La distinzione tra la visione Svatantrika e la visione Prasangika

La scorrettezza di dare iniziazioni a coloro che non hanno comprensione della vacuità

È sbagliato che i lama diano iniziazioni a coloro che non conoscono nemmeno il bodhichitta e la vacuità. Forse li stanno solo dando per la fama. I maestri di Nalanda non davano iniziazioni pubblicamente, ma ora l'usanza di farlo è ben nota. Questo degenera gli insegnamenti. Anch'io ne sono colpevole! Per il Kalachakra, mi concentro, tuttavia, sulla spiegazione e poi leggo velocemente il testo rituale. Alcuni lama non conoscono nemmeno il rituale o il testo e si precipitano, inventando scuse che sono troppo timidi per farlo completamente o lentamente.

Una volta un lama rituale stava eseguendo un rito nella casa di uno sponsor. Lo sponsor aveva cucinato alcuni intestini e, quando lo sponsor si distrasse, il lama si intrufolò in cucina e versò alcuni intestini caldi nel suo cappello rituale. Quando il patrono entrò nella sala del santuario dove il lama stava per eseguire il rituale, il lama si mise il cappello con gli intestini caldi al suo interno. Poi lesse il rituale molto velocemente, spiegando che la sua testa era davvero calda indossando il cappello e che anche lui era troppo timido per fare il rituale lentamente.

In ogni caso, le iniziazioni tantriche dovrebbero essere date solo a quei discepoli che hanno già familiarità con il bodhichitta e la vacuità, e poi dovrebbero essere date correttamente.

L’apparenza e la percezione di un’esistenza autostabilita

Se qualcosa è buona o cattiva, benefica o dannosa, dipende dal nostro atteggiamento. Ma quando andiamo oltre il modo in cui consideriamo qualcosa, sviluppiamo attaccamento a ciò che consideriamo "buono" e avversione verso ciò che consideriamo "cattivo." Abbiamo bisogno di indagare come tali elementi sembrano essere auto-stabiliti, veramente esistenti come "buono" o "cattivo." Ad un certo livello, possiamo solo osservare i due elementi; ad un altro livello, possiamo analizzare se esistono veramente come "buoni" o "cattivi", stabiliti come tali dai loro stessi lati. Ma poi, dopo questo, possiamo semplicemente vederli come positivi e negativi, utili e dannosi, senza afferrarsi ad essi come veramente esistenti dal loro lato, in maniera indipendente.

Vedere un elemento positivo come qualcosa che vogliamo ottenere, oppure uno negativo come qualcosa che vogliamo scartare, non vuol dire afferrarsi a un'esistenza veramente stabilita, poiché abbiamo bisogno di questo discernimento per sapere cosa adottare o abbandonare. Così, possiamo percepire qualcosa e considerarla realmente esistente; possiamo percepirla considerandola priva di un'esistenza veramente stabilita; ma allora possiamo anche solo conoscerla senza considerarla in nessuno di questi due modi. Quindi, possiamo fare le nostre pratiche senza qualificarle come aventi un’esistenza autostabilita [intrinseca].

A che punto, tuttavia, la mente comincia a percepire gli oggetti conoscendoli come se avessero una vera esistenza dal loro lato? In effetti è difficile individuare l’esatto momento sulla base delle nostre esperienze, poiché ci sono molti modi per caratterizzare l’oggetto da confutare – grossolani e sottili. Semplicemente vedere una persona come un fenomeno d’imputazione sulla base degli aggregati non è un oggetto di confutazione. È un fatto. Tuttavia, secondo il Prasangika, se percepiamo una persona come se avesse un'esistenza auto-stabilita, allora ci stiamo afferrando ad un’esistenza veramente stabilita [intrinseca]. Quando abbiamo esperienza, possiamo distinguere se ci stiamo afferrando [a qualcosa] o no.

Quando meditiamo sulla vacuità, ci concentriamo principalmente sul provare l’assenza di un’esistenza autostabilita sulla base dei fenomeni influenzati, come ad esempio quei fenomeni non statici che consideriamo “buoni” o “cattivi”. I sistemi di principi buddhisti inferiori affermano che le cose non sono stabilite come esistenti o no, oppure come “buone” o “cattive”, semplicemente grazie al potere del nostro pensiero che le considera così. Dal loro lato, devono essere obiettivamente stabilite come esistenti in questi modi. Sono obiettivamente stabilite così sulla base di causa ed effetto. Pertanto, essi affermano l’esistenza autostabilita di causa ed effetto e degli oggetti obiettivi, “auto-stabiliti” dal lato degli oggetti. Questa è la ragione utilizzata da questi sistemi di principi per stabilire che le cose possiedono un’esistenza autostabilita.

Il Madhyamaka non dice che le cose non hanno nessuna causa, o effetto, o una natura personale. Ma se le cose fossero stabilite come esistenti dal loro lato, ad esempio grazie al potere di una natura auto-stabilente – e non meramente grazie al potere dell’etichettatura mentale con concetti e la designazione con parole – allora dovrebbero essere trovate attraverso l’analisi. Ma, come disse Nagarjuna nella Ghirlanda Preziosa:

(II.10) Proprio come un elefante illusorio, che non proviene da nessuna parte e non va da nessuna parte, non rimane nello stato perfetto (della vacuità) quando si dissolve semplicemente come una confusione della mente, 
(II.11) In maniera simile, il mondo dell’illusione, che non proviene da nessuna parte e non va da nessuna parte, non rimane nello stato perfetto (della vacuità) quando si dissolve semplicemente come una confusione della mente.

Le cose sono come un miraggio d’acqua nel deserto. Se il miraggio corrispondesse alla realtà, allora più ci avviciniamo più dovremmo essere in grado di trovare l’acqua. Ma più esaminiamo, più notiamo che non c’è acqua.

La vacuità della causalità

Quando una causa dà origine a un effetto, se la causa e l’effetto avessero un’esistenza autostabilita, allora o l’effetto sorse da nessuna causa, o da sé stesso, da qualcosa di diverso da sé stesso o da entrambi. Ma, poiché Nagarjuna confutò tutte le quattro posizioni, lui concluse, nel testo Versi Radice per il Madhyamaka:

(XXI.13) Un fenomeno funzionale non fa in modo che sorga da sé stesso, non fa in modo che sorga da qualcos’altro, né fa in modo che sorga (sia) da sé stesso che da qualcos’altro. Da che cosa fa in modo che sorga?

Quando esaminiamo la natura della designazione, notiamo che qualcosa designata [con una parola] è designata su una base. Possiamo distinguere una designazione (btags), una base per la designazione (gtags-gzhi) e ciò a cui la designazione si riferisce (bdags-chos). Ciò a cui la designazione si riferisce e la base per la sua designazione, tuttavia, non sono la stessa cosa, né sono cose totalmente differenti, separate – esse sono “né una cosa né molte cose”. In maniera simile, possiamo analizzare un effetto. Esso proviene da nessuna causa, da sé stesso, da qualcos’altro, oppure da una causa, molte cause, o cosa? Facendo un’analisi in questo modo, non possiamo trovare questo effetto.

La distinzione Svatantrika-Prasangika

Quando analizziamo con la logica, usando sillogismi, abbiamo bisogno di applicare molte linee di ragionamento. Per provare che un oggetto è inesistente, noi argomentiamo che se esistesse, dovrebbe esistere in questo o in quest’altro modo. Se non esiste in nessuno di questi modi possibili, allora non esiste. Ma per effettuare l’analisi concettuale con la logica, abbiamo bisogno di un’immagine mentale di ciò che deve essere confutato, affinché possiamo indagarlo.

[Questa immagine mentale (rnam-pa) è l’oggetto concettualmente implicato (zhen-yul, letteralmente “oggetto aggrappato”) della cognizione concettuale nell’inferenza. È un ologramma mentale che rappresenta un membro della categoria oggetto (don-spyi) attraverso cui è concettualizzato. Il punto di dissenso tra lo Svatantrika e il Prasangika riguarda questo oggetto concettualmente implicato. Lo Svatantrika afferma che il suo oggetto concettualizzato su (zhen-gzhi, letteralmente, “base a cui ci si afferra”) possiede un’esistenza autostabilita ed è la “cosa a cui si riferisce” (btags-don) corrispondente all’oggetto concettualmente implicato. Il Prasangika afferma che l’oggetto concettualmente implicato rappresenta qualcosa di totalmente inesistente e pertanto non c’è una “cosa a cui si riferisce” che serve come suo “supporto focale” (dmigs-rten) che la sostiene.]

Lo Svatantrika e il Prasangika accettano entrambi l’origine dipendente in termini dell’etichettatura mentale.

  • Il Prasangika afferma che non c’è nessuna base trovabile che possieda le caratteristiche distintive (mtshan-gzhi) di un sé, la persona, come base per la designazione di una persona.
  • Bhavaviveka, d’altro canto, [da cui deriva il sistema Svatantrika,] nel suo testo Fiamma del Ragionamento (rTog-ge ‘bar-ba, scr. Tarkajvala) [l’autocommentario al suo testo Essenza Cuore del Madhyamaka (dBu-ma snying-po, scr. Madhyamakahrdaya)], affermò che la coscienza mentale è designata come la persona. Pertanto, accettando l’etichettatura mentale in termini di esistenza autostabilita, Bhavaviveka spiegò che la caratteristica distintiva di qualcosa designata dovrebbe essere trovabile nella sua base di designazione. [Su tale base, l’etichettatura mentale è allora valida.]

Il Prasangika, a sua volta, afferma che una mente che conosce validamente un oggetto è valida rispetto al suo oggetto, ma ingannata rispetto alla sua cognizione del modo di esistenza (gnas-tshul) di tale oggetto. Conoscere l’oggetto come avente davvero un’esistenza autostabilita è sbagliato. Pertanto, anche se le cose sembrano possedere un’esistenza autostabilita, questo aspetto della loro apparenza è l’oggetto da confutare. Quando questa apparenza viene indagata, non si può trovare nulla che corrisponda ad essa. Se si potesse trovare qualcosa, non avrebbe alcun senso dire che l’oggetto non ha un’esistenza autostabilita. Qualcosa possiede un’esistenza autostabilita se qualcosa che corrisponda alla sua apparenza può essere trovata, in modo tale da sostenere l’apparenza.

[In altre parole, l’oggetto su cui si sta concettualizzando e a cui l’oggetto concettualmente implicato che appare letteralmente “si aggrappa”, ovvero l’esistenza autostabilita, dovrebbe essere trovato come una “cosa a cui si riferisce” (la cosa effettiva a cui si riferisce un nome o concetto) e un supporto focale.]

Solo nel nome

Ciononostante, le persone esistono, altrimenti non potremmo proporre il samsara e la liberazione, la felicità e la sofferenza, e questo contraddirebbe la nostra esperienza diretta. Quindi le persone esistono, ma nessuna traccia di loro può essere trovata [come una “cosa” a cui si riferisce] stabilita negli aggregati che sono la base su cui loro sono un fenomeno d’imputazione. E nessuna traccia o caratteristica distintiva di loro, che ne stabilisca l’esistenza, può essere trovata negli aggregati che sono la loro base di designazione. L’esistenza di una persona può essere stabilita soltanto in maniera dipendente in base alla designazione. Questo è il significato di una persona che è “solo nel nome” (ming-tsam). L’esistenza di una persona può essere stabilita soltanto in base al fatto che ci sia una parola per lui o lei.

“Solo nel nome”, allora, non vuol dire che ci sono soltanto nomi senza significato (don). La designazione è l’applicazione concettuale di un nome o parola ad un significato o a un oggetto. Tuttavia, nessuno oggetto autostabilito con quel nome può essere trovato che corrisponda o supporti l’ologramma mentale che appare di un oggetto autostabilito con quel nome. Soltanto in questo modo un nome si affida a un significato o a un oggetto come sua base di designazione. Questo è il significato dell’origine dipendente – oggetti convenzionali sorgono in maniera dipendente come ciò a cui i nomi o le parole designate su una base si riferiscono.

Il termine “Origine dipendente”

“Dipendente e indipendente” non sono soltanto termini opposti che si contraddicono, si escludono a vicenda. Costituiscono una dicotomia; non c’è una terza alternativa. Le cose appaiono come se avessero un’esistenza autostabilita a causa della mente errata che le fa apparire stabilite in questo modo, e non perché ci sia nessuna caratteristica trovabile, effettiva, che stabilisca questa apparenza dal lato dell’oggetto. Quest’analisi è il motivo per cui il Prasangika utilizza l’argomento dell’origine dipendente per provare la mancanza di un’esistenza autostabilita [intrinseca] di tutti i fenomeni.

Nel termine “origine dipendente”, “dipendente” (rten) annulla “indipendente”. L’esistenza di qualcosa non può essere stabilita dal suo stesso potere; la realizzazione della sua esistenza deve dipendere da qualcos’altro. “Origine” (‘byung-ba) implica che qualcosa esiste; non è totalmente inesistente, bensì può produrre effetti. Pertanto, l’origine dipendente è il re di tutte le linee di ragionamento che provano la vacuità dell’esistenza auto-stabilita.

Pertanto, in termini di causa, natura ed effetto, l’esistenza autostabilita non esiste. Le comprensioni corrette della vacuità dalla prospettiva di queste tre sono conosciute come le “tre liberazioni” (rnam-grol gsum, tre porte o portali per la liberazione). Queste tre possono essere caratterizzate in termini di condividere la stessa natura essenziale (ngo-bo gcig) in comune oppure di avere nature essenziali non condivise. Quando sono formulate in termini di un oggetto privo di esistenza autostabilita come causa o effetto oppure per propria natura, questa è la spiegazione per cui i tre hanno una singola natura essenziale in comune. [Quando sono formulate in termini di tre oggetti separati – la natura stessa di un oggetto, la sua causa e il suo effetto – questa è la spiegazione dei tre come aventi nature essenziali individuali e non condivise.]

La vacuità come una negazione non implicativa

Nei Versi Radice per il Madhyamaka, Nagarjuna presenta cinque linee di ragionamento per provare la vacuità. Riguardo il Buddha, che ha tutte le buone qualità e nessun difetto, Nagarjuna analizzò:

(XXII.1) Il Così Andato non è gli aggregati, né qualcosa diverso dagli aggregati. Gli aggregati non sono in lui, né lui è negli aggregati. Il Così Andato non è un possessore degli aggregati. Cos’è, allora, il Così Andato?

Lo stesso vale per la vacuità della vacuità, la vacuità della liberazione come natura della mente, e così via. Nella lista delle 16 vacuità, quattro di esse si riferiscono direttamente alla vacuità della vacuità. Quindi, il significato della vacuità è stabilito attraverso l'analisi quando meditiamo nel modo indicato da Nagarjuna:

(XXI.13) Un fenomeno funzionale non fa sì che sorga da sé stesso, non fa sì che sorga da qualcosa di diverso, né fa sì che sorga (sia) da sé stesso che da qualcos’altro. Che cosa ne determina la nascita?

La vacuità è una negazione non implicativa. Semplicemente nega l’oggetto da negare e non getta sulla scia della negazione (bkag-shul) – come un’impronta lasciata dalla negazione – nessun fenomeno d’affermazione, solo un fenomeno di negazione. Pertanto, Buddhapalita interpretò questo verso nel senso di indicare che la vacuità è una negazione non implicativa quando scrive:

In quanto a “che cosa ne determina la nascita?”, è perché l’esame di una nascita porta a “non c’è nulla come questo argomento” (don med-pa-nyid).

[Poiché nessuna nascita da sé stesso, dall’altro, o da entrambi viene trovata quando si esamina, allora l’unica conclusione è che non c’è nessuna cosa come l’argomento del verso, una nascita autostabilita.]

Bhavaviveka criticò la sua interpretazione come difettosa. Bhavaviveka scrisse nel Faro per la Consapevolezza Discriminante:

Dunque, riguardo a “che cosa ne determina la nascita?”, un autore (Buddhapalita) scrisse che l’argomento della frase è “poiché la nascita non viene causata” (skye-bar mi-‘gyur-ba-nyid). Ma per via di questo, allora poiché la produzione e la cessazione non esisterebbero, l’argomento radice (rtsa-ba’i don) della linea di ragionamento è qualcosa di non affermato.

[L’argomento radice della linea di ragionamento – l’argomento su cui è fatta la tesi da dimostrare – è una nascita. Ciò che deve essere stabilito o dimostrato riguardo a questo argomento è la proprietà “poiché non fa sì che sorga da altro, da sé stesso, o da entrambi”. Nel provare che questa proprietà si applica alla “nascita”, la linea di ragionamento sta affermando il suo argomento radice stabilendo una proprietà di esso. Bhavaviveka critica l’interpretazione di Buddhapalita poiché stabilisce soltanto la proprietà “poiché non fa sì che sorga da altro, da sé stesso, o da entrambi”, e siccome non stabilisce inoltre l’argomento radice a cui si applica, “nascita”, esso porta alla conclusione nichilista che la nascita, e anche la cessazione, non esistono affatto.]

Quindi, a differenza dell’affermazione di Buddhapalita per cui il verso indica la negazione non implicativa della nascita da altro, da sé stesso, o da entrambi, Bhavaviveka asserisce che indica una negazione implicativa della nascita. E quindi, secondo lui, il verso deve indicare una linea di ragionamento che afferma il suo argomento. 

[Poiché la negazione non implicativa “non c’è una nascita causata da sé stessa, da altro, o da entrambi”, le parole della negazione, dopo aver precluso l’oggetto da negare, non gettano nessun fenomeno di affermazione sulla loro scia. Gettano sulla loro scia soltanto il fenomeno di negazione “un’assenza di una nascita che sia causata da sé stessa, da altro, o da entrambi”.

Siccome la negazione implicativa “la nascita non è causata da sé stessa, da altro, o da entrambi”, le parole della negazione gettano sulla loro scia sia il fenomeno di affermazione “nascita” sia il fenomeno di negazione “poiché non fa sì che sorga da altro, da sé stessa, o da entrambi”.

Buddhapalita stava affermando che la linea di ragionamento nel verso è un prasanga, la quale semplicemente nega la sua tesi mediante conclusioni assurde. Bhavaviveka, d’altro canto, stava affermando che la linea di ragionamento indicata nel verso è un sillogismo, in cui l’argomento della tesi deve essere un fenomeno autostabilito su cui qualcosa di più deve essere stabilito o dimostrato. Lui sosteneva che siccome il metodo prasanga di ragionamento per mezzo di una negazione non implicativa non afferma alcunché, esso porta alla posizione nichilista che non c’è nessuna nascita e nessuna cessazione di qualunque fenomeno funzionale, persino al livello convenzionale. Questa è una delle distinzioni principali tra lo Svatantrika e il Prasangika, sebbene entrambe concordino che la vacuità stessa è una negazione non implicativa.]

La meditazione sulla vacuità

Se, quando meditiamo sulla vacuità, pensiamo “Ora sto meditando sulla vacuità”, come se la vacuità fosse un fenomeno d’affermazione, allora stiamo meditando sulla vacuità come una implicazione negativa [gettando “vacuità” come un fenomeno d’affermazione sulla sua scia]. Invece, durante la fase di assorbimento totale (mnyam-bzhag, equilibrio meditativo) della nostra meditazione, ci focalizziamo semplicemente sulla vacuità come fenomeno di negazione non implicativo, come lo è lo spazio [l’assenza di qualunque cosa di tangibile o di ostruttivo che impedisca l’esistenza spaziale di qualcosa]. Questa fase della meditazione sulla vacuità dura solo per poco tempo.

Durante la fase dell’ottenimento successivo (rjes-thob, post-meditazione), noi ci focalizziamo sul fatto che tutte le apparenze sembrano un’illusione. Siccome l’afferrarsi ad un’esistenza autostabilita sorge quando c’è un’apparenza di esistenza autostabilita durante questa fase, noi cerchiamo di mantenere la forza della fase di assorbimento meditativo mentre vediamo tutte le apparenze come se fossero un’illusione. “Come un’illusione” significa che sebbene le cose sembrino possedere un’esistenza autostabilita, sono prive di questo modo impossibile di esistere.

Il fatto che percepiamo le cose come se fossero autostabilite non dev’essere dimostrato, siccome le cose ci appaiono così automaticamente. Ma siccome abbiamo avuto conferma durante l’assorbimento totale che tale esistenza autostabilita non esiste, allora quando l’apparenza di un’esistenza autostabilita sorge ancora una volta durante la fase dell’ottenimento successivo, abbiamo semplicemente bisogno di ricordare che l’esistenza autostabilita non esiste e poi di vedere queste apparenze come fossero un’illusione. È difficile riconoscere questo tutto in una volta, o velocemente. Richiede molto tempo e circostanze favorevoli.

Dopo aver meditato sulla vacuità, poi nella vita quotidiana abbiamo bisogno di evitare le quattro considerazioni errate (tshul-min yid-byed) riguardo la verità convenzionale. Queste sono considerare concettualmente ciò che è non statico come statico, ciò che è impuro come puro, ciò che è sofferenza come felicità, e ciò che non è un sé come se fosse un sé. Abbiamo bisogno di vedere l’opposto e di vedere come sono le cose effettivamente in termini della verità convenzionale. Dobbiamo unirlo al bodhichitta, e di pregare che tutti possano raggiungere lo stato di un Buddha, come supplemento alla pratica di cui sopra.

Ottenere i due Corpi di Buddha nel tantra anuttarayoga

Questo ci porta al tema della pratica del sentiero tantrico, come supplemento da aggiungere alla suddetta pratica, come il metodo per raggiungere i due Corpi Illuminanti di Buddha. I punti unici della pratica tantrica si trovano nella classe più alta del tantra, l’anuttarayoga tantra. Le prime tre classi del tantra, quindi, servono come preliminare all’anuttarayoga.

Le procedure principali della pratica anuttarayoga puntano ad attuare i due Corpi di Buddha. Un Dharmakaya è per il nostro stesso beneficio, poiché non è visto da altri, né può essere di beneficio per loro. Un Rupakaya (Corpo della Forma) è il Corpus di Corpi Illuminanti che sono di beneficio per gli altri, poiché sono visibili per gli altri e possono essere di beneficio per loro. Un Dharmakaya include sia un Corpo di Natura Essenziale (Svabhavakaya) sia un Dharmakaya di Consapevolezza Profonda (Jnana Dharmakaya). Corpi della Forma includono i Sambhogakaya (un Corpus di Corpi Illuminanti di Pieno Uso) e Nirmanakaya (un Corpus di Corpi d’emanazione). Mentre dimoriamo nel Dharmakaya, manifestiamo queste tipologie di Corpi della Forma.

La tradizione Pali non fa alcun riferimento a questi due Corpi di Buddha o ai quattro. Il Mahayana, tuttavia, presenta i due Corpi Illuminanti di Buddha come inseparabili (dbyer-med), di una natura essenziale (ngo-bo gcig) e di un unico sapore (ro-gcig). Nel sistema del tantra di Guhyasamaja questo punto è denominato come “l’inseparabilità dei tre fattori nascosti” (gsang-ba gsum dbyer-med, l’inseparabilità dei tre fattori segreti) – corpo nascosto, parola nascosta, e mente nascosta.

Il tantra radice di Guhyasamaja afferma che il corpo è come la mente, e la mente è come il corpo. In altre parole, il corpo, la parola e la mente si riferiscono tutti alla stessa cosa. Tuttavia, dove ci troviamo noi, è chiaro che il nostro corpo non è la nostra parola o la nostra mente. L'inseparabilità dei tre è dal punto di vista della mente più sottile e del corpo più sottile. Questo ha implicazioni per il nostro corpo, la parola e la mente a livello grossolano quando siamo svegli, quando sogniamo o siamo nel sonno profondo.

Quando parliamo del corpo, della parola e della mente dello stato primordiale (gnyug-ma), la mente di chiara luce è la mente; mentre l'energia più sottile che è il suo supporto è il corpo. Sono della stessa natura essenziale ma hanno funzioni diverse. La mente più sottile è la fonte della parola più sottile e, quindi, dal punto di vista di questo livello di chiara luce più sottile, il corpo, la parola e la mente sono della stessa natura essenziale e di un solo gusto. Poi, quando realizziamo la Buddhità, i tre sono inseparabili.

Ma poi c’è l’inseparabilità di questi tre aspetti primordiali sia nella fase dell’addestramento sia nella fase che non richiede addestramenti ulteriori (la Buddhità). Nella fase dell’addestramento, il corpo si riferisce a un corpo arcobaleno (‘ja-lus) [nel tantra madre], a un corpo illusorio puro (sgyu-lus) [nel tantra padre], oppure a una forma priva (stong-gzugs) [nel Kalachakra]. È possibile manifestarli con il vento più sottile quando siamo in grado di trasformare la mente di chiara luce in una cognizione non concettuale della vacuità. Fare questo richiede competenza nello yoga della profondità (vacuità) inseparabile e chiarezza (creazione di apparenze) (zab-gsal dbyer-med).

Cominciamo sempre queste meditazioni con la meditazione sulla vacuità. Con “Om svabhava shuddha”, meditiamo sull’assenza di identità delle persone. Poi con “sarva dharma svabhava shuddho”, meditiamo sull’assenza d’identità di tutti i fenomeni. Con “ham”, meditiamo esclusivamente sul mantenimento dell’orgoglio di queste due assenze d’identità.

Lo stadio di generazione (bskyed-rim) contiene l’essenza dello stadio di completamento (rdzogs-rim) nel senso che si concentra principalmente sulla verità convenzionale, ma nella sua fase di totale assorbimento, ha un aspetto della verità più profonda. Lo stadio di completamento si concentra sulla verità più profonda come suo aspetto principale.

La pratica dello stadio di generazione si effettua con l'immaginazione per il suo aspetto della verità convenzionale quando visualizziamo le divinità. Se visualizziamo gli aggregati, gli elementi del nostro corpo e così via come divinità, questo è un livello differente della pratica di visualizzazione. Mentre la mente è concentrata sulla vacuità, immaginare che l'energia-vento di questa mente sorga sotto forma di una divinità porta ad essere effettivamente in grado di sorgere – nello stadio di completamento – sotto forma di un corpo arcobaleno e, quando illuminato, in un Corpus di Corpi di Forma illuminante, il Rupakaya.

Dopo aver immaginato di sorgere come una divinità focalizzandosi sulla sua vacuità, poi si comincia a meditare sul circolo di divinità del mandala. Questo accumula forza positiva (merito), mentre la meditazione sulla loro vacuità accumula consapevolezza profonda. Qui immaginiamo di accumularli come se condividessero la stessa natura essenziale, ma quando potremo effettivamente coltivare la chiara luce primordiale nello stadio di completamento, allora saremo in grado effettivamente di coltivare metodo e consapevolezza profonda (saggezza) sul sentiero come aventi la stessa natura essenziale.

Questo è il punto su cui si concentrano lo dzogchen e la mahamudra, che è l’oggetto effettivo su cui ci si focalizza in questi due sistemi. Oggigiorno, la gente pensa che la pratica mahamudra e dzogchen sia semplice. Alcuni maestri al giorno d’oggi sostengono che sono pratiche facili, e io mi chiedo se questo sia dovuto a una mancanza di conoscenza o di maturità?

A ogni modo, in conclusione, il Buddha insegnò che noi siamo i nostri stessi maestri. Siamo noi che dobbiamo aiutare noi stessi a raggiungere rinascite fortunate e la liberazione. Il miglior modo per ottenerle è mediante il bodhichitta, una comprensione corretta della vacuità, e la pratica dei sei atteggiamenti lungimiranti – le sei paramita.

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