Il bodhichitta in sette parti: generare il bodhichitta

Ripasso

Nella nostra discussione della meditazione in sette parti di causa ed effetto per generare il bodhichitta, siamo ora arrivati alla fase finale, il risultato di quello che abbiamo generato.

Abbiamo parlato della base, che è l’equanimità, libera da attaccamento, repulsione, e indifferenza, e la consapevolezza che tutti sono stati nostra madre; abbiamo ricordato la gentilezza dell’amore materno, con gratitudine e apprezzamento. Il passo successivo è stato provare l’amore caloroso, che proviene naturalmente da un senso di gratitudine e apprezzamento – con cui ci prendiamo cura degli altri, siamo interessati al loro benessere, e ci sentiremmo tristi se accadesse qualcosa di brutto a loro. Proviamo un senso di gioia quando li incontriamo e automaticamente ci sentiamo vicini a loro. All’interno di questo stato emotivo poi c’è l’amore, desiderare che gli altri siano felici e abbiano le cause della felicità.

Abbiamo parlato di come esaminare qui il desiderio che gli altri siano felici in termini terreni, o in altre parole come possano liberarsi dalla sofferenza dell’infelicità grossolana – sebbene non sia spiegato esattamente negli insegnamenti, ma avrebbe senso secondo la sequenza. Poi con compassione desideriamo che siano liberi dalla sofferenza e dalle cause della sofferenza, e questo sarebbe il desiderio che siano liberi non solo dalla sofferenza della sofferenza, ma anche la sofferenza della felicità samsarica, terrena, quel tipo di felicità che, con amore, avevamo desiderato che avessero, ovvero la sofferenza del cambiamento. Possiamo includere qui il desiderio che siano liberi dalla sofferenza onnipervasiva del samsara o meno, oppure possiamo lasciarlo per il passo successivo.

Nel lam-rim, le fasi graduali del sentiero, le cause per la felicità in termini di amore consistono nello smettere di agire distruttivamente e di accumulare forza positiva agendo in modo costruttivo. Per superare non solo la sofferenza della sofferenza, ma la sofferenza del cambiamento, le cause sarebbero, ad esempio – per separarla dalla sofferenza onnipervasiva – la comprensione dell’impermanenza, la non staticità. In questo modo si renderanno conto che la felicità terrena non durerà eccetera, e quindi non si attaccheranno a questa felicità. Questa comprensione però non li libererà da quel tipo di sofferenza, perché è necessaria la comprensione della vacuità.

Mentre vi spiego questo, ovviamente altre cose mi vengono in mente, e dibattendo inconsciamente con me stesso ho ora trovato un’obiezione a questo punto: è possibile superare la sofferenza della felicità ordinaria con un metodo ordinario, che consiste nel raggiungere stati elevati di concentrazione, grazie ai quali possono entrare negli stati elevati degli assorbimenti del regno della forma e del senza forma, in cui non provano più questa felicità terrena.

Ad ogni modo, possono esserci opponenti ordinari a questa sofferenza del cambiamento, e l’opponente più profondo sarebbe la comprensione della vacuità, che ci libera dalla sofferenza onnipervasiva – in altre parole non stiamo più attivando il karma. La sofferenza della sofferenza, ricordatevi, è ciò che matura dal comportamento distruttivo e la forza negativa del comportamento distruttivo, mentre la felicità ordinaria è ciò che matura dalla forza positiva del comportamento costruttivo. Ma questo è mischiato, macchiato, dalla confusione, e quindi semplicemente perpetua il samsara. Dunque quello che vogliamo fare, ovviamente, è sbarazzarci del karma.

E questo significa sbarazzarci delle cause e condizioni che farebbero maturare le nostre tendenze e forze karmiche. Se non ci sono le condizioni, allora non possiamo dire di avere ancora una tendenza; o per essere più precisi, se parliamo di una tendenza – o un’abitudine di far accadere qualcosa, di un risultato – questa è una designazione basata sulle cause e le possibilità di un risultato. Dunque se c’è una causa che è avvenuta e un risultato che potrebbe avvenire, allora potremmo dire che c’è una tendenza basata su quella causa che genererà un risultato. Se è impossibile che ci sia un risultato, perché non ci sono condizioni che permetterebbero alla tendenza di maturare, allora non si può dire che abbiamo ancora una tendenza.

Una tendenza è attribuita al fatto che c’è la possibilità di un risultato. Se non c’è alcuna possibilità di un risultato, allora non c’è più la tendenza di far accadere il risultato. È così che si purifica il karma, la forza karmica, il potenziale karmico – si eliminano le cause o condizioni che determinano la maturazione di queste tendenze karmiche tramite la comprensione della vacuità; ciò che matura queste cause è l’aggrapparsi alla sofferenza, al fatto che “Io voglio liberarmene”, e l’aggrapparsi alla felicità terrena, “Non voglio esserne privo”. Tutto questo si basa su una forte identificazione dell’io con quello che stiamo provando.

Se ci sbarazziamo di tale identificazione, queste tendenze non potranno maturare, perché non ci sono più le condizioni, specialmente se potete rimanere focalizzati su quella comprensione della vacuità tutto il tempo. Così avrete purificato queste tendenze karmiche. Ecco perché la pratica di Vajrasattva e queste cose sono solo rimedi temporanei, non sono il rimedio più profondo per eliminare il karma e il divenire. Con compassione, desideriamo che coltivino le cause per sbarazzarsi della sofferenza – al livello più profondo – perché c’è un modo convenzionale per sbarazzarsi di questa sofferenza del cambiamento entrando in qualche assorbimento più elevato.

E l’impermanenza sarebbe di aiuto, ovviamente – l’assorbimento più elevato li porterebbe lì, ma sarebbe qualcosa di temporaneo. Beh, temporaneo è un termine impreciso per fare riferimento al raggiungimento della libertà dalla sofferenza della sofferenza e alla felicità ordinaria. È solo temporanea se smettono di comportarsi in modo distruttivo, perché le forze sono così forti, le abitudini e le tendenze sono così forti che, sicuramente, lo faranno di nuovo, e quindi vogliamo che abbiano la comprensione totale della vacuità.

E così arriviamo alla decisione eccezionale. Come abbiamo visto, ci assumiamo la responsabilità, in un certo senso, di aiutarli con amore ad avere un tipo di felicità ordinaria; e con compassione ci prendiamo la responsabilità di aiutarli a superare non solo la sofferenza, ma anche la felicità ordinaria. Con la decisione eccezionale ci assumiamo la responsabilità completa di aiutarli a raggiungere l’illuminazione. Abbiamo anche visto quanto sia importante non provare orgoglio trattando gli altri con condiscendenza, pensando che “Salverò l’universo”, il complesso del grande salvatore; e non provare gelosia per le persone che stanno anche aiutando gli altri, pensando che siamo i soli a poter salvare il mondo.

Abbiamo anche bisogno di essere molto consapevoli dei limiti di essere un buddha – il limite è che non siamo onnipotenti. Il potere dell’influenza illuminante di un buddha e il potere del karma sono identici, come una sorta di conservazione dell’energia, o qualcosa del genere. Intendo dire che c’è una certa quantità di energia nell’universo, se vogliamo considerarlo dal punto di vista della fisica, e il potere di un buddha non può superare il potere del karma, altrimenti l’assurda conclusione sarebbe che se un buddha può liberare tutti e portare tutti all’illuminazione, perché non l’ha già fatto?

Non vogliamo entrare in tutto il dilemma di Giobbe della Bibbia, e quindi il Buddhismo evita questa contraddizione dicendo che un buddha non può farlo; nessuno può salvare chiunque semplicemente per il suo potere. La liberazione di chiunque accadrà come un fenomeno che sorge in maniera dipendente, dipendente dai suoi sforzi, dalle istruzioni e l’ispirazione di un buddha, ma richiede molte cause e condizioni.

Settimo passo: il bodhichitta

Siamo arrivati a questo punto, e ora passiamo al grande argomento, il bodhichitta in sé e per sé. Non è semplice concentrarsi su questo punto, e richiede molta abilità sapere di essere riusciti ad arrivare alla fase di avere l’obiettivo di bodhichitta. Siamo condotti a questo obiettivo prendendoci la responsabilità di “Cercherò di portare tutti alla liberazione e all’illuminazione”, e notando che “L’unico modo per farlo è se divento un buddha”. Su cosa effettivamente ci concentriamo quando facciamo questo?

La necessità di diventare un buddha

Innanzitutto dobbiamo essere convinti che “Per poter aiutare gli altri”, per portarli alla liberazione e all’illuminazione, “Devo diventare un buddha”. “Perché devo diventare un buddha?”. Perché non è sufficiente essere un arhat, essere semplicemente liberi dal samsara? La ragione per questo – e ne ho parlato brevemente prima, ma solo per sottolinearlo – è che la nostra attività mentale, specialmente dal punto di vista Gelug Prasangika, crea apparenze di modi impossibili di esistere.

E i modi impossibili di esistere rientrano nel contesto dell’etichettatura mentale… L’etichettatura mentale, ecco. Abbiamo un’etichetta, una parola, ad esempio “io”. Poi abbiamo una base per etichettare questo “io”, e la base per l’etichettatura consisterebbe nei fattori aggregati, i cinque fattori aggregati che formano ciascun momento della nostra esperienza. Queste sono cose che cambiano tutto il tempo, e ciascun momento della nostra esperienza è formato da uno o più elementi di questi cinque gruppi.

Non è che le cose esistono in cinque borse da qualche parte, ma questi sono solo dei raggruppamenti, modi di comprendere la nostra esperienza. E dunque ogni momento dell’esperienza avrà qualche forma di fenomeno fisico – una vista, un suono, un odore, un sapore, una sensazione fisica – e il corpo è la base di questo, e i sensori sono le cellule fotosensibili degli occhi, le cellule sensibili al suono delle orecchie e così via. Questo non si riferisce ai poteri dei sensi, non è qualcosa di astratto – si riferisce alle cellule stesse, che sono forme di fenomeni fisici.

Poi ci sarà una coscienza primaria. La coscienza primaria è ciò che è consapevole della natura essenziale di questo oggetto focale. La natura essenziale è essenzialmente solo ciò che è, ma nel senso generale – una vista, un suono, un odore, un sapore, un tocco – dunque sarebbe come… Mi sto addentrando in un campo minato, perché questa è la terra dei computer qui a Seattle – se avete un computer, e avete qualche codice per programmare, allora la coscienza primaria sarebbe quell’aspetto che può leggere e dire: “Questa è informazione audio”, oppure “Questa è informazione visiva”. La coscienza primaria fa questo, è semplicemente consapevole del tipo di informazione.

Poi abbiamo una sensazione – ma seguiamo un ordine diverso, non voglio seguire l’ordine tradizionale – passiamo direttamente al “distinguere”. Questo punto spesso viene chiamato “riconoscimento”, che è un termine troppo sofisticato. Il riconoscimento implica che conoscevamo qualcosa prima e che ora ce lo stiamo ricordando, unendolo a ciò che avevamo sperimentato prima. Non si tratta di questo. Vuol dire distinguere, all’interno di un campo sensoriale, le caratteristiche distintive o individuali di qualcosa.

Dunque vedo delle forme colorate – è quello che vedo quando impiego la coscienza visiva – e sono in grado di distinguere e mettere insieme le forme colorate di questo colore e così via in un viso, distinguendolo da tutte le altre forme colorate. Se non riesco a farlo, non potrò comprendere o affrontare nulla di ciò che sto sperimentando. Se metto insieme queste forme colorate creando un oggetto in modo inappropriato – “un po’ del viso, un po’ del muro, e un po’ del tappeto” – sarà un grande problema. Dunque abbiamo il distinguere; distinguiamo una caratteristica individuale del suono di un aeroplano che ci passa sopra dal suono degli uccelli, o qualunque altra cosa.

La sensazione, come abbiamo visto, parla soltanto della dimensione di felicità o infelicità. Tratta solo questo, ed è così che sperimentiamo la maturazione del nostro karma. Dunque se sperimentiamo infelicità è la maturazione del karma negativo, e se sperimentiamo felicità, questa è la maturazione del karma positivo. Questa è la differenza tra un essere senziente e un computer – il provare una sensazione di felicità o infelicità. Il computer non prova felicità o infelicità mentre decodifica un codice e distingue varie cose. Il fattore della felicità è cruciale affinché un essere senziente provi qualcosa.

L’ultimo fattore aggregato è “tutto il resto”, dunque tutte le emozioni sono presenti assieme a tutti i fattori cognitivi come la concentrazione, l’interesse, e così via. E le tendenze e questo genere di cose – che non sono modi di essere consapevoli di qualcosa – sono anche incluse qui. Questi sono, molto brevemente, gli aggregati.

Ogni momento è formato da un insieme di queste cose, a cui viene attributo un “io”. Dunque abbiamo l’etichetta, abbiamo la base per l’etichettatura, e poi c’è quello a cui l’etichetta si riferisce. E ciò a cui l’etichetta si riferisce, l’oggetto di riferimento è “io”, l’io convenzionalmente esistente. Ma questo “io” non è identico alla base, e non potete trovare questo “io” nella base in termini di una cosa trovabile là dentro – una caratteristica distintiva che per suo potere, o unita all’etichettatura mentale, lo renda “io”.

La quarta cosa coinvolta nell’etichettatura mentale, ciò che è assente è… Abbiamo un oggetto di riferimento; quindi, l’etichetta si riferisce a qualcosa di convenzionalmente esistente. Ma non c’è nulla che corrisponda all’etichetta, e questo sarebbe ciò che chiamo una “cosa” di riferimento tra virgolette. Una “cosa” di riferimento sarebbe qualcosa che esiste in una scatola, come implicato dalle nostre parole ed etichette, come nel dizionario. Il dizionario ha tutte queste parole, che dopotutto sono solo collezioni arbitrarie di suoni privi di significato, a cui per convenzione viene assegnato un significato; e il significato a sua volta è stato pure inventato dalle persone e inserito in un dizionario.

Prendiamo ad esempio “amore”: se guardiamo a tutto lo spettro di emozioni, dal lato dell’emozione non ci sono dei confini, delle mura per cui “Da questo lato è amore” e “Da quell’altro è qualcosa di diverso” – sarebbe assurdo. Non c’è nulla dal lato delle emozioni che corrisponda alle nostre parole per le differenti emozioni in una scatola, “C’è amore e ora lo sto provando”, e “C’è gelosia e ora la sto provando”, vero? Non ha alcun senso. Quando diciamo che non potete trovare l’oggetto di confutazione, stiamo parlando in termini di etichettatura mentale, nel senso che non si può trovare una “cosa” di riferimento come l’amore, dal lato della base per l’etichettatura, dal lato delle emozioni (questo aggregato che include tutte le emozioni) – non c’è l’amore in una piccola scatola con la caratteristica distintiva dell’amore che mi permetta di chiamarlo “amore” e non “odio”.

Ma cos’è l’amore, cosa stabilisce che c’è una cosa come l’amore? Beh, c’è una parola o un concetto chiamato “amore”. La parola e il concetto creano amore? Ovviamente no. Ma come stabiliamo e proviamo che ci sia una cosa chiamata amore? Stavo accennando a questo quando ho detto che non stiamo parlando di modi impossibili di esistere quando parliamo della vacuità – la vacuità è un’assenza totale di qualcosa che non è mai esistita e non potrà mai esistere. Stiamo parlando di un’assenza totale di un modo impossibile di stabilire che qualcosa esista, e non possiamo stabilire che qualcosa esista dal lato dell’oggetto. Puoi solo stabilire che c’è qualcosa per via delle convenzioni, ci sono convenzioni per essa. Ma le convenzioni non la creano, e non devo etichettare “amore” come “amore” per poterlo provare. È importante tenerlo a mente.

[Il dott. Berzin presenta qui una differenza di significato tra le parole inglesi “emptiness” e “voidness”, che in italiano si rendono entrambe con “vacuità”; il dott. Berzin preferisce “voidness” perché, nelle sue parole:] quando parliamo di fenomeni di negazione, come il concentrarsi su un tavolo senza tovaglia, c’è un tavolo, privo però di tovaglia [“privo” qui in inglese si rende con “emptiness”]. “Il bicchiere è privo d’acqua” [anche qui “privo” si rende con “emptiness”, ma non è questo il tipo di vacuità di cui si parla qui. Il dott. Berzin continua:] è vacuità, un’assenza di modi impossibili di esistere, e quindi “Non c’è una cosa del genere”. Dunque è come un’assenza, un vuoto, nel senso che comprendiamo che è privo di modi impossibili di esistere, [ovvero il tavolo è privo di un’esistenza veramente stabilita, dal suo lato e per il suo potere, un’esistenza totalmente indipendente da tutto il resto, come il legno con cui è stato costruito il tavolo, l’albero da cui proviene il legno, il sole e l’acqua che hanno nutrito l’albero, il falegname che l’ha assemblato, eccetera. N.d.T.].

Ora stiamo esaminando il bodhichitta – mi sono dimenticato di come siamo arrivati qui nella discussione – causa ed effetto, e in termini di causa ed effetto vogliamo sbarazzarci delle tendenze per il samsara, e per questo dobbiamo comprendere la vacuità – è così che siamo arrivati a questo argomento. Ed è impossibile per un buddha eliminare la sofferenza di chiunque, e quindi per rimuovere la nostra sofferenza dobbiamo comprendere la vacuità, in modo tale da non attivare i semi del karma – è così che abbiamo preso questa tangente nella discussione, scusatemi.

Dunque perché la liberazione non è sufficiente per raggiungere l’illuminazione? Se ci liberiamo dalle emozioni disturbanti e se ci liberiamo dal karma… allora quello che avviene è che la mente in automatico crea apparenze di questi modi impossibili di esistere… e quando capiamo che i modi impossibili di esistere non si riferiscono a nulla di reale – in altre parole non c’è una “cosa” di riferimento in una scatola – allora il primo passo è non crederci. Se non ci credete, allora non verrete fuorviati da queste apparenze ingannevoli create dalla mente, e non avrete le emozioni disturbanti che sorgerebbero in termini di “Devo ottenere questa cosa per sentirmi più sicuro” – dunque un’esperienza di insicurezza, oppure “Me ne devo sbarazzare”, oppure “Devo ignorarla”.

Tuttavia, anche se non abbiamo emozioni disturbanti e possiamo avere equanimità verso tutti – senza attrazione, repulsione, e senza ignorare nessuno – tuttavia ci sono le abitudini ad afferrarsi (questo termine, “afferrarsi” è pure una traduzione terribile) ad un’esistenza veramente stabilita, questa esistenza impossibile. Non ho trovato un modo migliore per tradurlo, perché ha due significati. Un aspetto è la parola “dzin” (‘dzin) – “tenere” come un oggetto questa apparenza ingannevole, e l’altro aspetto è “crederci”.

Quindi ci sbarazziamo dal credere in questa apparenza, ma la percepiamo ancora. L’abitudine produrrà sia la percezione che il credere in questo modo impossibile di esistere. Dunque per prima cosa l’abitudine smette di dare origine al credere in questa spazzatura prodotta dalla mente. Cosa produce la mente? La mente produce un’apparenza di ogni cosa incapsulata nella plastica, in scatole, che corrisponde alle parole, che corrisponde a quello che vediamo di fronte a noi. Ti guardo, e cosa vedo? Ti vedo semplicemente in una scatola; non vedo tutto ciò che è stato prima e tutto quello che potrebbe seguire dopo, e tutte le cause e condizioni e cose che ti hanno influenzato. Non vedo tutto ciò.

Non vedo nemmeno quello che c’è dietro la mia testa; dunque, è come vedere attraverso un periscopio – una percezione molto, molto limitata. Siamo esseri limitati, questo è il significato di essere “senziente”, una mente limitata; un buddha non è un essere senziente. Pertanto siccome la mente, il nostro hardware, è limitato, allora abbiamo queste apparenze di ogni cosa come se fossero delle scatole [indipendenti]. Non vediamo le connessioni di ogni cosa. E non crediamo che esistano in questo modo [indipendente] quando comprendiamo la vacuità, ma tuttavia, non possiamo percepire o conoscere tutte le connessioni causali di ogni cosa.

Per aiutare davvero qualcuno e portarlo alla liberazione, abbiamo bisogno di conoscere tutte le cause che l’hanno portato nella condizione in cui si trova ora in termini della sua esperienza, il livello delle sue emozioni disturbanti e del karma negativo eccetera, e dobbiamo sapere l’effetto di ogni cosa che gli insegniamo. Nella presentazione Theravada, almeno, riguardo quello che sa un buddha, la mente onnisciente di un buddha, sostanzialmente conosce le cause e gli effetti del comportamento. Un buddha non deve necessariamente conoscere le direzioni di come andare da qualche parte, o l’esempio scherzoso che uso, il numero di telefono di chiunque sul pianeta, e un buddha conosce solo una cosa alla volta.

Dal punto di vista Mahayana, un buddha conosce ogni cosa simultaneamente, incluso il numero di telefono di chiunque. Quando ci pensate, “È questo un esempio stupido, o c’è un significato più profondo?”. Beh, un buddha conosce tutte le cause, e quindi un buddha saprebbe quando hai comprato una scheda telefonica e pertanto conoscerebbe il tuo numero. Potremmo giocare con questa idea di come un buddha conosca ogni cosa. Si basa sulla causa e l’effetto.

Pertanto siamo convinti che per aiutare chiunque, per portarli alla liberazione e all’illuminazione, dobbiamo diventare un buddha; altrimenti non riusciremmo a fare molto bene questa transizione dalla decisione eccezionale al bodhichitta, voler diventare un buddha e prendersi la responsabilità di farlo. Dunque “Come posso farlo?”, “L’unico modo per farlo è non solo ottenere la liberazione, ma smettere di fare in modo che la mia mente crei apparenze limitate, come se fossero delle scatole indipendenti”: devo diventare un buddha.

Concentrarsi con un obiettivo di bodhichitta

Tsongkhapa sottolinea che per generare uno stato mentale in meditazione, dobbiamo sapere su cosa si focalizza la mente – l’oggetto focale – e come quella mente conosca l’oggetto. Con compassione, ad esempio, ci concentriamo su tutti gli esseri e sulla loro sofferenza, e il modo in cui la mente si relaziona a questo è con il desiderio che ne siano liberi. Questo è simile alla rinuncia, con cui ci concentriamo su noi stessi e la nostra sofferenza con il desiderio di esserne liberi. Dunque è lo stesso tipo di mente focalizzata sullo stesso tipo di oggetto focale, ma ora è rivolto agli altri invece che a noi stessi. Questa è la compassione. Con l’amore, in maniera simile, ci concentriamo sugli altri desiderando che siano felici.

Cosa appare quando ci concentriamo sul bodhichitta, sull’obiettivo di bodhichitta? Questa è la grande domanda che non è così semplice, e non è la stessa cosa della meditazione sull’amore e la compassione. L’amore, la compassione, e la decisione eccezionale accompagnano e sono la base del bodhichitta, ma non sono il principale oggetto focale. Ci sono molte spiegazioni differenti qui. Una spiegazione è che possiamo avere varie tipologie di cognizione simultaneamente. Ad esempio, possiamo vedere le cose di fronte a noi e sentire allo stesso tempo; lo facciamo quando parliamo con qualcuno di persona. Qui ci sono due coscienze differenti, due cognizioni diverse, che accadono allo stesso tempo.

Alcune spiegazioni dicono che si alternano in nanosecondi, mentre altre affermano che accadono allo stesso tempo ed è solo questione di quanta attenzione e concentrazione si ha su un aspetto, l’altro, o entrambi; e possiamo avere una concentrazione esclusiva su uno mentre l’altro sta avvenendo. Dunque possiamo avere amore e compassione nello stesso tempo in cui abbiamo il bodhichitta – oppure potrebbe diventare… non realmente non manifesto, ma senza entrare in dettagli, potrebbe rimanere in sottofondo.

Quando ci concentriamo sul bodhichitta, alcune spiegazioni dicono che c’è un aspetto in cui si pensa a tutti gli esseri senzienti con il desiderio di portarli all’illuminazione, e poi l’obiettivo principale del bodhichitta è – come ho detto continuamente nella nostra discussione – la nostra illuminazione individuale che non è ancora avvenuta, ma che potrebbe avvenire sulla base della natura di Buddha. Questo è il focus. E come vi concentrate su questo? Vi concentrate su questo con l’intenzione di raggiungerla e di aiutare tutti gli esseri grazie a tale realizzazione, questo è il bodhichitta.

La nostra illuminazione futura che ancora non è avvenuta

Ora una domanda molto, molto importante. Su che cosa ci stiamo concentrando qui? Questo ci porta a tutta questa discussione del “futuro”. Una delle chiavi per questo è che quando parliamo del “passato” e del “futuro”, queste sono parole occidentali, modi occidentali di concettualizzare. Nel Buddhismo è diverso, perché si parla di qualcosa “che non sta più accadendo” e che “non è ancora accaduta”.

Per fare un esempio semplice, l’anno 2006 non sta più accadendo, mentre il 2008 non è ancora avvenuto. Ciò di cui parliamo quando consideriamo il passato è il 2006, che non sta più accadendo. Sta accadendo ora? No, non sta accadendo ora, non sta accadendo più. Esiste? Sì esiste, ma non sta accadendo ora. Il 2008, che non è ancora accaduto, esiste. Può essere conosciuto? Sì, posso fare piani per il 2008 eccetera. Sta accadendo ora? No, non sta accadendo ora.

All’interno dei fenomeni esistenti – i fenomeni esistenti sono quei fenomeni che possono essere validamente conosciuti, per quelli di voi che studiano il tibetano, stiamo parlando di “yo-pa” (yod-pa), il fenomeno esistente, e “mey-pa” (med-pa), il fenomeno inesistente – tra i fenomeni esistenti, c’è una divisione tra “si-pa” (srid-pa) e “mi-si-pa” (mi-srid-pa) in tibetano. Molte persone traducono questi termini come “esistente” e “non esistente”, che è sbagliato; non vuol dire questo, perché entrambi sono esistenti. Vuol dire “che forse accade ora” o “che forse non accade ora”. Entrambi esistono. Ciò che non sta più accadendo esiste; potreste conoscerlo in modo valido, ma non sta accadendo ora. E la nostra illuminazione futura, che esiste, non sta ancora accadendo, ma potreste conoscerla ora, e ora non sta avvenendo.

Questa è una delle chiavi che apre l’argomento. Sappiamo che la nostra illuminazione non è ancora avvenuta; potrebbe avvenire, ma sapete che non sta ancora avvenendo. Questo è molto importante, altrimenti potreste illudervi di pensare che “Sono già illuminato”. Qui non ci stiamo concentrando sul non accadimento (finora) di quella illuminazione, anche se abbiamo bisogno di comprendere questo punto, ma ci stiamo focalizzando su quella illuminazione che non sta ancora avvenendo.

La terza e la quarta verità nei nostri continua mentali

Dunque cos’è questa illuminazione non ancora avvenuta? Se chiediamo ai grandi geshe, la loro risposta è la terza e la quarta nobile verità sul continuum mentale. Molte grazie. Ma cosa indica? Beh la terza verità è un vero arresto delle oscurazioni emotive e cognitive. Quelle cognitive sono queste apparenze di modi impossibili di esistere, e quelle emotive provengono dal credere, dall’inconsapevolezza, dall’ignoranza di pensare che ci siano “cose” effettive, dei referenti che corrispondano alla spazzatura creata dalle nostre menti, e poi a tutte le emozioni disturbanti e tendenze di tali emozioni che emergono per via di tali referenti.

Dunque un vero arresto, una parte del rifugio del Dharma, è questo vero arresto sul continuum mentale. E la quarta nobile verità è il vero percorso mentale. Non stiamo parlando di un sentiero su cui camminare; secondo alcuni sistemi di principi stiamo parlando di un effettivo percorso mentale, un modo di essere consapevoli delle cose che apporterà un vero arresto e che deriverà da un vero arresto. A volte possiamo includere la base fisica di questo, ma è principalmente la mente.

I veri arresti e la vacuità della mente

Questo è ciò su cui ci stiamo concentrando, e diventa molto complicato molto, molto velocemente. Come ci si concentra su un vero arresto? Cosa sta accadendo qui? Un vero arresto vuol dire separarsi dalle emozioni disturbanti, da tutte le cosiddette “macchie passeggere” sul continuum mentale – che non fanno parte della natura essenziale dell’attività mentale della mente. Secondo i testi di studio Gelug Prasangika, ad eccezione di quelli di Panchen Sonam Dragpa (Pan-chen bSod-nams grags-pa), tutti concordano che ciò equivale alla vacuità della mente.

E dunque in questa spiegazione, lo Svabhavakaya – il corpo di natura essenziale – è la vacuità della mente di un buddha e la sua separazione, i suoi veri arresti. Pertanto è la stessa cosa, è equivalente. Non dobbiamo comprendere le pervasioni logiche ma, senza entrare in molti dettagli perché è davvero complesso – fondamentalmente quando ci concentriamo sulla vacuità (l’assenza di modi impossibili di esistere) c’è in quel momento un arresto delle macchie passeggere. Quindi tutta questa configurazione di concentrarsi sulla vacuità è un vero arresto – ma in un certo senso potrebbe tornare se non l’avete ottenuto totalmente – e se avete un vero arresto, allora quello è uno stato mentale che comprende la vacuità.

Fondamentalmente qui stiamo parlando di ciò che si chiama “la doppia purezza della mente”, nel senso che quando si rimuovono le macchie passeggere, si ottiene uno stato che non era mai stato macchiato sin dall’inizio. La mente non era mai stata macchiata per sua natura; pertanto, quando comprendete come questo sia impossibile, arriverete alla stessa cosa, ovvero questa doppia purezza. Dunque per concentrarci sui veri arresti che raggiungeremo e non sono ancora avvenuti, in termini di questo aspetto del bodhichitta, ci focalizziamo sulla vacuità della mente.

Il vero percorso mentale

E quando ci concentriamo sul vero percorso mentale, la quarta nobile verità, che non è ancora avvenuta, su cosa ci stiamo concentrando? Qui dobbiamo introdurre l’argomento della natura di Buddha. La natura di Buddha riguarda quei fattori che ci aiutano a diventare un buddha. Tutti noi abbiamo questi fattori. Ci sono fattori dimoranti e in evoluzione, e questi fattori, in un certo senso, diventeranno i vari corpi di un buddha. I fattori dimoranti sono la vacuità della mente, che non cambia – la vacuità della mente è uno stato naturale di purezza mentale dalle macchie passeggere, lo Svabhavakaya – che non cambia, è sempre stato così. E i fattori in evoluzione invece evolveranno diventando il Dharmakaya, la mente di un Buddha, e i vari corpi, le forme fisiche di un Buddha.

La natura di Buddha in evoluzione: la rete di forza positiva

Possiamo esplorare moltissimo questi vari aspetti, ma stiamo parlando fondamentalmente delle due “reti”, per come le chiamo, invece di “collezioni”. Non stiamo parlando di una collezione di francobolli, si tratta invece di un’accumulazione. Riguardo a ciò che è solitamente tradotto come “merito”, abbiamo la “forza positiva”, che crea una rete sempre più forte che porta infine il continuum mentale a un altro livello operativo.

Questa forza positiva… diventa una domanda molto interessante, ho un lungo articolo su questo sul mio sito web, ma cominciamo dall’altra rete, la rete della consapevolezza profonda. Questa è la consapevolezza profonda della vacuità, che si accumula in assorbimento totale sulla vacuità, in modo non concettuale, e quindi tutto il resto è macchiato: l’apparenza di un’esistenza reale, l’afferrarsi ad una vera esistenza, e tutte queste cose. Dunque allora potremmo domandarci, “Beh, la forza positiva che si accumula è macchiata; quindi, come potrebbe essere una causa per la mente di un buddha, un corpo di buddha, se è macchiata?”.

L’indizio qui è la dedica, ecco perché è così importante. Se viene dedicata all’illuminazione, anche se è macchiata e accumulata con confusione, quella forza positiva agirà come una causa per l’illuminazione. Se non viene dedicata, siccome è macchiata, contribuirà semplicemente a un samsara più bello. Dunque la dedica è cruciale e non è un problema, anche se potremmo fare un dibattito molto profondo su come una causa macchiata dia origine a un risultato non macchiato.

La rete delle cinque tipologie di consapevolezza profonda

Spero di non stare dando troppi dettagli, ma questo è un buon pubblico per farlo. Ora, se consideriamo il vero percorso mentale, su cosa ci stiamo concentrando? Ci stiamo concentrando su questi fattori in evoluzione della natura di Buddha che sono ora cause per raggiungere il risultato. Quando parliamo della rete di consapevolezza profonda, c’è la consapevolezza profonda della vacuità, della verità più profonda. Ma c’è anche una profonda consapevolezza della verità convenzionale – queste sono le “cinque tipologie di consapevolezza profonda” – tradotte a volte come le “cinque saggezze del Buddha”, una traduzione alquanto stupida, perché un verme le possiede, tutti le possiedono. È la natura di Buddha.

Queste sono: (1) la consapevolezza simile allo specchio, che semplicemente incamera informazioni; (2) la consapevolezza equalizzante, che mette insieme le cose, altrimenti non possiamo comprendere nulla; (3) la consapevolezza individualizzante, che distingue questo da quello, anche se quella equalizzante può mettere insieme queste due persone come maschi e queste due come femmine. Se non riusciamo a metterle insieme, allora è impossibile affrontare quello di cui facciamo esperienza. Allora abbiamo la consapevolezza individualizzante, che distingue questo da quello; e poi (4) la consapevolezza del conseguimento, che fondamentalmente significa fare qualcosa, comunicare con quello di cui facciamo esperienza. E sappiamo comunicare in modo differente con un bambino da come comunichiamo con un adulto, e quindi abbiamo questa abilità. Vedete del cibo, e persino il verme sa cosa fare con il cibo. Lo mangiate, e quindi lo gestite in un certo modo; e infine (5) la consapevolezza del dharmadhatu, la sfera della realtà, che ha due livelli. Quello in cui sono le cose, e quello più profondo, nel senso di come esistono.

In ogni caso, tutto questo è presente grazie ai fattori della natura di Buddha, e quindi tutti noi li abbiamo. Anche se non abbiamo la rete di consapevolezza profonda dalla cognizione non concettuale della vacuità – che certamente la gran parte di noi non ha – ciò che abbiamo è quella convenzionale; queste due reti non hanno inizio. Non addentriamoci negli altri aspetti della natura di Buddha, parliamo solo in termini di questo.

Cognizione dell’illuminazione non ancora avvenuta tramite l’inferenza

Parliamo ora delle tendenze per il risultato dei corpi di un buddha, la mente di un buddha, e così via. Qui una tendenza karmica ha una certa sfaccettatura – letteralmente una “parte” (cha), una certa “sfaccettatura” – che è “non dare origine temporaneamente al suo risultato”, a cui può dare origine, e questo è il “risultato non ancora avvenuto”, ovvero il futuro. Dunque il “non dare origine temporaneamente al suo risultato”, che è una certa parte o sfaccettatura della tendenza, della causa, questo è il “risultato non ancora avvenuto”. Il “risultato non ancora avvenuto” è attribuito al “non dare origine temporaneamente al suo risultato”, che viene designato sulla tendenza.

Un’altra parte della tendenza è la “capacità di dare origine al risultato quando le condizioni sono complete”. Tutto questo fa parte di ciò che sta avvenendo ora, e così possiamo concentrarci su qualcosa ora, quello che sta accadendo ora. Dunque è questo ciò che sta accadendo ora, abbiamo una tendenza, una tendenza ha una capacità, tutti questi fattori della natura di Buddha hanno “la capacità di dare origine al risultato” – l’illuminazione – “quando le condizioni sono complete”, e il “non dare origine temporaneamente al risultato” è il “risultato non ancora avvenuto”.

La base di negazione è “l’assenza del risultato nel nostro continuum mentale”. Sulla base di tale assenza del risultato possiamo dire che non sta ancora accadendo. È molto importante rendersi conto che quando ci concentriamo sul bodhichitta non siamo matti. Sappiamo che c’è “un’assenza del risultato”, non siamo ancora un buddha. Ed è per via di questa assenza che possiamo dire che c’è un “risultato non ancora avvenuto”.

Ora, il “risultato non ancora avvenuto” e “l’assenza del risultato” sono “fenomeni di negazione” (dgag-pa), ovvero dobbiamo aver qualche cognizione del risultato per sapere che non sta accadendo ora. Come vedo l’assenza di una mela sul tavolo? Cosa vedo? Non vedo nulla, e quel nulla è per me l’assenza di una mela. Come so che è l’assenza di una mela? Perché so cos’è una mela, e non c’è – per dirla in parole povere.

Questo viene poco prima del bodhichitta, “Per aiutare tutti gli esseri e per portarli alla liberazione e all’illuminazione devo diventare un buddha”, “Ma non sono ancora un buddha” – vi ricordate di quel piccolo passo? Questo è il passo, che “Non sono ancora un buddha”. Dunque al momento c’è l’assenza dell’illuminazione, “C’è l’assenza dell’illuminazione che accade ora” – per renderla più specifica – “nel mio continuum mentale”. Ma ci sono cause per tale illuminazione, e parte di quelle cause è “l’illuminazione non ancora avvenuta”, perché quelle cause “temporaneamente non la stanno facendo sorgere”, ma hanno “l’abilità di farla sorgere quando tutte le condizioni sono complete”. In altre parole, quando accumuliamo completamente questa rete di forza positiva e consapevolezza profonda. Ci sono molte comprensioni qui nel bodhichitta.

Si tratta dell’intenzione?

L’intenzione è di raggiungerla. L’intenzione di raggiungere l’illuminazione si basa sulla comprensione che ancora non l’ho ottenuta, ma che devo ottenerla per poter aiutare a liberare e portare tutti all’illuminazione. Dunque l’intenzione sorge da questa comprensione. Avreste l’intenzione di ottenere qualcosa se ancora non l’avete, e vorreste ottenerla solo se sapete che è per voi possibile ottenerla. Altrimenti che state facendo? E vorreste ottenerla perché sapete la necessità di ottenerla.

Tutto questo è il contesto per sviluppare un bodhichitta sincero. Dobbiamo avere una certa cognizione dell’illuminazione, e ora questo è un “fenomeno di affermazione” (sgrub-pa), l’illuminazione che non è ancora avvenuta. Come ho detto prima in tutta questa serie di lezioni, si tratta della nostra illuminazione individuale. Non stiamo parlando dell’illuminazione del Buddha Shakyamuni e non stiamo parlando dell’illuminazione in generale, ma si tratta della nostra illuminazione individuale che non è ancora avvenuta. La conosciamo grazie alla nostra natura di Buddha individuale, ovvero le cause che determineranno tale risultato.

La terza e la quarta nobile verità – questa è l’illuminazione non ancora avvenuta – quindi potete conoscere la vacuità della mente che ci conduce alla terza nobile verità, il vero arresto; e così sapreste che… Questa è la parte difficile. Quella consapevolezza profonda di un buddha, la consapevolezza onnisciente di un buddha, e i corpi che provengono dall’aspetto fisico di questo, come potreste conoscere questa quarta nobile verità che non sta ancora accadendo? Qui la conosceremmo per inferenza; se le cause sono presenti, c’è il risultato, e lo conosceremmo concettualmente, tramite un’inferenza.

Come conosciamo qualcosa concettualmente, tramite un’inferenza? La conosciamo tramite una categoria. Abbiamo la categoria “illuminazione”, la mente di un Buddha e i corpi di un Buddha. Ora dobbiamo entrare nella teoria della cognizione, il modo Gelug Prasangika di presentarlo – ci sono molte altre versioni – e qui l’oggetto apparente in una cognizione concettuale è una categoria, è ciò che è “proprio di fronte alla mente”; se lo esprimiamo in modo vivido, come è espresso graficamente nel testo, è “ciò che è di fronte al volto della mente”. E quella categoria, ovviamente, non ha forma o colore o nulla del genere, e dunque ciò che appare è una rappresentazione della categoria.

Dunque cosa rappresenterebbe l’illuminazione? Bingo! Abbiamo una visualizzazione di un buddha. Pertanto, nelle nostre pratiche usuali, all’inizio di ogni pratica sul rifugio e il bodhichitta si visualizza un buddha, l’albero dei guru riuniti, e concentrandosi su questo diamo una direzione sicura alla nostra vita e generiamo il bodhichitta. È chiaro. Ciò che appare nella mente è un buddha, o nelle meditazioni tantriche, voi stessi come un buddha o figura di buddha.

Ecco perché è assolutamente essenziale avere il bodhichitta per praticare il tantra, perché ci stiamo concentrando sulla nostra illuminazione futura che non è ancora avvenuta, tramite la categoria “illuminazione”. E sulla base di questa assenza (l’illuminazione che non sta avvenendo ora), so che questa illuminazione non è ancora avvenuta, e tale illuminazione non ancora avvenuta è un aspetto della causa, la tendenza, la natura di Buddha – la mia rete di forza positiva e consapevolezza profonda e tutte queste altre cose che sono presenti qui.

Sebbene sia molto complesso, penso che tutto questo sia presente quando analizziamo quello che sta accadendo nella nostra mente quando ci sediamo concentrandoci in teoria sul bodhichitta. Cosa appare? Cosa fai? E non vuol dire sedersi e meditare sulla compassione. Questo è un passo precedente. È ovviamente molto difficile, perché stiamo parlando della terza e della quarta nobile verità qui, stiamo parlando della vacuità, e in un certo senso… Questa visualizzazione ad esempio – non deve essere una visualizzazione, possiamo farla con il metodo mahamudra – nel metodo mahamudra ci concentriamo sulla natura della mente, la consapevolezza profonda della mente – non deve essere una visualizzazione grafica. Ci sono molti modi di rappresentare questa quarta nobile verità, la consapevolezza profonda e la forza positiva della mente.

Ma da un punto di vista Gelugpa, non possiamo concentrarsi simultaneamente sulle due verità della vacuità della mente e la mente stessa, la mente convenzionale. Ciò che lo impedisce è questo altro aspetto dell’oscurazione cognitiva. L’oscurazione cognitiva non solo crea un’apparenza di un’esistenza reale, un’esistenza veramente stabilita, ma ci impedisce anche di concentrarci sulle due verità simultaneamente, perché c’è l’apparenza di un’esistenza reale, e non si può avere l’apparenza della vacuità allo stesso tempo, quindi è un punto ragionevole.

Dunque quello che dobbiamo gestire è il bodhichitta concettuale, e finché non siamo dei buddha rimarrà concettuale, perché non possiamo concentrarci sulle due verità simultaneamente. È attraverso la categoria dell’illuminazione che possiamo concentrarci esplicitamente sulle qualità della Buddhità, il corpo fisico, o qualcosa come la consapevolezza profonda di un buddha, se facciamo una meditazione mahamudra, e implicitamente sarà presente la nostra comprensione della vacuità. Questo punto, che “la vacuità è implicita” significa che la vacuità non sta realmente apparendo alla mente, ma la comprensione è presente. In questo modo le uniamo.

La cognizione non concettuale di “ciò che ancora non accade” da parte di un buddha

Ora una domanda difficile… tutto questo è difficile, quindi dovrei smettere di usare l’aggettivo “difficile”, ma una domanda molto “complessa”, questo è il modo letteralmente complesso di dirlo – una cosa complessa è, cosa appare a un buddha quando un buddha conosce il futuro in modo non concettuale, quello che non è ancora avvenuto? Va bene in termini di cognizione inferenziale, ma cosa sa un buddha? Perché questo ci aiuta anche un po’ con il punto dell’illuminazione futura.

Ora entriamo nell’abhidharma, dove troviamo una lista di tipologie differenti di… se ci limitiamo alle forme di fenomeni fisici, allora abbiamo gli stimolatori cognitivi (skye-mched, scr. āyatana), e queste sono le cose che stimoleranno una cognizione. C’è una lista di dodici stimolatori cognitivi, e non dobbiamo entrare in tutti i dettagli, ma ci sono forme – forme come ad esempio forme colorate – che possono essere conosciute come una categoria di stimolatori cognitivi, i quali possono essere un oggetto della coscienza visiva e della coscienza mentale, e ci sono quelli che possono essere solo un oggetto della coscienza mentale, come ad esempio le forme colorate che percepiamo nei sogni – non sono conosciute dalla coscienza visiva, ma da quella mentale.

C’è tutta una lista di forme che possono essere conosciute soltanto dalla coscienza mentale, come la forma di un atomo, le distanze astronomiche tra le stelle, e cose che non possiamo davvero vedere, ma che possiamo conoscere mentalmente. In questo tipo di forme di fenomeni fisici che si trova nella categoria degli stimolatori cognitivi delle cose, i dharma – quel genere di cose conosciute solo dalla mente – allora abbiamo gli “oggetti totalmente immaginari”, questa è una traduzione che uso di kun-brtags, ma non so se è la traduzione migliore. Ad esempio, visualizziamo Chenrezig, e cosa appare? Appare Chenrezig, ma si tratta di un oggetto totalmente immaginario che appare tramite la categoria di Chenrezig. E potrebbe basarsi su un dipinto, una statua, ma c’è qualcosa che appare, vero? È un oggetto totalmente immaginario.

Quando un buddha conosce un risultato che non è ancora avvenuto, quello che appare è un oggetto totalmente immaginario. Non è un oggetto esterno – non sta accadendo ora – è un oggetto totalmente immaginario. Ma esiste, e non dobbiamo sminuire e denigrare il termine “totalmente immaginario” – ecco perché “immaginario” non è il termine migliore.

Ma anche chiamarlo un oggetto “totalmente concettuale” non va bene, perché un buddha può conoscerlo non concettualmente, quindi siamo un po’ bloccati qui; per ora teniamo “totalmente immaginario”. Un buddha può conoscere l’illuminazione in modo non concettuale, ma cosa vuol dire? Vuol dire conoscerla senza aver bisogno del filtro della categoria “illuminazione”. È tutto ciò che significa, è ancora totalmente immaginaria, non sta accadendo ora. Questi sono tutti gli aspetti coinvolti nel bodhichitta.

In sintesi

Quando vi concentrate sul bodhichitta, c’è qualcosa che rappresenta lo stato illuminato di un buddha, e cerchiamo di concentrarci su questo con la comprensione di quello che abbiamo ora, di ciò che diventerà una causa per la quarta nobile verità. C’è qualche forma di un buddha, oppure possiamo farlo nello stile mahamudra senza una forma, e pensiamo in termini di forza positiva e consapevolezza profonda – probabilmente l’aspetto della consapevolezza profonda è più appropriato in questo caso.

Quando pensiamo a questa rappresentazione nel caso della consapevolezza profonda, esplicitamente abbiamo una sensazione di sapere qualcosa, e implicitamente abbiamo la nostra comprensione della vacuità in termini di ciò che vogliamo ottenere. Alla base di questo c’è la fiducia di poter ottenere questa comprensione grazie alla causa per ottenerla, ovvero (1) la tendenza per ottenere questa comprensione, (2) l’aspetto di questa tendenza che è il suo “temporaneamente non dare origine a questo”, e (3) l’attributo della tendenza che è la sua “capacità di dare origine all’ottenimento di tale comprensione quando le condizioni sono complete”. Tutto questo è preceduto dal concentrarsi su tutti gli esseri con compassione, che è il desiderio che siano liberi dalla loro sofferenza.

Mi sembra che questa sia una descrizione più completa di quello che accade nella mente quando ci si concentra con un obiettivo di bodhichitta. Questa intenzione di aiutare tutti gli esseri è in sottofondo, e ora ci concentriamo sulla nostra illuminazione che non è ancora avvenuta sulla base delle cause per essa. E la causa è non dare origine temporaneamente all’illuminazione, perché c’è l’assenza di tale illuminazione ora sul continuum mentale, ma “Devo arrivare allo stato in cui ‘avviene nel presente’ per poter aiutare pienamente tutti”.

“Temporaneamente non sta dando origine all’illuminazione” perché le condizioni sono incomplete, e quindi “devo completare le condizioni”. Questo ci porta al bodhichitta impegnato per completare le condizioni. Lo stato dell’aspirazione implica semplicemente focalizzarsi su questo, ma realizzare che “temporaneamente non dà origine a questo”, perché le condizioni sono incomplete, ci porta a pensare che “pertanto devo accumulare le condizioni”. Questo è il bodhichitta impegnato in termini di attività e pratiche di pazienza eccetera che completeranno le condizioni fin quando il risultato non si manifesterà.

La vacuità di causa ed effetto

Vorrei aggiungere un altro punto qui. Quando parliamo della vacuità, che dobbiamo comprendere implicitamente, è cruciale comprendere la vacuità di causa ed effetto. Ora torniamo alla bellissima presentazione del testo di Shantideva Bodhicharyavatara, o in altre presentazioni. Qual è la confutazione presentata in questi testi? In termini di causalità, si confuta il punto che la causa sia totalmente indipendente dal risultato, o che la causa sia identica al risultato, nel senso che è un risultato non manifesto che si trova dentro la causa – aspetta a spuntare fuori quando le condizioni saranno complete.

Non pensate che “l’illuminazione si trovi da qualche parte nella mia testa e semplicemente spunterà fuori quando tutte le condizioni saranno complete”, oppure che “non importa quello che faccio, non potrò ottenerla”, oppure “accadrà grazie a una benedizione”, o qualcosa del genere, come una causa irrilevante o insufficiente. E dobbiamo anche comprendere la vacuità del risultato. Torniamo a Shantideva, dove lo spiega molto bene. Lui confuta il punto che il risultato esista già al tempo della causa. Se già esiste al tempo della causa, “Sono già illuminato, semplicemente non l’ho realizzato”, allora perché dovrebbe sorgere? È già lì, quindi non potrebbe sorgere.

E se il risultato è totalmente inesistente al tempo della causa, come potrebbe qualcosa di totalmente inesistente diventare esistente? Come potrebbe esserci una transizione? Può il nulla diventare qualcosa? Abbiamo bisogno di comprendere tutto questo per avere una comprensione corretta della terza nobile verità. Dobbiamo avere una comprensione della vacuità del continuum mentale, la vacuità del processo di causa ed effetto coinvolto nel raggiungimento dell’illuminazione, in modo tale da non avere idee strane su come poter ottenere un’illuminazione che avviene ora.

E diventa ancora più pazzesco, perché non c’è un “luogo comune” come si dice, tra l’illuminazione non ancora avvenuta e l’illuminazione che sta avvenendo ora. In altre parole, non c’è qualcosa che è entrambe, che semplicemente si muove nel tempo: ora non sta ancora avvenendo, ovvero è fuori dal palco da qualche parte, e ora entra sul palcoscenico e sta accadendo. Non è che l’illuminazione non ancora avvenuta si trasformi nell’illuminazione che sta accadendo ora.

Ciò comincia a diventare molto sottile in termini della nostra comprensione della vacuità. Queste cose sono il cuore della comprensione, ed ecco perché ci sono due aspetti del bodhichitta, quello convenzionale e quello più profondo o ultimo. Abbiamo bisogno della comprensione della vacuità. La vacuità è coinvolta nel bodhichitta, altrimenti sarebbe molto strano, perché staremmo puntando a qualcosa di impossibile, o staremmo cercando di raggiungerlo in un modo impossibile; per questo il bodhichitta ha due aspetti.

Il bodhichitta bianco e rosso

Siccome siamo nell’argomento del bodhichitta, volevo introdurre qualcosa di estraneo a questo, ma che riguarda il termine “bodhichitta”. Avete mai sentito parlare del termine “bodhichitta bianco e rosso”?

Nell’anuttarayoga tantra, queste sono forme di fenomeni fisici del corpo sottile che abbiamo bisogno di manipolare, una cosa incredibilmente difficile da fare. Ma se un praticante ha raggiunto il punto in cui può manipolarle, allora potrà muoverle nel canale centrale, dissolvendole nel chakra del cuore per arrivare alla mente di chiara luce. La mente di chiara luce naturalmente non crea apparenze ingannevoli di esistenze indipendenti, veramente stabilite, e non crede in esse – non vuol dire che comprenda tutto, almeno dal punto di vista Gelugpa.

Ma il bodhichitta bianco e rosso è un esempio di dare il nome del risultato alla causa, e quindi sono cause che, quando vengono manipolate e dissolte, consentiranno al praticante di ottenere la mente illuminata. Per questo motivo vengono chiamati bodhichitta, altrimenti non si capirebbe il motivo di chiamarli così. Se questo punto non vi torna perché non conoscete il tantra, mettetelo da parte.

Questa è la nostra presentazione fondamentale del bodhichitta. Non so se volete fare un po’ di meditazione, come potreste meditare su tutto questo? Forse sarebbe meglio prendersi qualche minuto per digerire ciò di cui abbiamo parlato, e poi passare alle domande per il resto della sessione, se ne avete. Ma quello che ho cercato di sottolineare durante questo seminario è che il bodhichitta è estremamente vasto e profondo. È straordinario sotto molti punti di vista, e c’è tutto un capitolo nel testo di Shantideva che elogia il bodhichitta.

La prima volta del bodhichitta

È diretto a tutti – proviene già dall’equanimità e tramite tutta questa sequenza è rivolto a tutti, in modo imparziale. Agisce anche come una causa per avere la mente illuminata di un buddha, perché la mente illuminata di un buddha è rivolta a tutti. Praticando in un modo rivolto a tutti in modo imparziale, agisce anche da causa per raggiungere l’illuminazione. Il bodhichitta è anche un fattore della natura di buddha, ma all’interno di tali fattori ci sono quelli che non hanno alcun inizio e quelli che hanno un inizio; il bodhichitta è uno di quelli che ha un inizio.

C’è una prima volta in cui sviluppiamo il bodhichitta. Ci sono storie in cui il Buddha raggiunse il bodhichitta per la prima volta, e saremo in grado di sviluppare il bodhichitta per la prima volta; ma questo non si riferisce alle nostre prime meditazioni sul bodhichitta. Stiamo parlando della Cosa Vera, e di averla in modo non elaborato; in altre parole, non dobbiamo seguire tutte queste fasi per arrivare al bodhichitta – ce l’abbiamo automaticamente. Si diventa un bodhisattva quando il bodhicitta non ha più bisogno di essere generato, sorge in automatico.

È a questo punto che entriamo nel sentiero Mahayana dell’accumulazione – stiamo unendo lo shamatha e la vipashyana – è questo ciò che stiamo accumulando con il primo livello della mente. A questo punto diventiamo un bodhisattva, quando il bodhichitta sorge in automatico ed è la Cosa Vera, con tutte queste comprensioni e così via.

Il bodhichitta è rivolto a tutti, e il bodhichitta può essere sviluppato, generato per la prima volta. Questo ci porta a una domanda molto difficile – considerato il tempo senza inizio, com’è che non siamo già tutti illuminati? Almeno avremmo dovuto sviluppare il bodhichitta, no? Come può esserci una prima volta su un continuum che non ha inizio né fine? Non è una domanda semplice. Bisogna avere speranza che sia possibile raggiungerlo per la prima volta, e non deprimerci: “Sono così stupido ed egoista perché non l’ho generato per la prima volta”. Questo richiede molti sforzi, comprensione, e pratica.

Ecco perché la comprensione del futuro e del passato è molto importante. Non è che ogni cosa sia predeterminata. Considerati i parametri che abbiamo riguardo i fattori mentali che sono presenti su un continuum mentale senza alcun inizio, beh, ci sono alcuni fattori della natura di buddha che saranno presenti nella Buddhità e che sono cause della Buddhità, come la compassione eccetera. E poi ci sono altri fattori mentali, le cosiddette “macchie passeggere”: l’ignoranza, l’inconsapevolezza, la rabbia, queste cose. Non hanno alcun inizio, e il continuum mentale ha la capacità di comprendere – questo fa parte della natura di Buddha – di capire le cose.

Dunque come funziona la dinamica tra questi due aspetti? È molto interessante, perché non vogliamo che degeneri in un dualismo manicheo zoroastriano del bene contro il male, con le due forze di ignoranza e saggezza che combattono tra di loro nel nostro continuum mentale. Questo sarebbe alquanto strano dal punto di vista non duale buddhista, vero? Com'è che la comprensione, accumulata fino a un livello critico, si trasforma in potenziale e forza positiva, culminando infine nella prima realizzazione del bodhicitta?

Come avverrà questo, considerata la dinamica tra inconsapevolezza, comportamento distruttivo, e le qualità positive di un buddha? Non è che è fisso – abbiamo una scelta, ma una scelta non nel senso del libero arbitrio. Il “libero arbitrio” significa che posso fare qualunque cosa senza aver accumulato le cause necessarie. Non stiamo parlando di questo. Non posso spiegare le ali, saltare dalla finestra e volare. Se il mio livello di libero arbitrio fosse totale, potrei farlo, ma non stiamo parlando di questo, è un estremo. Possiamo fare solo quello per cui abbiamo accumulato cause. Se l’intenzione e la scelta non esistessero, allora sarebbe difficile capire come chiunque potrebbe sviluppare il bodhichitta per la prima volta, vero?

A meno che non facciamo l’esempio di “Mettiamo venti zilioni di scimmie davanti una macchina da scrivere e una di loro si metterà a scrivere Shakespeare”, allora semplicemente per le leggi della probabilità qualcuno raggiungerà l’illuminazione. Non penso sia una risposta soddisfacente, vero? Deve esserci l’intenzione, che non esiste però isolata dagli altri fattori mentali e l’influenza di altre persone, specialmente i grandi maestri, la quale entra in gioco sulla base di causa ed effetto consentendo la prima generazione del bodhichitta. Ora non sto affermando di aver realmente decifrato tutta la logica, ma deve essere possibile; altrimenti tutto questo non ha molto senso in termini di “Dovremmo tutti essere già illuminati”.

Dunque richiede dello sforzo considerati i parametri di tempo senza inizio e il fatto di avere sia macchie passeggere che fattori della natura di buddha. C’è un livello di intenzione. Quando parliamo in termini di esseri senzienti, ciò che crea un essere senziente non è solo quello di cui ho parlato prima, l’esperienza dei risultati del karma – la felicità e la sofferenza – ma anche ciò che viene prima di questo, non ciò che viene dopo. Ciò che viene dopo è l’esperienza della maturazione del karma; quello che viene prima è che agiamo in base a un’intenzione, al compiere delle scelte. Ad esempio, scegliamo di continuare come un grosso pesce e di mangiare quel pesce piccolo.

Non saprei se dal punto di vista biologico sia corretto, ma nel Buddhismo una pianta non sceglie di crescere nella direzione del sole. Non è una scelta intenzionale, e pertanto non fa esperienza del karma. Non accumula il karma e di conseguenza non sperimenterà la felicità e la sofferenza. Mentre gli esseri che rientrano nella categoria degli esseri senzienti, inclusi i fantasmi eccetera – non dovremmo limitarci agli esseri umani e agli animali, perché sarebbe un po’ troppo razionale, vero? Non razionale, ma limitato a quello di cui siamo consapevoli. Quando parliamo di questi esseri senzienti, stiamo parlando di quelli che fanno scelte basate sull’intenzione, e che pertanto sperimentano i risultati di tali intenzioni in termini di felicità e infelicità: questo è un essere senziente.

Deve essere possibile, sulla base del karma, generare il bodhichitta per la prima volta. Ecco perché è importante realizzare che quando parliamo della forza positiva, la forza positiva che agisca da causa per l’illuminazione, la dedica è fondamentale, altrimenti qualunque forza positiva che abbiamo contribuirà soltanto ad altro samsara, non contribuirà allo sviluppo del bodhichitta, vero? Vogliamo essere in grado di indirizzare la nostra forza positiva verso l’illuminazione.

Come potremmo sapere questo? Attraverso i buddha. Ora questo è un punto interessante, perché un primo buddha non esiste. Ci sono sempre stati buddha. Ma ciascun buddha ha sviluppato, a un certo punto per la prima volta, il bodhichitta. È molto interessante, penso che alcuni matematici dovrebbero lavorare su questo punto per decifrarlo. Ma anche queste sono domande interessanti: “Ma come posso sviluppare il bodhichitta per la prima volta?”. E “Perché non l’ho ancora sviluppato?”.

Non abbandonare il bodhichitta per la prima volta

[aggiunto a febbraio 2017]

Inoltre, considerato il tempo senza inizio, non solo abbiamo sviluppato il bodhichitta infinite volte, ma l’abbiamo anche abbandonato per un numero infinito di volte. Dunque la domanda effettivamente non è, “Com’è possibile sviluppare il bodhichitta per la prima volta?”, ma “Come si fa a non abbandonare il bodhichitta per la prima volta?”. La risposta è “Mantenendo i voti del bodhisattva e proteggendoli anche a costo della nostra vita”. Ricordatevi che i voti del bodhisattva vengono presi per tutte le nostre vite fino al raggiungimento dell’illuminazione. Pertanto, se moriamo con tutti i nostri voti di bodhisattva intatti, allora anche se rinasciamo come un insetto, questi voti sono ancora designati sul nostro continuum mentale e, in qualche vita successiva, quando rinasceremo come esseri umani, potremo riattivare questi voti e continuare sul sentiero per l’illuminazione.

Domande

In un certo senso hai già risposto quando hai parlato di “direzione”, ma stavo esplorando l’idea della dedica, e come questa inneschi un sentiero differente verso l’accumulazione di questa forza positiva?

Uso la semplice analogia di un computer, quando ad esempio salviamo i nostri dati in una cartella o in un’altra. Quando salviamo la forza positiva, l’impostazione di default è che andrà nella cartella “migliorare il samsara”, mentre dobbiamo premere in modo molto consapevole il bottone e salvarla nella cartella “illuminazione” o “liberazione”, altrimenti andrà automaticamente nella cartella “migliorare il samsara”.

E se dedicassimo la forza positiva ad obiettivi minori, come l’avere maestri in vite future e una preziosa rinascita umana? Va bene mettere qualcosa in ciascuna cartella?

Sì, va bene, ma penso sia importante comprendere come queste siano sottocartelle della cartella più ampia dell’illuminazione, e non delle cartelle totalmente separate, se vogliamo giocare un po’ con questa analogia. Queste sono fasi fondamentali che sono necessarie per l’illuminazione, e quindi non dobbiamo fare sì che siano l’obiettivo finale ma, “Che io possa avere una preziosa rinascita umana come un veicolo per poter raggiungere l’illuminazione”.

Ricordatevi – penso di averne parlato prima – che la rinuncia nell’ambito iniziale è molto difficile. Vogliamo avere una preziosa rinascita umana nelle vite successive, essere con i nostri guru, e potrebbe esserci molto attaccamento a tutto questo, incluso che “Voglio essere con i miei amici di Dharma” eccetera.

La natura di Buddha prova che tutti diventeranno un buddha?

No. La natura di Buddha prova che tutti possono diventare un buddha. Ecco perché abbiamo questa cosa interessante “fino alla fine del samsara”. Il sambhogakaya insegnerà fino alla fine del samsara. Così sorge la domanda inevitabile, quando tutti diventano illuminati, poi cosa succede? Ci riposiamo tutti attorno alla piscina come dei buddha, e poi cosa facciamo? C’è anche un’altra domanda, che trovo molto divertente: come fa l’ultimo essere senziente a sviluppare compassione per diventare un buddha se non ci sono altri esseri senzienti sofferenti? Come fa quella persona a sviluppare compassione? E la risposta è che i buddha si manifesteranno come esseri senzienti sofferenti in modo tale che l’ultima persona possa sviluppare il bodhichitta.

Tuttavia, lasciando questo da parte, solo perché tutti possono diventare illuminati non vuol dire che tutti diventeranno illuminati. Bisogna lavorare per questo. Non è che l’universo andrà verso l’illuminazione di tutti. L'illuminazione non è un destino garantito per tutti. Perché dovrebbe essere il caso che tutti diventeranno illuminati? Se è così, allora non dobbiamo fare altro che aspettare che accada, perché infine accadrà, tutti diventeranno illuminati. Pertanto tutti possono diventare illuminati, ma bisogna lavorare per questo obiettivo.

Se il tempo non ha alcun inizio, e nessuna fine, e cercando il più possibile di evitare il contesto delle religioni monoteiste, il Buddhismo dice per caso che eravamo tutti illuminati e poi siamo in un certo senso “caduti” da questo stato?

È una buona domanda. “Nessun inizio” significa che non c’è stato nessun primo momento; quindi, non è che eravamo già tutti illuminati, eravamo già svegli e poi siamo caduti nel sonno. Ricordatevi, stavamo parlando poco fa della vacuità di causa ed effetto. Non è che il risultato della mente illuminata fosse già lì, e ora è diventato oscurato (oppure era sempre stato oscurato), e allora dobbiamo semplicemente sbarazzarcene per tornare allo stato originale, che era lì nel profondo tutto il tempo. Questo è un fraintendimento comune della posizione Nyingma, e non è così.

Ma cosa dice il Buddhismo? In che stato eravamo?

Nessun inizio.

Ma in che stato eravamo?

C’è uno stato in cui siamo sempre stati? No. C’è sempre un “non sta più succedendo” di ciò che è venuto prima, e questo precede sempre ciò che sta accadendo ora. Questo perché le cose non possono emergere da nessuna causa. Se così fosse, se potessi essere sufficientemente presuntuoso da presentare il ragionamento Madhyamaka, allora un nulla potrebbe diventare qualcosa. Ma poi come fa un nulla a diventare qualcosa? Se qualcosa è davvero nulla, come potrebbe cambiare dallo stato di essere nulla? E se non è davvero nulla, allora è qualcosa, e se è qualcosa, perché avrebbe bisogno di diventare un qualcosa di nuovo?

Solo una domanda pratica sulla dedica. Qual è la differenza se… hai detto di fare una breve dedica alla fine di ogni sessione, e i lama sono noti per andare avanti per ore quando fanno le loro dediche – qual è la differenza tra le due dediche?

Penso che la differenza sia lo stile del maestro e il livello di praticità. Non so se necessariamente ci sarebbe una differenza nella devozione. Io seguo la tradizione del mio maestro Serkong Rinpoche in particolare, e lui sottolineava sempre, in modo divertente, che quando arriva il Signore della Morte, non aspetta che tu ti sieda nella postura appropriata, ti dia la possibilità di offrire l’incenso, accendere le candele, e recitare lentamente “Sangye chodang…” (sangs rgyas chos dang...). Quando giunge la morte, dovete farlo istantaneamente.

Mi ricordo quando una volta insegnò tutto il lam-rim, ed eravamo in Italia, seguito da istruzioni sulla meditazione di Chenrezig, e le persone del pubblico chiesero se potevano fare una meditazione alla fine. E Rinpoche disse, “Va bene, ripercorrete tutto il lam-rim e tutta la pratica di Chenrezig”, e “Ok, fatelo in due minuti”. Ed era generoso con due minuti, e le persone erano sconvolte, e lui disse: “Va bene, ok, tre minuti”. E poi spiegò che dovremmo essere in grado di fare tutto il lam-rim, tutte le fasi, nel tempo che ci vuole, usando un esempio tibetano, per mettere un piede in una delle due staffe della sella fino a quando non si mette l’altro piede nell’altra staffa, aggiungendo che il Signore della Morte non aspetta.

Penso che Shantideva abbia qualcosa di simile, non va per le lunghe. Per me la dedica dovrebbe essere istantanea. Non credo che dovremmo dire troppe cose, è solo uno stato della mente. Dovete esprimerlo a parole? No, perché dovreste farlo? Se volete esprimerlo a parole, va bene, ma non penso che farlo istantaneamente sia meno devozionale che farlo per tre ore.

Efficace?

Penso che la variabile dell’efficacia abbia a che fare con la sincerità, non con la durata. La vita è breve, e quindi vogliamo utilizzare il tempo che abbiamo in modo efficace ed efficiente. E questo stile del mio maestro risuona molto bene con la mia personalità. Non faccio nulla lentamente – in realtà questo è un difetto – come dicono in Germania, “schnell, schnell, schnell”, “svelto, svelto, svelto”. Funziona per me, ma potrebbe non andar bene per altre persone.

Quando spiegavi come meditare sul bodhichitta entrando nei particolari della quarta nobile verità, della meditazione sui corpi della forma, le accumulazioni, e hai anche detto che potremmo invece meditare sulla mahamudra, mi stavo chiedendo come si fa a immaginare esseri senzienti senza un corpo di forma? Credo di essermi un po’ bloccato su come poter nutrire questi potenziali.

Ok, una semplice domanda per l’ultimo minuto della nostra sessione, come con la mahamudra… Stavo dicendo che potremmo rappresentare lo stato illuminato che vogliamo ottenere con una visualizzazione del Buddha oppure – penso di averlo detto – concentrandosi sul fatto che il guru è un buddha, oppure possiamo farlo in termini di pratica mahamudra sulla natura della mente. Ovviamente c’è uno stile Gelug, Kagyu, e Sakya della mahamudra, e sono tutti differenti. Ma se parliamo in termini di mente – questo è un centro Gelugpa, quindi concentriamoci su questo – se consideriamo le caratteristiche distintive di una mente, è mera chiarezza e consapevolezza.

Questi termini possono essere fraintesi, perché “chiarezza” si riferisce alla creazione di apparenze, in altre parole, alla manifestazione di un ologramma mentale, e la consapevolezza è una certa cognizione. La creazione di un ologramma mentale e il fatto di conoscerlo non sono due cose separate, non è che prima c’è un ologramma mentale e poi lo conoscete. La creazione di un ologramma mentale è la conoscenza di qualcosa in un modo o nell’altro; non deve essere a fuoco. E “mero” significa semplicemente che è solo questo ciò che sta succedendo, e non c’è un “io” separato che lo sta facendo accadere o lo sta osservando. C’è solo questa attività mentale, la creazione di un ologramma, e questo è il lato dell’apparenza. Dunque avete il corpo, l’apparenza di un buddha, e l’aspetto di conoscenza, ovvero la mente di un buddha. Questi due aspetti – apparenza e conoscenza – vanno insieme.

Oppure possiamo elaborare questo punto secondo la tradizione Kagyu, secondo cui l’aspetto di conoscenza della mente è la mente di un buddha, e “l’aspetto mentale dell’energia che va fuori”, che in generale creerà un’apparenza, è l’aspetto comunicativo della mente. Nello dzogchen questo si chiama l’aspetto “compassionevole” della mente, in cui vai fuori, comunichi agli altri e diventi un sambhogakaya. E il contenuto effettivo dell’apparenza è il nirmanakaya, con un ologramma. Dunque la creazione di un ologramma, rispetto a ciò che è il contenuto dell’ologramma, e quindi otteniamo il sambhogakaya e il nirmanakaya da questo aspetto di creazione dell’apparenza.

Ci sono molti aspetti differenti nella meditazione mahamudra da cui possiamo derivare tutti i corpi di un buddha dalla natura della mente. E parlano molto, specialmente nella tradizione Kagyu, dell’inseparabilità di apparenza e consapevolezza profonda, apparenza e vacuità, e consapevolezza profonda e vacuità, eccetera. È un argomento molto vasto e non posso presentarlo brevemente, ma questi sono alcuni aspetti. La meditazione mahamudra è anche molto connessa al bodhichitta.

Possiamo abbandonare il bodhichitta? Hai detto che c’è una prima volta

Certamente, possiamo abbandonare il bodhichitta, e questo è una cosa molto spiacevole, perché allontanandoci dall’illuminazione, a cosa ci avviciniamo? Al Lato Oscuro. Scusate, non potevo resistere. Vi state allontanando dall’illuminazione, e a cosa vi state avvicinando? Vi avvicinate al samsara, tornate alla sofferenza. Dunque c’è una prima volta e ovviamente c’è una seconda volta che potrebbe essere più difficile da ottenere.

Invece si può abbandonare lo stato di un buddha? Recentemente ho sentito alcuni maestri dire che è possibile, quindi immagino che…

No, non si può abbandonare lo stato di un buddha. La buddhità è per sempre. Altrimenti non è un vero arresto; questa è una comprensione errata delle quattro nobili verità. Queste sono cose vere: gli arya – coloro che hanno una cognizione non concettuale di tutto questo – vedono che questo è vero, e gli altri invece non riescono a vederlo e quindi hanno quattro incomprensioni riguardo ciascuna delle quattro nobili verità.

Uno dei fraintendimenti riguardo un vero arresto è che è temporaneo: possiamo eliminare i problemi per un po’, non possiamo sbarazzarcene per sempre perché ritorneranno. Questo degenera in “Che sfortuna, fai del tuo meglio”, che non è la soluzione buddhista al samsara ma che per molte terapie è la soluzione – “Impara a conviverci’. Non vogliamo semplicemente imparare a “conviverci”, questo sarebbe un approccio Dharma light, ma finché non ne usciamo, dobbiamo imparare a conviverci, quindi non è inutile.

Va bene. Ultima cosa? Concludiamo con una dedica – una versione breve. Qualunque comprensione e forza positiva, le due reti, siano state accumulate da questo, che possano andare sempre più in profondità e agire da causa affinché tutti possano raggiungere l’illuminazione per il beneficio di tutti.

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