Integrare la nostra vita: la base per etichettare l’“io”

Introduzione

Questo fine settimana discuteremo e metteremo in pratica metodi per integrare la nostra vita. In realtà non li troviamo negli insegnamenti buddhisti o altrove: sono un’estensione di un programma di allenamento che ho sviluppato chiamato Developing Balanced Sensitivity, che è pubblicato in un libro che potete trovare sul mio sito web. È una serie di venti esercizi basati sugli insegnamenti buddhisti. Ho estratto un’ampia varietà di metodi e insegnamenti di meditazione buddhisti e li ho messi insieme in una forma leggermente diversa, per aiutarci a superare i problemi dell’essere insensibili o ipersensibili. Spesso, rispetto alle situazioni nostre e altrui, siamo insensibili o ipersensibili, così anche per quanto riguarda gli effetti del nostro comportamento sia sugli altri che su noi stessi. Quindi, ho voluto introdurre un approccio buddhista per affrontare questi problemi.

La vera causa dei nostri problemi nella vita è l’inconsapevolezza, in particolare quella di causa ed effetto comportamentale e quella della realtà delle situazioni con noi stessi e gli altri. Sebbene il programma di allenamento e i suoi venti esercizi siano basati su un insieme di metodi buddhisti, non vengono presentati in un contesto o con una terminologia buddhista. Non richiede alcuna formazione buddhista. Il programma di allenamento, se svolto in modo completo con una sessione a settimana, richiede tre anni per essere completato.

Avendolo insegnato alcune volte nella sua forma completa e in forme abbreviate qua e là, mi ha colpito il fatto che si potessero aggiungere aspetti diversi. Ciò che mi ha motivato a creare questo programma è stato il fatto che ci sono molte persone che praticano il Buddhismo per molto tempo, ma poi raggiungono un certo livello nella loro pratica e non vanno oltre. Il problema era che non avevano un’idea chiara di come applicare gli insegnamenti alle loro vite e al tipo di problemi emotivi e psicologici che avevano. Questo era qualcosa che ho osservato essere piuttosto diffuso. Analizzando la situazione, ho capito che il quadro concettuale all’interno del quale concettualizziamo il tipo di problemi psicologici che abbiamo è completamente diverso da quello degli insegnamenti buddhisti.

Pensiamo e viviamo i problemi in base a come li concettualizziamo. Diciamo “Sono insicuro” o “Sono insensibile o ipersensibile” e poi viviamo l’alienazione. “Non sono a contatto con i miei sentimenti, con il mio corpo e con me stesso”. “I miei sentimenti sono bloccati”, per esempio, e cose del genere. Il problema è che niente di tutto questo può essere facilmente tradotto in tibetano. La difficoltà qui è come creare un ponte tra il quadro concettuale del buddhismo tibetano e il modo in cui concettualizziamo e di conseguenza viviamo i nostri problemi.

Naturalmente, potremmo pensare che i metodi buddhisti non siano realmente efficaci per questi problemi caratteristici in Occidente. Ma, se prendiamo davvero rifugio nel Buddha, nel Dharma e nel Sangha, significa che siamo fiduciosi che i metodi e gli insegnamenti del Buddha elimineranno tutti i problemi, compresi quelli sperimentati da noi occidentali. Con questa convinzione che il Dharma è abbastanza ampio da comprendere anche questi problemi, l’unica sfida è stata quella di decostruire il tipo di sindromi che sperimentiamo così che, se ne vediamo le varie componenti, potremmo vedere come applicare i vari metodi del Dharma. 

Quindi ho sviluppato questo programma che affronta i problemi della sensibilità e sembra essere piuttosto efficace da parte delle persone che lo hanno sperimentato. Ma ho visto che si potrebbe aggiungere di più e un aspetto che non è stato trattato completamente nel programma è la sensazione di non essere “un tutto”. In altre parole, le nostre vite non sono realmente integrate, le viviamo come molto frammentate e, naturalmente, questo può portare a molte difficoltà. Non possiamo realmente integrare la nostra vita professionale con quella familiare, e nessuna di queste con la nostra vita sportiva, gli hobby, le vacanze e così via. Voglio dire, tutto è molto frammentato, non si integra in un tutto. Possiamo rivolgerci a un quadro teorico buddhista per trovare un metodo che penso possa aiutare in questo.

L’io convenzionale

Il punto principale è la spiegazione buddhista dell’“io”, del “me” o sé convenzionale che, per usare un linguaggio tecnico, è un fenomeno di imputazione sulla base di un continuum individuale di fattori aggregati. Un fenomeno di imputazione non può esistere o essere riconosciuto separatamente da una base. Letteralmente, è qualcosa di inseparabilmente “legato” a una base. Ora, quando parliamo dei cinque aggregati, l’idea generale è che ogni momento della nostra esperienza è composto da molte parti e ciascuna cambia, istante dopo istante. Ogni momento è diverso; ogni momento non è lo stesso del momento precedente, ma non è nemmeno totalmente diverso e non correlato. Quindi, c’è un continuum e un momento segue da quello precedente. Diremmo che ogni momento sorge in modo dipendente da quello precedente.

È come i fotogrammi in un film, ma non prendiamo questa analogia troppo alla lettera perché, ovviamente, ogni piccolo fotogramma può essere ritagliato ed essere a sé stante. Quindi, non stiamo parlando del fotogramma, ma del film vero e proprio che viene riprodotto. Ovviamente, anche quello può essere modificato, quindi questa analogia non va presa troppo alla lettera. Possiamo decostruire in molte parti un momento della nostra esperienza, anche se questa potrebbe sembrare una sorta di entità solida. C’è il corpo che si muove continuamente e cambierà man mano che invecchiamo; abbiamo le coscienze - visiva, uditiva, olfattiva, gustativa, tattile o mentale. Di solito tutte queste operano contemporaneamente; è solo una questione di quanta attenzione prestiamo a ciascuna. Quando siamo con qualcuno vediamo quella persona e allo stesso tempo sentiamo cosa dice, ma possiamo anche sentire simultaneamente la temperatura della stanza, se è calda o fredda; o sentire la sensazione dei vestiti sul nostro corpo. Se prestiamo attenzione, c’è il sapore nella bocca della lingua e della saliva, e l’aria ha un certo odore. Potremmo pensare a qualcos’altro, tutto allo stesso tempo. Ognuno di questi tipi di coscienza ha un oggetto percepito, e possiamo parlare di un oggetto esterno o dell’oggetto percepito, ciò che chiamiamo apparenza, che è come un ologramma mentale che sorge nella nostra percezione.

Ci sono diverse interpretazioni da parte di diversi filosofi e scuole buddhiste sui dettagli di questi, quindi sto parlando in generale. Abbiamo anche varie emozioni, sia positive che negative, che accompagnano ogni momento. Proviamo sempre qualcosa nello spettro da felice a infelice in ogni istante. La parola “sensazione” nel Buddhismo si riferisce precisamente a questo spettro di felice o infelice. Abbiamo anche vari fattori mentali che ci aiutano a connetterci a un oggetto. Ad esempio, i nostri diversi livelli di concentrazione, diversi livelli di interesse e così via. Poi, ci sono tutti i vari fattori coinvolti nella parola generale “comprensione”. Come comprendiamo i suoni che sentiamo in termini di una lingua, ad esempio? È un processo molto complesso, ovviamente. 

Quindi, in breve, abbiamo un continuum di momenti di esperienza, e ciascuno è composto da tutti queste diverse componenti, e ognuna di esse cambia a una velocità diversa. Quando ci chiediamo dove sia il “me” in termini di questo complesso di cose che cambia continuamente, beh, il Buddhismo ha molto da dire a riguardo.

Come identifichiamo “me” 

In realtà, il Buddhismo afferma che l’inconsapevolezza di questo “io” - come esisto e cosa sono, o chi sono - è una delle cause fondamentali dei nostri problemi. Non sappiamo come esistiamo, o chi siamo come in “Devo trovare me stesso” - che, se tradotto letteralmente in tibetano, suonerebbe come un processo di analisi meditativa. Mentre quando le persone vanno in India per “trovare se stesse” è qualcosa di completamente diverso, non è vero? La maggior parte di noi non sa come esiste o ne ha una comprensione completamente errata.

Tendiamo a cadere in uno dei due estremi. Il primo è che tendiamo a identificare il “me” con qualche aspetto della nostra esperienza, come il nostro ruolo di essere madre o padre. Potrebbe essere la nazionalità o il genere “Sono una donna”, “Sono un uomo”; o “Ha un brutto carattere, una malattia”. Oppure identifichiamo il “me” in base alla religione che seguiamo. Tendiamo a identificarci con una, o al massimo, un paio di cose, ma ci identifichiamo quasi sempre con qualcosa. 

Lo facciamo in ogni momento, che sia l’identità dominante di chi siamo, o in altre situazioni, con un aspetto particolare. Questo può dare un tipo di sensazione molto alienante delle nostre vite “Negli affari sono una cosa; a casa sono un’altra cosa; al club sportivo sono ancora un’altra persona, ecc.”; ci identifichiamo in modi diversi in diversi aspetti della nostra vita. 

Questo estremo di identificazione con uno o più aspetti della nostra vita o esperienza può portare a molti problemi perché non siamo affatto flessibili: potremmo diventare molto difensivi o sentirci in colpa per la nostra identità, potremmo anche essere molto orgogliosi o arroganti se ci identifichiamo con il nostro bell’aspetto, intelligenza o meravigliosi successi. Quindi, questo è il primo estremo.

L’altro è quando immaginiamo che questo “io” esista in modo totalmente separato da tutti i vari aspetti dell’esistenza. Questa convinzione crea una sensazione di alienazione “Sono alienato dai miei sentimenti, dal mio corpo e da me stesso”, come se ci fosse un “io” separato da tutto questo che si sente alienato.

Questo è un principio che non posso sottolineare abbastanza, poiché è essenziale per lo studio del Buddhismo. Quando apprendiamo tutte queste posizioni filosofiche, ciò che viene confutato e tutto il resto, non consideriamole solo informazioni interessanti ma pensiamo “Come sarebbe se pensassi in questo modo e quali problemi mi porterebbe?”. Allora si capisce il motivo per cui Buddha ha affermato gli errori di queste opinioni. Altrimenti, diventa solo un esercizio intellettuale. Come ha sottolineato il mio insegnante, Serkong Rinpoce, è estremamente arrogante pensare che solo le persone stupide possano pensare secondo questo sistema filosofico che viene confutato nei testi buddhisti.

Le emozioni disturbanti basate sulla dottrina

C’è un punto che emerge negli insegnamenti di cui vorrei parlare perché di solito non viene discusso. Ci sono due tipi di emozioni disturbanti: quelle basate sulla dottrina e quelle che sorgono automaticamente. Le prime sono quelle che sorgono in base all’aver appreso un sistema dottrinale indiano non buddhista; avendolo appreso e accettato, la conseguenza principale è che pensiamo a noi stessi secondo quel sistema e sviluppiamo emozioni disturbanti basate su quello. Inoltre, vi ci affezioniamo “Questo è il mio sistema”, arrabbiandoci con chiunque non sia d’accordo “Hai una visione sbagliata!” e poi “Siete eretici”, o altro. Diventiamo arroganti “Sono così meraviglioso perché sostengo questo sistema”. Non vogliamo considerare nient’altro, diventiamo gelosi dei membri di un altro gruppo di credenze che guadagnano più soldi o cose del genere; sentiamo di dover competere con loro per ottenere membri. Esiste quindi un insieme di emozioni disturbanti che nascono quando si apprende e si accetta un certo sistema identificandosi con esso.

Quando comprendiamo per la prima volta la vacuità in modo non concettuale e ci convinciamo che gli insegnamenti sulla realtà offerti da altri sistemi sono errati allora, ovviamente, non accettiamo più quel sistema dottrinale. Per questo motivo ci liberiamo dell’attaccamento ad esso, non ci mettiamo più sulla difensiva e non ci arrabbiamo più se qualcuno non lo condivide e così via. È così che ci liberiamo per la prima volta di queste emozioni disturbanti basate sulla dottrina. Quando sviluppiamo una mente del sentiero della visione - di solito chiamata sentiero della visione – “vediamo” e comprendiamo le quattro nobili verità in modo non concettuale, liberiamo per sempre la mente dalle emozioni disturbanti basate sulla dottrina.

Quindi la domanda sorge spontanea “Non ho mai studiato nessuno di questi sistemi indiani non buddhisti quindi, di cosa mi libero quando ottengo una mente del sentiero della visione?”. Questa è una domanda molto importante in particolare per la maggior parte di noi occidentali che certamente non ha mai studiato questi sistemi indiani. La versione Dharma light sarebbe “Beh, quando dicono basato sulla dottrina, potrebbe essere qualsiasi sistema di propaganda”. Quindi, potrebbe essere basato sull’apprendimento, sugli insegnamenti o sulla propaganda (propaganda è una parola pesante) di qualsiasi sistema non buddhista, che si tratti di una religione occidentale, di una filosofia comunista o altro. La versione del Dharma reale è “Stiamo parlando solo specificamente dei sistemi indiani non buddhisti”.

Dal punto di vista Ghelug-Prasanghika, “basato sulla dottrina” include anche tutti i sistemi di principi buddhisti inferiori. Il desiderio che sorge in base alla pubblicità in televisione è qualcosa di apparentemente basato sulla dottrina, ma non è il vero “basato sulla dottrina”. Quindi, Tsongkhapa affronta questa domanda, perché sicuramente nemmeno la maggior parte dei tibetani ha studiato questi sistemi indiani e non ne ha mai sentito parlare. Tsongkhapa risponde che tutti hanno emozioni disturbanti basate sulla dottrina, indipendentemente dal fatto che abbiano studiato quel sistema in questa vita. Perché, proprio come gli insegnamenti del Buddha e tutti i nostri continua mentali non hanno inizio, allo stesso modo tutti questi sistemi indiani non hanno inizio. Con questa logica, tutti hanno studiato questi sistemi in un momento o in un altro in passato e hanno le impronte o le tendenze basate su di essi dalle vite precedenti, anche se non l’hanno fatto in questa vita. Ecco di cosa ci liberiamo con una mente del sentiero della visione. È una risposta molto interessante.

La confutazione dei sistemi basati sulla dottrina

Ora che leggi questo potresti capire “Beh, che significa questo per me? Se c’è una tendenza lì che è così inconscia e me ne sbarazzo, che differenza fa? Non so nemmeno di averla”. Queste tendenze non si stanno certamente manifestando in questa vita, non penso che molti di noi vadano in giro dicendo “La filosofia Samkhya è la migliore e chiunque la pensi diversamente si sbaglia”, perché la maggior parte di noi non ha mai sentito parlare di Samkhya! Quanto meno è qualcosa con cui potremmo identificarci, come se fosse una squadra di calcio.

Deve riferirsi a un modo di pensare plasmato da questa scuola per cui abbiamo certe tendenze in questa vita che possono creare dei problemi. Quando insegno come il Buddhismo confuta questi vari sistemi indiani, impieghiamo molto tempo a cercare di identificare in noi stessi le tendenze che abbiamo a pensare in quel modo. In altre parole, cosa significa realmente nella vita reale pensare e sentirsi in quel modo? Quale emozione o problema emotivo suscita, da aver spinto il Buddha a voler identificare il credervi come fonte di sofferenza? Se prendiamo davvero rifugio, allora l’imperativo è analizzare in quel modo. Altrimenti, perché Buddha lo ha evidenziato?

Cosa significa la confutazione che abbiamo del “sé”, come definito da uno dei sistemi di principi indiani non buddhisti, come uno con gli aggregati o diverso dagli aggregati? Se ci identifichiamo con qualcosa nelle nostre vite immaginando di esistere nel modo in cui uno di questi sistemi afferma, allora diventiamo molto inflessibili. Oppure, se ci identifichiamo con diversi aspetti delle nostre vite, non possiamo integrarle affatto. D’altra parte, se immaginiamo che “io” sia totalmente diverso da tutto nella nostra vita, allora sperimentiamo alienazione. Questi sono i problemi.

Identificare la fonte dei nostri problemi emotivi

Il problema non è semplicemente che le nostre convinzioni concettuali sono illogiche e Buddha disse “Tutti devono essere logici”, e quindi la fonte dei nostri problemi è che siamo illogici. Buddha si è concentrato sui problemi emotivi che nascono dai nostri modi di pensare errati. A meno che non siamo in grado di collegare il modo illogico di pensare ai tipi di problemi emotivi che genera, non potremo mettere in relazione gli insegnamenti con noi stessi, con le nostre vite, né di vedere come usarli per aiutarci a superare i nostri problemi psicologici ed emotivi.

Quando ci avviciniamo agli insegnamenti buddhisti, che hanno lo scopo di aiutarci a superare i nostri problemi, il primo passo è identificare quali problemi emotivi stiamo affrontando, e poi cercare di vedere quali idee sbagliate si nascondono dietro di essi. Sono queste idee sbagliate che devono poi essere confutate. 

In questa fase dello sviluppo del Buddhismo occidentale, cerchiamo di identificare i problemi emotivi che derivano dai nostri concetti errati basati sulla dottrina. Riuscire a capirli, anche se non comprendiamo la base dottrinale, è un buon punto di partenza, poiché Buddha ha insegnato metodi per superare i concetti errati. Quindi, ci fornisce un metodo per essere in grado di affrontare il modo in cui viviamo i nostri problemi. Pertanto, gli insegnamenti del Dharma sono detti essere come una “mucca che esaudisce i desideri” perché possiamo mungere da loro una quantità enorme di latte nutriente. Il punto è che, quando li ascoltiamo e leggiamo, dobbiamo mungere da loro il più possibile e noi in Occidente non abbiamo munto abbastanza.

Identificare il “sé”

Torniamo al nostro argomento, che il “sé” non è uno con ciascuno dei nostri diversi aspetti, né è diverso da essi. Il Buddhismo dice che il “sé” o il “me” è un fenomeno di imputazione esistente e validamente conoscibile sulla base del continuum di questi aggregati in continua evoluzione. Gli aggregati cambiano ogni momento, tutti a velocità diverse. Questa è la base del fenomeno di imputazione “me”. Ma come si stabilisce che esiste una cosa validamente conoscibile come un “me”? L’unico modo in cui puoi stabilire che esiste è in termini di etichettatura mentale. C’è la parola convenzionale, l’etichetta mentale e il concetto “me”. Cos’è il vero “me”? L’unica cosa che possiamo dire che sia con certezza è che è ciò a cui si riferisce la parola o l’etichetta “me”, in termini di questa base, gli aggregati. Il concetto e la parola “me” si riferiscono a “me”. Non è che “me” è creato dall’etichetta mentale, e se non pensassi o non dicessi “me” non esisterei; è assurdo. Ma “me” è semplicemente ciò a cui la parola o il concetto “me” si riferisce sulla base di tutti i momenti mutevoli che compongono ogni momento dell’esperienza. Non c’è alcunché sul lato di questa base che sta lì e dice “Chiama ‘me’ ‘me’”. Non c’è nulla del genere; non c’è nulla nella base che sostiene o supporta la nostra attenzione quando ci concentriamo su “me”.

L’esempio che uso spesso è quello di un film. Va in onda Via col vento e abbiamo una scena dopo l’altra. In ogni momento cambia. Giusto? Questo è il continuum e la base per etichettare il film. Giusto? Tutti i personaggi cambiano e fanno cose diverse a ritmi diversi. Ed è una bella storia, c’è continuità. Come stabiliamo che esiste una cosa come il film Via col vento? Via col vento è solo un titolo, un nome. Ma il film Via col vento non è solo il suo titolo, quindi cos’è Via col vento, cos’è il film? È ciò a cui il titolo si riferisce sulla base di questo continuum di ogni momento, di ogni scena. Non è solo una scena o un personaggio in un momento di una scena, né è qualcosa di completamente diverso dal continuum di tutte queste scene. Inoltre, l’intero film non si svolge tutto in un momento. Non c’è alcunché in ogni momento della scena che abbia una piccola etichetta lì, o un piccolo timbro: Via col vento, Via col vento, Via col vento così da permetterci di identificare che è Via col vento. Quindi, cos’è Via col vento? È ciò a cui si riferisce il titolo sulla base di questo continuum.

La stessa cosa è vera in termini di “me”. Chi sono io? Cos’è il “me”? Cosa lo stabilisce? È semplicemente ciò a cui la parola “me” si riferisce sulla base di questo intero continuum. Il problema è che lo identifichiamo con qualche aspetto del continuum, con alcuni aspetti della nostra esperienza, o non lo identifichiamo con nessuno di essi. Il “me” è un fenomeno di imputazione sulla base dell’intero continuum di aggregati. Questo è un fatto. Il problema riguarda quanta di quella base etichettiamo mentalmente con il concetto e la parola e poi identifichiamo con il vero “me” o non “me”. 

Quindi, dobbiamo davvero esaminare quanta base etichettiamo concettualmente il “me”. Spesso tendiamo a etichettarlo concettualmente solo su alcuni aspetti ma non su tutti, e così tralasciamo certe parti della nostra vita “Quello non ero io; non ero me stesso”. Neghiamo alcuni aspetti di noi stessi, tralasciamo parte della base per l’etichettatura. Qui, abbiamo una combinazione di entrambi, identificandoci con certi aspetti della nostra esperienza e come totalmente diversi da altri aspetti.

“Io” è un fenomeno di imputazione su tutti gli aspetti della nostra vita

Questo sistema di esercizi che affronta questo particolare problema - ci sono diversi esercizi che affrontano questo in Sviluppare una sensibilità equilibrata - ha a che fare con il diventare consapevoli della base completa per l’imputazione di “me”. Con questa consapevolezza espansa, impariamo quindi a etichettare concettualmente “me” su quella base intera, non solo identificandoci con alcuni aspetti e ignorandone altri. Quindi non ci identifichiamo, ad esempio, solo con il momento presente ma vediamo che, come persona, “me” è un fenomeno di imputazione sull’intero continuum della nostra vita ed è ciò a cui l’etichetta “me” si riferisce su quella base intera, non solo su una piccola parte di essa. 

È come quando vediamo una persona anziana in una casa di cura, decrepita e affetta da demenza: dobbiamo ricordare che non è solo quell’aspetto che vediamo davanti ai nostri occhi. Quell’aspetto è ingannevole. Quella persona ha avuto una vita, un’infanzia, un’età adulta, probabilmente una famiglia, una carriera e così via. La persona è ciò a cui si riferisce l’etichetta del suo nome sulla base di quell’intero continuum, non solo su ciò che vediamo ora. Il problema è avere una base troppo piccola per l’etichettatura, il che ci fa sentire a disagio quando siamo con questa persona anziana, non nutrendo davvero rispetto per lei.

Possiamo applicare questa analisi anche a noi stessi, poiché è valida sia per gli altri ma anche per noi. Non siamo solo ciò che vediamo allo specchio, questa non è la totalità della base per l’etichetta “io”. Non siamo nemmeno solo quel piccolo aspetto di “io”, quel momento unico che identifichiamo nella nostra immaginazione, come quando abbiamo detto qualcosa di veramente imbarazzante e pensiamo che tutti lo ricordino ancora. Ovviamente, ciò causa molti problemi.

Allo stesso modo, dobbiamo ampliare la base dell’etichettatura di “me” sulle parti: il corpo, gli atomi e così via. Quella persona anziana non è solo lo strato esterno rugoso, ma è tutte queste altre cose. La stessa cosa con “me”. Possiamo espanderci in termini di tutte le diverse cause per cui agiamo nel modo in cui agiamo o perché qualcun altro si comporta nel modo in cui si comporta. Non è solo “Ti stai comportando in modo terribile” ma piuttosto “Forse non si sente bene, prima ha litigato con un suo amico, ha perso l’autobus ed è rimasto bloccato nel traffico” e così via. Tutto ciò è la base per l’etichettatura e per comprendere la situazione con l’altra persona o con me, perché mi sento come mi sento. Non sto dicendo che il traffico sia la base per etichettare “me”, ma parte della base è l’effetto del traffico sul mio umore. Dobbiamo comprendere i fattori causali che influenzano ciò che stiamo vivendo ora.

Quindi, per decostruire ulteriormente ed espandere la nostra comprensione della base dell’etichettatura, dobbiamo prendere in considerazione l’effetto su quella persona, o l’effetto su me stesso, di tutte le persone che ho conosciuto nella mia vita: il modo in cui i miei genitori mi hanno cresciuto, i miei insegnanti, gli amici, tutte queste cose. E questo risale alle generazioni precedenti, a come i miei nonni hanno cresciuto i miei genitori e li hanno influenzati nel modo che ora influenza me. Se poi abbiamo una comprensione delle vite precedenti, allora come le esperienze precedenti hanno influenzato le varie tendenze e interessi che ho avuto fin dalla prima infanzia che non riesco a spiegare con la famiglia o l’ambiente.

Nella nostra analisi combiniamo diversi aspetti degli insegnamenti buddhisti. Uno è una comprensione molto ampia dell’origine interdipendente: che ogni momento della nostra esperienza sorge in modo dipendente da un numero infinito di fattori, tutto ciò di cui abbiamo parlato negli ultimi minuti, e l’analisi dell’etichettatura mentale. L’altro aspetto è che il “me” è un fenomeno di imputazione su ogni momento di esperienza, e ogni momento nel continuum della mia intera vita è sorto in modo dipendente sulla base di milioni e milioni di altri fattori. Quindi, stiamo espandendo la nostra intera comprensione in un processo di decostruzione della solidità di qualsiasi cosa con cui identifichiamo noi stessi o chiunque altro.

Conclusione

Vogliamo superare i problemi di insensibilità verso certi aspetti della nostra vita ed esperienza, e di ipersensibilità verso altri. Questo è il quadro da cui nasce l’integrazione della propria vita, questo nuovo esercizio che ho sviluppato. È un ulteriore passo basato su questo tipo di processo di sensibilità equilibrata. Se ogni momento della nostra esperienza, in ogni aspetto della nostra personalità ed esperienza, è stato influenzato da così tanti fattori diversi, come faccio a integrare tutto questo, in modo da avere un senso di un “io” che è un fenomeno di imputazione su tutto in modo equilibrato? Non tralasciare nulla, non aggiungere nulla, non sentirmi alienato o altro. Questo è il passo successivo in quel processo.

Nella prossima sessione lavoreremo con questo processo e dedicheremo del tempo all’esercizio effettivo. Non c’è molto altro da spiegare a riguardo. Ho la sensazione che questo esercizio funzionerà anche se non avete fatto l’addestramento alla sensibilità, che può funzionare da solo. Ma per rassicurarvi perché non pensiate che questa sia una follia che ho inventato io, ho voluto contestualizzarlo nel quadro buddhista da cui è nato. Nello spiegare il metodo effettivo spiegherò anche l’insegnamento buddhista da cui deriva ogni passaggio.

Lavoreremo e praticheremo con il Dharma light, non quello effettivo che parla di migliorare le vite future, superare la rinascita e aiutare tutti a farlo. Non parleremo di questo ma del Dharma Light, ovvero di come possiamo adottare gli insegnamenti per trarre beneficio in questa vita. 

Il Dharma light può essere praticato in due modi: pensare solo a questa vita e basta, o praticarlo come metodo buddhista, come un passo preliminare sulla strada per gli altri passi che ho appena menzionato, per migliorare le vite future, beneficiare tutti gli esseri e così via. Seguire il Dharma light va benissimo, finché abbiamo chiarezza su ciò che stiamo facendo.

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