicemente immaginiamo di raggiungere questo stato aperto, è molto utile. Nella mia esperienza di lavoro con le persone ho trovato che questo è utile per sbloccare i sentimenti. In realtà è l’unico modo per sbloccarle. Dobbiamo essere in grado di rilassarci per fare in modo che i sentimenti possano fluire senza ostacoli. E non stiamo parlando dei sentimenti neurotici e disturbanti. Stiamo usando la parola “sentimenti” nel senso occidentale di “emozioni”.
Dunque vogliamo sbarazzarci di tutte le distrazioni, preoccupazioni, paure, divagazioni mentali, attaccamento, ostilità, ingenuità, e le sensazioni di un sé separato – il chiudersi in queste mura immaginarie attorno a noi. Anche semplicemente immaginare di poter lasciare andare tutto questo a poco a poco ci aiuta a calmarci abbastanza per essere in grado di sentire qualcosa.
Un’altra cosa che faccio in quell’addestramento è di usare le sensazioni fisiche come uno strumento per aiutare le persone a relazionarsi con i loro sentimenti. A volte le persone hanno paura di provare amore e compassione perché “è troppo”. Sentono che saranno sopraffatti dai sentimenti. Penso all’esempio di una mia zia. Era molto vicina a sua madre, mia nonna. Ma quando mia nonna andò in casa di riposo – a quel punto aveva un cancro allo stadio terminale e non stava affatto bene – mia zia non andò mai a visitarla. La ragione che diede per il fatto di non visitare sua madre è che era troppo – l’avrebbe devastata emotivamente vedere sua madre in quella situazione. Era così focalizzata su sé stessa che non andò mai più a trovarla nella casa di riposo. Non so se davvero è stato così, ma per quanto ne so, non ci andò mai. È interessante che quando la rividi un paio di anni fa – mia nonna era morta molti anni prima – disse che pensa a sua madre ogni giorno. Dunque non è che non amasse sua madre. Aveva solo paura delle emozioni, aveva paura che queste emozioni la schiacciassero.
Il tipo di allenamento che ho proposto a queste persone è di fare il solletico ai palmi delle loro mani, poi di grattarli e pizzicarli con forza, e poi semplicemente di tenere le mani. Poi gli chiedo: “Qual è la differenza?”. È solo una sensazione fisica. Non è nulla di più di questo. È un po’ più complesso quando qualcun altro fa il solletico, pizzica, o tiene le nostre mani. È più difficile. Ma se lo facciamo su noi stessi, alla fine ci resta un “E allora? È solo una sensazione fisica, nulla di più”. Poi, per inferenza, possiamo concludere che è la stessa cosa con i sentimenti emotivi. Un sentimento è solo un sentimento. Che sia triste, felice, caloroso, o altro, non c’è nulla di cui spaventarsi. È solo un sentimento. Non è niente di speciale. Questo ci aiuta a sbloccare i sentimenti, specialmente le paure di esserne sopraffatti.
Se i nostri sentimenti sono bloccati, è importante cercare di dissolvere i blocchi – per prima cosa dobbiamo identificarli, e poi usare qualche metodo per dissolverli.
Poi, un’altra cosa che viene suggerita quando si fanno le meditazioni sulla compassione è pensare innanzitutto alla nostra sofferenza (potrebbero pure esserci qui dei blocchi emotivi), pensare a quanto sia terribile e a quanto voglia liberarmene, sviluppando la rinuncia. Una volta che abbiamo il desiderio di essere liberi dalla sofferenza, possiamo poi rivolgerlo ad altre persone. Questo presuppone la comprensione che siamo tutti uguali – uguali nel senso che tutti hanno lo stesso desiderio di essere felici e non infelici – ma non solo; ciò presuppone, inoltre, che generare sentimenti per noi stessi sia più semplice che provarli per gli altri. Questo non è necessariamente il caso. Ci sono molte persone che provano molto di più per gli altri e tendono invece a trascurarsi. Dunque per alcune persone questo metodo potrebbe essere utile per sbloccare i sentimenti; per altre, potrebbe non funzionare.
Va bene, forse alcuni di voi hanno qualcosa da contribuire riguardo a questo problema delle emozioni bloccate. Penso sia una questione molto importante, una che deve essere affrontata per lavorare con le meditazioni sull’amore, la compassione, il bodhichitta, eccetera. Anche se avere un po’ di saggezza unita al metodo – la compassione – ci aiuta a rendere più stabili questi passi, senza il calore dell’aspetto emotivo non saremo in grado di generare e sentire tale compassione – desiderare che gli altri siano liberi dalla sofferenza e dalle sue cause.
C’è qualcuno che vorrebbe offrire un commento o c’è qualche domanda?
Mi chiedo se personalità differenti abbiano modi diversi di mostrare emozioni.
Dunque questo ci porta alla variabile del controllo – controllare le emozioni rispetto al bloccarle. Quello che dici sottolinea un punto importante: c’è una differenza tra il provare ed esprimere qualcosa. Qualcuno potrebbe provare molte emozioni positive, ma la situazione potrebbe essere tale per cui non lo dimostra.
Ad esempio, se andiamo a visitare delle persone ammalate in una casa di riposo, potremmo voler mostrare il nostro interesse prendendole per mano. Alcune persone potrebbero apprezzarlo; altre invece no. Alcune persone hanno un’avversione per il contatto fisico. E anche se possiamo provare lo stesso sentimento per tutte le persone presenti, ci controlleremmo non tenendo la mano della persona che non vuole essere toccata, perché questo la metterebbe a disagio. Dunque esercitiamo un certo controllo che non vuol dire necessariamente bloccare le emozioni.
Altre volte, il controllo potrebbe basarsi su quello che stavo dicendo prima – la paura di essere sopraffatti dalle emozioni. Un altro tipo di controllo potrebbe basarsi sul rispetto per i costumi della società. Questo è un po’ simile a ciò che stavo dicendo con l’esempio della persona nella casa di riposo.
Un esempio che mi viene in mente è quello di una mia studente in Germania. Viene dalla Colombia, in America del Sud, dove le persone esprimono molto le loro emozioni. È sposata con un tedesco i cui genitori sono molto riservati emotivamente. Deve stare molto attenta e controllare l’espressione delle sue emozioni quando va a visitarli con il marito. Questo vuol dire esercitare un controllo consapevole – che nuovamente si basa sul considerare un altro tipo di cultura.
Di nuovo dobbiamo analizzare: perché dovremmo controllare le nostre emozioni? Un infermiere dovrebbe controllare le emozioni quando si prende cura delle altre persone. Deve mantenere la calma. Non può piangere o turbarsi quando vede ferite orribili. In queste situazioni controlliamo le emozioni. Controlliamo soltanto l’espressione di tali emozioni, oppure controlliamo le emozioni stesse? Ad esempio, sebbene questo non sia un esempio molto dharmico – se ci trovassimo in una battaglia e il nostro miglior amico proprio accanto a noi venisse ucciso, non potremmo semplicemente piangere e turbarci. Dovremmo controllare le nostre emozioni, metterle in un altro contenitore nei nostri cuori, per così dire, e continuare ad affrontare la situazione di emergenza.
Penso che ci siano molte situazioni differenti.
La società ci chiede di controllare le nostre emozioni; tuttavia, lo scopo della meditazione non è forse quello di permettere loro di manifestarsi liberamente?
Questo è un ottimo commento. La società, particolarmente negli Stati Uniti, ci chiede di limitare l’espressione delle nostre emozioni perché gli altri potrebbero farci causa pensando che li abbiamo abusati o che abbiamo fatto commenti sessisti, persino quando tutto quello che avevamo fatto era un semplice complimento: “Che bel vestito che indossi”. Ma in ogni caso, meditazioni del genere non ci offrono un mezzo per esprimere le nostre emozioni?
In un certo senso, questo è vero. Tuttavia, quello che io e altri abbiamo sperimentato è che quando ci rilassiamo abbastanza in meditazione, apriamo la porta non solo alle emozioni positive, ma anche a molte emozioni negative. È un fenomeno che tante persone provano quando fanno un lungo ritiro. Emerge ogni genere di spazzatura emotiva – che poi abbiamo l’opportunità di affrontare. Ma quando apriamo le porte emotive, non possiamo davvero prevedere cosa verrà fuori. Dobbiamo essere consapevoli di questo, particolarmente quando pensiamo di andare in ritiro – ancora di più quando consideriamo di andare in un ritiro lungo. Dobbiamo essere preparati al fatto che sorgeranno molte emozioni. Se non abbiamo la maturità emotiva per affrontarle, non è una buona idea andare in ritiro.
Nella mia esperienza, è molto più naturale e più facile coltivare compassione per tutti gli altri; non è facile coltivare compassione per me stesso.
Ho un metodo che consiste nello sviluppare un “atteggiamento di cura”, sebbene non sia specifico per il Dharma, ma è suggerito dal Dharma. Anche questo l’ho usato nel mio addestramento per una sensibilità equilibrata. “Atteggiamento di cura” è la mia traduzione della parola tibetana per il passo preliminare nello sviluppo della disciplina etica. Shantideva offre due capitoli sulla disciplina etica, e il primo affronta questo specifico fattore mentale, l’atteggiamento di cura.
Altri a volte traducono “atteggiamento di cura” con “attenzione” o “coscienziosità”. Penso che queste traduzioni non siano molto precise. Questo termine ha a che fare con il prendere sul serio il rapporto causa-effetto, apprezzando che “se agisco così, questo avverrà”, e prendersi cura dei risultati, prendersi cura di noi stessi. In base a questo pratichiamo l’autodisciplina etica. Se non ce ne importa nulla, se non ci interessano gli effetti del nostro comportamento, perché mai eserciteremmo autodisciplina? Dunque Shantideva dedica molto saggiamente un intero capitolo a questo, alla coltivazione di un atteggiamento di cura.
Nell’addestramento alla sensibilità, c’è tutto un ragionamento per sviluppare un atteggiamento di cura verso gli altri che, quando lavoriamo con noi stessi, rivolgiamo innanzitutto a noi: “Sei un essere umano. Hai sentimenti proprio come me. Il modo in cui ti tratto e ti parlo influenza i tuoi sentimenti, proprio come il modo in cui mi tratti e mi parli influenza i miei sentimenti. Dunque proprio come vorrei che tu mi prenda sul serio, mi rispetti, e ti prenda cura dei miei sentimenti, ti prenderò sul serio, ti rispetterò, e mi prenderò cura dei tuoi sentimenti”.
Quando lavoriamo con noi stessi, cominciamo con lo specchio. Guardiamo nello specchio e diciamo a noi stessi: “Sono un essere umano proprio come tutti gli altri. Ho sentimenti proprio come tutti gli altri. Il modo in cui mi tratto e come parlo con me stesso influenza i miei sentimenti, proprio come il modo in cui altre persone mi trattano e mi parlano influenza i miei sentimenti”. Nelle nostre teste, molti di noi si rivolgono insulti, pensando cose come “Sei un cretino!” e altri pensieri denigratori – “Pertanto, proprio come vorrei che gli altri mi trattino con rispetto e siano sensibili ai miei sentimenti, mi tratterò con rispetto e sarò sensibile ai miei sentimenti. Mi prendo cura di me stesso. Mi prendo cura dei miei sentimenti”.
Il passo successivo è senza lo specchio. Non ci guardiamo spesso nello specchio, ma usarne uno è utile per generare una sensazione più forte di noi stessi. Poi, senza lo specchio, pensiamo: “Sono un essere umano, ho sentimenti”, eccetera.
La parte più toccante di questo esercizio consiste nel prendere una serie di nostre foto in fasi differenti della vita. È particolarmente utile vedere una nostra foto – potremmo anche affidarci alla memoria, ma vedere una foto funziona meglio – di un periodo in cui stavamo attraversando delle difficoltà, ad esempio un divorzio o qualunque altra cosa. Poi osserviamo quell’io del passato, e diciamo:
“Ero un essere umano allora. Avevo sentimenti. Il modo in cui gli altri mi parlavano e mi trattavano influenzavano quei sentimenti. Dunque proprio come non vorrei che l’io del futuro guardi indietro all’io di ora vergognandosi, non guarderò indietro all’io del passato con vergogna, perché quell’io del passato non avrebbe voluto che l’io del futuro provasse vergogna. Ero un essere umano a quel tempo. Avevo sentimenti, e ho fatto del mio meglio” – e tutto il pubblico scoppia in lacrime! Questo ci tocca il cuore.
Dunque è così che lavoriamo per sbloccare i sentimenti che proviamo verso noi stessi.
Avevi parlato all’inizio di una parola tibetana. Qual è questa parola?
Il termine tibetano per quello che traduco con “atteggiamento di cura” è “bag-yo” (bag-yod). La forma negativa di quella parola è “bag-mey” (bag-med), che significa “fregarsene” – uno stato mentale molto infelice, vero? Non ci importa cosa accade.
Prendiamoci un momento per far sedimentare questo punto.
[Meditazione]
Suggerirei di aggiungere alla meditazione standard sull’equanimità la parte riguardante il calmare l’agitazione mentale, il dissolvere il torpore e così via – che fa parte di qualunque meditazione, ma a volte ce lo dimentichiamo. Inoltre dovremmo aggiungere qualche comprensione dell’assenza di un “io” solido, in modo tale che non ci siano dei muri ad impedirci di provare qualcosa. Poi, sulla base dell’equanimità, pensiamo a come tutti siano stati nostra madre. Pensiamo alla gentilezza che ci hanno mostrato quando erano nostra madre – per prima cosa riconosciamo la gentilezza che ci hanno mostrato le nostre madri e, poi, riconosciamo la gentilezza che tutti gli esseri ci hanno mostrato. Poi, in modo naturale, generiamo sentimenti di gratitudine; apprezziamo tutte le cose che hanno fatto e le opportunità che ci hanno dato.
Le istruzioni dicono che non dobbiamo fare nulla di speciale per sviluppare questo senso di gratitudine o apprezzamento. E se c’è un aspetto di voler ripagare questa gentilezza – ripagarla nel senso di ripagare un debito – come ho detto sono scettico al riguardo. Non penso che questa sia l’enfasi. È importante, particolarmente per quelli di noi che sono cresciuti in una cultura del senso di colpa, non lasciare che la meditazione vada in quella direzione perché, come ho detto ieri, questo ci porta ad assumere il ruolo di martire.
Terzo passo e mezzo: l’amore caloroso
È fantastico il modo in cui i buddhisti numerano le cose in un modo che non ha nulla a che fare con il sistema numerico! Innanzitutto abbiamo avuto lo zero. Ora abbiamo un mezzo numero, il terzo passo e mezzo. In ogni caso, questo passo si chiama “amore caloroso”. È quello che sviluppiamo prima della meditazione effettiva sull’amore. L’amore caloroso vuol dire prendersi cura. Ci prendiamo cura di qualcuno e ci interessiamo del suo benessere – saremmo tristi se accadesse qualcosa di brutto a questa persona. Quando incontriamo questa persona, ci sentiamo felici e pieni di gioia, e automaticamente ci sentiamo vicini a lei. Queste sono le descrizioni di tale stato della mente o del cuore – comunque voi vogliate definirlo.
Di nuovo si afferma che non dobbiamo fare nulla di speciale per sviluppare questo amore caloroso; sorge automaticamente dal passo precedente. Ecco perché l’enfasi del passo precedente non è sul voler ripagare la gentilezza; al contrario ci sentiamo così grati per la gentilezza di questa persona che, automaticamente, proviamo un amore caloroso. Siamo interessati al benessere di questa persona, e saremmo tristi se le accadesse qualcosa di brutto. Siamo felici di incontrare questa persona, e automaticamente ci sentiamo vicini a lei. Per me ha senso che così si sviluppa questo amore caloroso. E tornando al problema di sentire qualcosa, il modo in cui viene presentata la sequenza suggerisce che se ancora non proviamo nulla, certamente qui riusciremo a sentire qualcosa.
Dunque abbiamo questo amore caloroso. Il termine letterale è l’amore “con cui si ha una sensazione di vicinanza e calore verso qualcuno”. Abbiamo in mente, abbiamo a cuore questa persona.
Quarto passo: l’amore
Poi entriamo nella meditazione sull’amore. L’amore è definito come “il desiderio che gli altri siano felici e abbiano le cause della felicità”. Ovviamente, all’inizio della meditazione, rivolgiamo questo amore a tutti. Tuttavia, nel metodo Theravada per sviluppare amore, il suggerimento è di cominciare con noi stessi, di sviluppare prima amore per noi. Poi estendiamo quell’amore alle persone care, ai vicini, alle persone della nostra città, e così via, estendendolo sempre di più, a poco a poco. Ci sono anche meditazioni, come la meditazione di Chenrezig, in cui estendiamo questo amore a esseri differenti in vari regni, fino ad includere tutti gli esseri senzienti.
Tutti gli esseri senzienti
Questo è un punto difficile, devo dire – non l’amore, ma questo punto di tutti gli esseri senzienti. Quello che avevo sempre pensato era che potevamo usare le relazioni personali come esempi nelle nostre meditazioni affinché ci aiutassero a sviluppare questi aspetti del Dharma – ad esempio: “Se posso essere affettuoso, compassionevole e generoso verso una persona specifica” – la persona che amo, i nostri figli, o chiunque altro – “allora imparerò ad estendere questi sentimenti agli altri”. Questo modo di pensare mi sembrava abbastanza ragionevole – non cominciamo con “tutti gli esseri senzienti”, perché è troppo vago.
Ma poi ho sentito una spiegazione di Sua Santità il Dalai Lama. Disse che è veramente importante focalizzarsi su tutti gli esseri senzienti. Perché? Beh, vedete, usando le relazioni personali come esempi, mi ero dimenticato del fatto che tutto questo si basava sull’equanimità – sull’essere aperti a tutti – un passo che viene molto prima della meditazione sull’amore. Dunque se, all’improvviso, torniamo indietro a “Questa è la persona che sento molto vicina” – un sentimento solitamente associato a molto attaccamento – allora violeremmo il principio stabilito all’inizio di essere aperti a tutti.
Devo ammettere che non è così semplice combinare le verità emotive di questi due approcci perché, spesso, quando si medita pensando a tutti gli esseri senzienti, è così vaga che non significa nulla. Non stiamo davvero considerando sul serio “tutti gli esseri senzienti”. Quello che mi viene in mente come un modo possibile per risolvere questo dilemma – o dialettica, se vogliamo usare una terminologia sofisticata – è usare delle linee guida di Tsongkhapa offerte nel suo Una lettera di consigli pratici sul sutra e il tantra, un testo che ho tradotto molti anni fa e su cui offrirò insegnamenti quando torno a Berlino.
In quel testo meraviglioso di consigli pratici, Tsongkhapa parla di come visualizzare nella pratica tantrica. Lui afferma che il metodo per visualizzarci come figure di Buddha è, innanzitutto, di avere un’idea generale della visualizzazione – quindi di tutta la figura di Buddha. Per cominciare dice di generare un’idea vaga di tutta la figura – perché ovviamente all’inizio non riusciremo a visualizzare con totale chiarezza. Poi, quando avremo un’idea generale, aggiungiamo i dettagli uno per uno, cominciando dagli occhi – perché tendiamo a identificarci molto con gli occhi. Così non perdiamo il senso del tutto – non dobbiamo mai perdere di vista l’idea generale, dice Tsongkhapa. Dunque è nel contesto del tutto che aggiungiamo i dettagli. Se facciamo così, allora saremo in grado di visualizzare correttamente.
Forse questa linea guida potrebbe essere applicata anche qui. Innanzitutto ci apriamo a tutti gli esseri senzienti. Poi, senza perdere il contesto di tutti gli esseri, ci focalizziamo su alcune persone, cominciando, come suggerito, con noi stessi. Il lojong in sette punti consiglia anche di cominciare con noi stessi quando facciamo la pratica del tonglen, del dare e del ricevere. Dunque nel contesto di questo ambito più grande di tutti gli esseri, sviluppiamo amore verso esseri specifici – innanzitutto verso noi stessi, poi verso le persone amate, poi verso gli sconosciuti, poi verso le persone che non ci piacciono e così via. Forse questo è un modo per risolvere la dialettica tra l’amare tutti in modo uguale e amare quelli che ci toccano il cuore.
Avete commenti su questo punto? Potete parlare della vostra esperienza in questo tipo di meditazione? Cosa vuol dire per voi lavorare con “tutti gli esseri senzienti”?
Domande
Quando considero alcune forme di vita particolarmente difficili – come gli scarafaggi, ad esempio – per me è utile pensare che “È soltanto il risultato del karma di questo continuum mentale, è solo in questa vita che questo continuum mentale si sta manifestando come uno scarafaggio”.
Sì, è molto utile. Questo ci riporta alla meditazione sull’equanimità in cui vediamo tutti in termini di continua mentali senza inizio e senza fine. È certamente il modo di farlo – vedere che è solo in questa vita specifica che questo essere, a causa del karma, si sta manifestando così.
Mi ricordo la prima volta in cui andai in India, non ero molto a mio agio con tutti gli insetti. C’erano questi ragni grandi quanto una mano – ero abbastanza terrorizzato da loro. Lo dissi al mio maestro a quel tempo e commentai quanto fossero brutti e spaventosi. Lui disse: “Beh, dal loro punto di vista, sei tu quello brutto, sei tu quello che fa paura”. Il suo commento fu molto utile.
C’è anche un’altra tecnica che ho usato. Ora sto parlando di molto tempo fa, quando non avevo così tanta familiarità con il Dharma. Sono sempre stato un fan di Star Trek, e prima di questo, della fantascienza, e quindi immaginavo di trovarmi su un altro pianeta. Ed ecco qui una forma di vita di questo pianeta, che assomigliava al ragno. E se la mia unica reazione alla forma di vita di questo pianeta fosse semplicemente di volerla calpestare? Non sarebbe una reazione molto diplomatica. Ciò mi aiutava a rispettare questa forma di vita.
Grazie, grazie! È la stagione dei ragni a casa nostra, ma quest’anno non li ho uccisi.
Molto bene, quindi hai anche tu un problema con i ragni.
Non è facile fare le meditazioni sull’amore e la compassione per tutti gli esseri degli altri regni, sia i regni peggiori che quelli migliori, perché sono invisibili a noi. Quindi come ci relazioniamo a loro?
È quello di cui stavo parlando l’altro giorno – che possiamo considerarli in termini di uno spettro di differenti dati sensoriali, come sensazioni fisiche, sentimenti di felicità e infelicità, e così via.
Quando medito sulle rinascite infernali, penso sia utile guardare alle immagini e ai disegni dei sopravvissuti alla bomba nucleare di Hiroshima. Hanno disegnato immagini veramente orribili che ricordano rinascite infernali.
Come ho detto, potrebbero esserci degli “avanzi” di rinascite precedenti che si manifestano come un’esperienza umana. Certamente questi sopravvissuti potrebbero aver sperimentato gli “avanzi” di rinascite infernali.
Un mio amico, un maestro buddhista occidentale, aiuta i suoi studenti a comprendere le sofferenze dei regni infernali suggerendo loro di meditare sulla cosa che gli fa più paura e immaginare che stia accadendo a loro. Suggerisce di fare così perché solitamente c’è un po’ di resistenza a fare questa meditazione e, solitamente, questa resistenza è generata dalla paura. Pertanto affrontare le nostre paure è un modo di entrare nelle meditazioni sui regni infernali.
La paura – la paura di confrontarsi con la sofferenza degli altri – è un blocco emotivo e mentale significativo che dobbiamo superare. “È orribile, non ce la faccio”. E quindi non vogliamo vedere la sofferenza, per non parlare di affrontarla fisicamente.
Dunque sì, ci sono molti metodi che ci aiutano a immaginare le sofferenze delle rinascite infernali e a prenderle sul serio.
L’amore (continua)
L’amore è il desiderio che gli altri siano felici e abbiano le cause della felicità. Questo significa che dobbiamo riconoscere il tipo di felicità di cui stiamo parlando. Qual è la felicità che, con amore, desideriamo che tutti abbiano? Qual è la sofferenza da cui, con compassione, desideriamo che tutti siano liberati? E qual è la felicità che, con la decisione eccezionale – uno dei passi successivi della sequenza – desideriamo che tutti abbiano? Ogni passo della sequenza non parla dello stesso tipo di felicità. Questo non ha molto senso per me.
Devo dire che non ho ricevuto istruzioni specifiche su questo né ho letto nulla al riguardo, ma quello che mi sembra ragionevole – questa è la mia idea, non prendetela come autorità scritturale – è che con l’amore, il desiderio che gli altri siano felici, stiamo pensando in termini di felicità terrena ordinaria. Nella pratica tonglen di dare e ricevere, prima vogliamo prendere la loro sofferenza affinché possano godere della felicità, ma qui l’ordine è invertito. Perché? Mi sembra logico che innanzitutto vogliamo che siano felici – in altre parole, non vogliamo che abbiano la sofferenza della sofferenza. Poi, con compassione, vogliamo che siano liberi dalla felicità terrena, ovvero la sofferenza del cambiamento. Quindi vogliamo che siano liberi non soltanto dalla sofferenza della sofferenza; vogliamo che siano liberi persino della felicità terrena che, con amore, desideriamo che abbiano. Poi, con la decisione eccezionale, vogliamo aiutarli a superare la sofferenza onnipervasiva del samsara. Così credo abbia senso per me che questi tre passi formino una sequenza.
Forse è vero. Non ho mai controllato con i miei maestri per capire se è corretto. Tuttavia sento che se abbiamo avuto sufficiente esperienza con il Dharma, abbiamo bisogno di mettere insieme i vari pezzi del puzzle in modi differenti, e cercare di capire cosa abbia senso in termini della presentazione degli insegnamenti di Dharma senza andare oltre l’ambito del Dharma. Questa è una mia idea.
Dunque per prima cosa pensiamo, “Che tutti possano essere felici”, che sarebbe simile alla felicità a cui puntiamo nell’ambito iniziale, la felicità di migliori rinascite e così via, e poi riflettiamo sulle “cause della felicità”, ovvero la disciplina etica, l’astenersi dal comportamento distruttivo – questo tipo di cose. In altre parole, non rendiamo troppo vaga la meditazione.
In termini delle quattro menti incommensurabili, che l’equanimità venga per prima o no, la felicità viene prima della sofferenza. Stai dicendo che la felicità delle quattro menti incommensurabili è anche la felicità della vita samsarica?
Beh, avrebbe senso – se esaminiamo la presentazione Mahayana delle quattro, non quella Theravada. Nella presentazione Mahayana, la gioia è il desiderio che gli altri abbiano la gioia beata dell’illuminazione. Nella presentazione Theravada, la gioia è il gioire delle cose positive compiute dagli altri. È l’opposto della gelosia. Dunque la gioia ha un significato differente nella presentazione Theravada delle quattro menti incommensurabili.
Ma in ogni caso, penso che abbia senso applicare quello che stavo dicendo alla presentazione Mahayana delle quattro menti incommensurabili, perché l’amore è il desiderio che gli altri siano normalmente felici, la compassione è il desiderio che siano liberi da quel tipo di sofferenza, e la gioia è il desiderio che siano totalmente liberi e illuminati. Dunque anche qui c’è una sequenza. Se non facessero parte di una sequenza, la gioia, in questo senso Mahayana, sarebbe già inclusa nell’amore. Questo mi ha sempre confuso – la gioia non sarebbe già inclusa nell’amore? Se vogliamo che siano felici, vogliamo anche che provino gioia. Dunque questo ha senso, che si sviluppano in modo sequenziale.
Quando troviamo l’equanimità all’inizio della sequenza, è spiegata come il desiderio di essere liberi dall’attaccamento, l’avversione, e l’ingenuità. Dunque è la base per l’amore, la compassione, e la gioia che vengono dopo. Quando l’equanimità arriva alla fine, è solitamente spiegata come il desiderio che gli altri abbiano equanimità: “Che siano liberi dall’attaccamento, l’avversione”, eccetera. Qui riflettiamo sul motivo per cui non hanno ancora raggiunto l’illuminazione, perché hanno ancora questi problemi. Dunque il nostro desiderio è “Che siano liberi da questo”. Ma potremmo pensarlo in un altro modo, che sarebbe: “Lo desidero per tutti, senza alcun attaccamento, avversione” e così via, oppure “Che possano diffondere la felicità dell’illuminazione a tutti”.
Ci sono molti modi differenti di interpretare e praticare i quattro atteggiamenti incommensurabili. Ma penso che questa sequenza in cui le pratichiamo non sia arbitraria – anche se quest’ordine possa sembrare arbitrario. Molte altre tradizioni li presentano in modo diverso, e li formulano anche diversamente. C’è un articolo su questo nel mio sito web, in cui indago le varie presentazioni delle quattro menti incommensurabili.
Ci sono delle ottime linee guida per meditare sulla mente incommensurabile dell’amore che potremmo applicare in questo contesto. È un processo in quattro parti che si applica a ciascuno dei quattro atteggiamenti incommensurabili. Per la mente dell’amore, questo vuol dire pensare:
- “Quanto sarebbe meraviglioso se tutti fossero felici e coltivassero le cause per la felicità”.
- “Che possano essere felici e coltivare le cause per la felicità”.
- “Che io possa dare loro felicità e le cause della felicità”. Ecco perché Sua Santità aggiunge sempre l’avere già un senso di responsabilità assieme all’amore e alla compassione. La responsabilità non si limita alla sola decisione eccezionale, che è il passo successivo alla compassione.
- Poi, “O guru, ispiratemi per riuscire a farlo”.
Questa è una delle ragioni per cui ho indicato, penso ieri, che se non proviamo nulla, possiamo rivolgerci al guru per ricevere ispirazione: “Guru, ispiratemi per riuscire a farlo”. Questo indica quanto sia importante l’ispirazione che riceviamo dal guru.
È questo ciò di cui stavo parlando proprio ora riguardo all’avere abbastanza esperienza nei vari metodi di Dharma. Il Dharma ci viene presentato come dei pezzi di un puzzle, che poi dobbiamo mettere insieme. Formano una rete di pratiche di Dharma – una “rete” nel senso che è tutto interrelato. Così attingendo ai vari aspetti complementari e mettendoli insieme in modi differenti, siamo in grado di integrare la nostra pratica.
Quindi c’è l’amore – “Che tutti possano essere felici”. Come minimo cominciamo con il desiderare che siano felici, quel tipo di felicità che dipende dal non avere dolore, dal non soffrire in modo esplicito. Ovviamente potremmo anche desiderare altri livelli di felicità per le persone. Ad esempio, c’è la felicità che otteniamo con lo shamatha, uno stato mentale calmo e posato, che è essenzialmente la felicità di essere liberi dal torpore, l’agitazione, il nervosismo e tutto questo. C’è quel tipo di felicità che è “non macchiata”. A volte questo termine viene tradotto con “incontaminato”, che mi sembra assolutamente terribile. Felicità “contaminata” e felicità “incontaminata” – ci riporta a Hiroshima. È “macchiata” o “non macchiata”. È fondamentalmente macchiata o non macchiata dalla confusione. Quando siamo realmente liberi dalla confusione e dall’afferrarsi a modi impossibili di esistere, proviamo un enorme sollievo. È come la felicità di togliersi le scarpe strette, se possiamo usare un esempio un po’ semplicistico. Dunque c’è questo tipo di felicità.
Potremmo desiderare che tutti abbiano questi tipi di felicità, ma come ho detto mi sembra che questo oltrepassi i confini degli altri atteggiamenti che sviluppiamo successivamente nella sequenza in sette parti, e anche nella sequenza delle quattro menti incommensurabili.
Pertanto abbiamo l’amore. Rivolgiamo questo amore a tutti gli esseri. Poi, nel contesto di tutti gli esseri, ci concentriamo sugli esseri specifici, cominciando con noi stessi, poi con le persone che amiamo e così via, passo dopo passo. In questo modo riempiamo la meditazione. Questo, io penso, sia ciò che diceva Sua Santità – che la meditazione non deve basarsi su un forte attaccamento per la persona che amiamo e che vogliamo sia felice. Non è una base stabile, è parziale.
Quinto passo: compassione
Poi abbiamo la compassione, che è il desiderio che gli altri siano liberi dalla sofferenza e le sue cause. Qui arriviamo alla grande compassione, che è rivolta equamente a tutti. Se facciamo questo passo come parte di una sequenza di sviluppo – dunque qui seguiamo il passo dell’amore – possiamo pensare che la sofferenza da cui vogliamo liberarci non è solo la sofferenza della sofferenza, ma anche la sofferenza del cambiamento, quindi la sofferenza di questa felicità terrena, insoddisfacente, che non dura mai e non ci dà nessuna sicurezza.
Ci sono varie tipologie differenti di compassione. La grande compassione è rivolta a tutti gli esseri, e viene poi riempita da esseri specifici. Nella sua presentazione, il maestro indiano Chandrakirti dice che possiamo pensare a come le cause della loro sofferenza risiedano nel fatto che non capiscono il rapporto causa-effetto – il che genera la sofferenza della sofferenza – e non comprendono la vacuità – il che genera sia la sofferenza della sofferenza che la sofferenza del cambiamento – la sofferenza onnipervasiva potrebbe anche essere inclusa qui.
Poi c’è la compassione senza mira. “Senza mira” significa che non è rivolta a nessun essere specifico che abbia un’esistenza solida, veramente stabilita. La compassione senza mira è come il sole che irradia amore e compassione. In realtà è proprio così che opera un Buddha. È l’influenza illuminante di un Buddha. L’influenza illuminante è il termine “trinlay” (’phrin-las), che viene tradotto come “attività del Buddha”. Un Buddha non deve fare nulla. L’influenza illuminante semplicemente si irradia da un Buddha, e chiunque si trovi colpito dai suoi raggi di sole ne è influenzato se è ricettivo. Questo è l’amore e la compassione che non hanno obiettivi.
Un altro approccio per sviluppare la compassione che si trova anche nella presentazione di Chandrakirti consiste nel riconoscere che tutti gli esseri stanno soffrendo perché non comprendono il rapporto causa-effetto, l’impermanenza, eccetera. In effetti il punto non è che non lo comprendono ma che noi, pensando all’impermanenza e al rapporto causa-effetto, generiamo compassione per loro. Questo si adatterebbe molto bene al tuo esempio dello scarafaggio. Sapendo che non sarà per sempre uno scarafaggio, che il continuum mentale si sta manifestando così per via di una specifica forza karmica negativa, questo ci aiuta a sviluppare compassione per lo scarafaggio.
In maniera simile, comprendere la vacuità dello scarafaggio ci aiuta a sviluppare compassione per lui. Vediamo che non è intrinsecamente, dal suo lato, uno scarafaggio – questa non è la sua vera identità. Invece capiamo che è sorto a causa di moltissimi fattori. In effetti non c’è nessuna forma di vita che abbia un’identità intrinseca, un’essenza. In un continuum mentale non c’è nessuna essenza che lo renda sempre umano, animale, maschio, femmina, o qualunque altra cosa.
Dunque ci sono molti vari aspetti e approcci alla compassione che possiamo utilizzare. E certamente la compassione deve basarsi sul rispetto. Non stiamo parlando di compatire gli altri e di guardarli dall’alto in basso: “Io sono molto meglio”, “Povero te”, eccetera. Ovviamente questi atteggiamenti non fanno parte del nostro sviluppo della compassione. E se ancora avessimo atteggiamenti del genere, li avremmo già affrontati al livello intermedio della pratica del lam-rim, dove abbiamo lavorato per superare emozioni disturbanti come l’orgoglio.
Un’altra cosa che mi viene in mente riguardo le emozioni disturbanti è affrontata da Shantideva nel suo testo Bodhicharyavatara, Impegnarsi nel comportamento dei bodhisattva, e riguarda la gelosia. Dobbiamo assicurarci di non essere gelosi quando pratichiamo la compassione. Questo è un punto interessante che esprime nella sua discussione sul gioire. Se vediamo che qualcun altro può prendersi cura della persona che sta soffrendo, abbiamo bisogno di gioire di questo e non sentirci gelosi, pensando che io debba essere il salvatore o il maestro.
Questo accade spesso con gli insegnanti di Dharma. S’ingelosiscono e s’infastidiscono se i loro studenti vanno da un altro maestro. Potrebbe anche succedere con i genitori: “Voglio essere quello che si prende sempre cura dei bambini”. Non lo gradiscono se il loro partner si prende cura dei bambini. Questa emozione disturbante può essere un grosso ostacolo per lo sviluppo della compassione. Non è che devo essere il salvatore del mondo. Questa è una cosa interessante da considerare, particolarmente in termini del passo successivo, che è la decisione eccezionale.
Sesto passo: la decisione eccezionale
La decisione eccezionale non vuol dire semplicemente assumersi la responsabilità, perché questo faceva parte dell’amore e della compassione – l’avere un certo coraggio nel pensare che “Farò qualcosa per aiutarti a superare questa sofferenza grossolana, e farò qualcosa per aiutarti a superare la sofferenza del cambiamento”, e questo genere di cose. La decisione eccezionale è che “Ti aiuterò a raggiungere la liberazione e l’illuminazione”. È molto di più, è quindi una decisione eccezionale, straordinaria. “Eccezionale” è la prima sillaba della parola tibetana lhag-bsam usata in questo contesto. Mi prenderò la responsabilità di portare tutti alla liberazione e all’illuminazione.
È a questo punto che può manifestarsi il pericolo – “Io, io sono il salvatore del mondo. Sono colui che salverà tutti”. Ma Shantideva nel suo capitolo sulla perseveranza gioiosa afferma che uno dei fattori che deve essere presente è l’atteggiamento per cui “Io da solo lo farò. Non importa se nessun altro lo fa. Anche se nessun altro lo fa, io lo farò”. Però non può essere un atteggiamento egocentrico – se qualcun altro lo sta facendo, ne gioiamo.
Shantideva ci offre consigli incredibilmente utili su molti aspetti della pratica del Dharma. Questo è un testo che dobbiamo davvero contemplare come parte della meditazione quotidiana. Molte persone praticano quotidianamente varie figure di Buddha o pratiche con divinità, sadhana, recitazione di mantra eccetera. Queste sicuramente possono essere utili, ma quello che ho trovato di grande utilità è leggere, rendere la lettura parte della nostra pratica quotidiana. Penso che se siamo sinceri e onesti con noi stessi riguardo a quello di cui abbiamo realmente bisogno, scopriremo che la lettura è più utile. I tibetani di solito memorizzano alcuni testi, ma possiamo leggere le 37 pratiche del bodhisattva o il Lojong in otto versi, L’addestramento degli atteggiamenti in sette punti o il Bodhicharyavatara. Possiamo leggere tutto o alcuni versi, rifletterci sopra e integrarli nella nostra pratica quotidiana. È una pratica davvero eccellente. Trovo che sia molto più utile di recitare semplicemente dei mantra.
Domande
Stai dicendo che potremmo farlo durante una sessione di meditazione?
Durante una sessione di meditazione – assolutamente, anche se è solo un verso, è una pratica eccellente. Possiamo includerla tra la preghiera in sette parti e l’offerta del mandala all’inizio e la dedica alla fine. È questo ciò che raccomando ai miei studenti per la loro meditazione quando instaurano una pratica quotidiana.
Molte persone pensano che la pratica consista solo nella visualizzazione tantrica della divinità. Penso sia un errore limitare la pratica a questo. La pratica delle divinità non ha alcun senso senza questa base. Potremmo visualizzarci come Topolino o Minnie che portano tutti a Disneyland, se non avessimo tali basi.
La compassione senza mira è identica a quella che a volte viene tradotta come compassione “senza oggetto”?
Sì, la compassione “senza oggetto” è la stessa cosa di compassione “senza mira”. Sono due traduzioni dello stesso termine, che letteralmente significa “senza un oggetto focale”. Potremmo addentrarci nella teoria della cognizione e chiederci, “Potete avere una cognizione senza un oggetto focale?”. Non vogliamo entrare nelle differenze di opinioni tra il Chittamatra e il Madhyamaka, ma significa un oggetto focale che ha un modo impossibile di esistere, la cosiddetta esistenza veramente stabilita.
Ecco perché mi piace aggiungere “stabilita” al termine. Crea molta confusione usare il termine “vera esistenza”, e poi dover chiarire che la vera esistenza è in realtà un’esistenza falsa – nel senso che non esiste affatto. Ma l’esistenza veramente stabilita, qualcosa che è veramente stabilita – eccola qui, questa grande cosa.
Con questa decisione eccezionale, non siamo un po’ presuntuosi o paternalistici? Stiamo dicendo: “So cosa è meglio per te, e quindi ti aiuterò ad ottenerla. È questo ciò che ti darò.
Stai evidenziando un punto meraviglioso – che ci conduce molto bene al passo successivo della meditazione. È per via della nostra comprensione limitata che passiamo dalla decisione eccezionale al bodhichitta. Capiamo che l’unico modo per poter sapere realmente quale sia la cosa migliore per tutti sia di diventare dei Buddha onniscienti. Altrimenti stiamo effettivamente tirando a indovinare. Perché? Perché non conosciamo tutto il contesto, tutte le cause dei problemi specifici di qualunque persona. Non vediamo totalmente il presente, e dunque non vediamo tutto il contesto delle cose che causano le difficoltà. Non sappiamo nemmeno quali possano essere gli effetti di qualunque cosa che suggeriamo di fare non solo sulla persona, ma su tutte le altre persone con cui dopo interagirà. Ecco perché dobbiamo diventare dei Buddha onniscienti. Tuttavia – ora entra in gioco il “tuttavia” – questo non significa che dobbiamo aspettare fino a quando non diventiamo un Buddha prima di cercare di aiutare chiunque. Facciamo del nostro meglio – è tutto ciò che possiamo fare – senza pretendere di essere onniscienti.
Ora questo diventa un problema difficile, devo ammettere. Possiamo considerare l’esempio di un medico. Se un dottore dice al paziente, “Beh, non so realmente cosa non va. Non so davvero se questa medicina possa essere di aiuto, ma perché non la provi?”, questo non è di grande aiuto per un ammalato. Un fattore importante nell’efficacia di un dottore è la sua abilità di instillare fiducia nel paziente. È così che funziona un placebo: si basa sulla fiducia che qualcosa sarà efficace. Dunque la mente, l’atteggiamento, è molto coinvolto nel processo di guarigione.
La domanda è, quando cerchiamo di aiutare gli altri – non come medici, ma in generale – qual è il miglior approccio da utilizzare? È una domanda difficile, vero? Dire solo, “Beh non lo so, ma perché non provi questo?”, non è probabilmente la cosa più utile da dire. Penso che dipenda dalla persona che abbiamo di fronte. Un bambino o un giovane ha bisogno di una certa fiducia che il genitore o il maestro – chiunque sia la persona più anziana – sappia di cosa sta parlando. Con una persona simile, non credo sia di aiuto esprimere incertezza. Se invece è più anziana di noi o della nostra età, forse la dinamica deve essere un po’ diversa. Invece di dire, “Non lo so, ma perché non provi questo”, potremmo dire “Ti suggerisco di fare questo. Forse sarà di aiuto – ma non prometto nulla”. Quindi dipende. Non lo diremmo a un bambino, ma lo diremmo a una persona anziana.
Nella situazione in cui non sappiamo davvero cosa sia meglio, la motivazione più appropriata di voler essere di beneficio potrebbe essere una buona linea guida?
Mi viene in mente il modo di dire, “La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni”. Credo che dobbiamo stare molto attenti alle visioni errate, alle visioni distorte. Sono sicuro che le motivazioni delle persone che hanno condotto le invasioni dell’Iraq e dell’Afghanistan eccetera fossero di aiutare le persone di quei luoghi – che erano sinceri nel pensare che quello che stavano facendo sarebbe stato di beneficio. Penso al lavoro dei missionari, che operano con buone intenzioni, buone motivazioni.
Come sappiamo che agire secondo un punto di vista buddhista – seguendo le linee guida del Buddha con la motivazione di essere di aiuto per gli altri – ci consentirà di aiutare davvero gli altri? Come sappiamo se, sebbene la nostra motivazione sia buona, le linee guida che stiamo seguendo non facciano parte di qualche complotto machiavellico, e quindi non ci aiuteranno a beneficiare gli altri? È proprio necessario esaminare gli insegnamenti del Buddha, e cercare di fare in modo che i nostri consigli si basino su molta esperienza e su un’ampia conoscenza degli insegnamenti. Quindi una buona motivazione è molto importante quando si tratta di decidere il consiglio migliore da dare agli altri, ma la visione corretta e l’informazione sufficiente sono anche molto importanti.
Ora entriamo in tutta la questione di cosa possiamo fare quando siamo dei Buddha. Forse la lasciamo per questo pomeriggio. Ma riguardo questo punto, penso sia essenziale comprendere che non siamo Dio. Essere un Buddha non è come essere un Dio onnipotente. Persino un Buddha non può semplicemente schioccare le dita e aggiustare tutto. Questo ci porta alla comprensione di causa ed effetto e alla loro vacuità. Per poter aiutare gli altri in modo lucido, dobbiamo comprendere la vacuità di causa ed effetto. Tuttavia lasciamo tutto questo per il pomeriggio, quando parleremo del bodhichitta.
Concludiamo con una dedica. “Qualunque forza positiva o comprensione sia derivata da questi insegnamenti, che possa andare sempre più in profondità e agire come una causa affinché tutti raggiungano l’illuminazione” – questo è fondamentale: è affinché tutti raggiungano l’illuminazione, non solo io – “per il beneficio di tutti”.