Altri tipi di pazienza e le ultime tre delle sei perfezioni

La pazienza lungimirante di accettare prontamente la sofferenza

La meditazione è un metodo per fare sì che la mente non sia più sotto il controllo degli impulsi karmici e delle emozioni disturbanti, creando così sofferenza per noi stessi. Il fatto che la meditazione funzioni, in questo modo, mostra che non tutto è determinato da una sorta di destino karmico, perché se lo fosse, non saremmo in grado di migliorare. Quindi, possiamo fare uno sforzo. Accumulare un potenziale positivo proviene dai nostri sforzi, non dal destino.

Ci sono molti tipi di esperienza (myong-ba) nella meditazione. Alcune sono il risultato di uno sforzo, alcune sono senza sforzo; alcune sono artificiose, alcune non lo sono [ovvero non sono stati mentali generati dal pensiero concettuale]. Tra le varietà, alcune possono degenerare a causa delle nostre emozioni disturbanti, alcune non diminuiranno. Quelle esperienze meditative che non degenerano sono quelle che nascono dalla consapevolezza discriminante derivante dalla meditazione (sgom-byung shes-rab). Tale consapevolezza discriminante è ottenuta dal raggiungimento di una coppia unita (zung-'brel) di una mente calma e stabile di shamatha (zhi-gnas) e di una mente eccezionalmente percettiva di vipashyana (lhag-mthong). Pertanto, ci sono molte fasi per sviluppare la nostra mente attraverso la meditazione e quindi prevenire ulteriori sofferenze.

Ma come affrontare le sofferenze che vediamo tutt'intorno a noi e che noi stessi sperimentiamo adesso? La risposta è con la compassione. Tutti noi abbiamo la compassione che nasce naturalmente come parte della nostra natura, ma per aumentarla dobbiamo usare la ragione. Può essere un po' intensificata per mezzo della fede e dell'aspirazione; ma, perché non degeneri, ha bisogno di essere rafforzata dalla consapevolezza discriminante. Il desiderio e l'aggressività possono anche aumentare in base alla consapevolezza discriminante – per esempio, discriminare qualcuno come attraente e qualcun altro come ripugnante – ma a differenza della compassione, queste due emozioni disturbanti non sorgono naturalmente come parte della nostra natura. Possono essere eliminate.

Nel Supplemento ai (“Versi Radice di Nagarjuna per il) Madhyamaka”, Chandrakirti spiegò che la compassione viene aiutata attraverso i tre tipi di consapevolezza discriminante. Questa è la consapevolezza discriminante che vede:

  • La sofferenza di tutti gli esseri e la loro sofferenza di non realizzare questo
  • L’impermanenza di tutti gli esseri e la loro sofferenza di non realizzare questo
  • La vacuità di tutti gli esseri e la loro sofferenza di non realizzare questo.

Quest’ultima, chiamata “compassione senza obiettivo” (dmigs-med snying-rje) – compassione non indirizzata ad oggetti stabiliti da sé – implica vedere tutti gli esseri come illusioni e provare compassione per loro con questa visione in mente. È specialmente importante notare come la sofferenza di tutti gli esseri limitati si basi sulla loro inconsapevolezza, la loro ignoranza, e quindi è qualcosa che può essere eliminata.

Le azioni costruttive portano felicità agli altri e anche a noi. In altre parole, quando vogliamo aiutare gli altri e in effetti lo facciamo, ci sentiamo bene e sperimentiamo un senso di soddisfazione. Continuiamo a sentirci felici dopo, e anche in futuro. D'altra parte, quando facciamo atti dannosi con un'intenzione dannosa, significa che abbiamo antipatia per gli altri. In questo stato, siamo infelici e non godiamo della pace della mente. Quando feriamo gli altri e ci sentiamo soddisfatti di averlo fatto, proviamo ancora antipatia per loro e continuiamo ad essere infelici. Questo è un motivo per sperimentare ulteriore infelicità in futuro. Dobbiamo riflettere sul modo in cui la causa e l'effetto karmici funzionano in questo modo.

Inoltre, considerate due persone nella stessa prigione come il risultato complessivo di un potenziale karmico condiviso. Tuttavia, sperimentano diversi livelli di sofferenza. Anche se sottoposti alla stessa tortura, la sperimenteranno in modo diverso a seconda della loro forza fisica e del loro atteggiamento mentale. Così, una vasta gamma di cause diverse compone la complessità del modo in cui sperimentiamo qualunque cosa. Le cause di ottenimento sono interne, mentre le cause ausiliarie di supporto possono essere esterne o interne. Inoltre, ciò che stavamo vivendo prima di un dato evento influenza il modo in cui ci sentiamo durante [tale evento].

La pazienza di accettare volontariamente la nostra sofferenza non equivale all'indifferenza verso la sofferenza. Questo non significa affatto che la sofferenza vada bene, soprattutto perché la cosa principale che vogliamo fare è eliminare la sofferenza e raggiungere la liberazione per aiutare gli altri. Tuttavia, poiché abbiamo già sofferto, dovremmo accettarlo in modo da non aggiungere inutilmente [altra sofferenza]. Non c'è bisogno di aggiungere altra sofferenza alla nostra sofferenza attuale.

La pazienza di accettare la nostra sofferenza non significa anche che vogliamo più sofferenza. Piuttosto, vogliamo evitare che la sofferenza che già abbiamo diventi un ostacolo, quindi la trasformiamo in un fattore di sostegno per il cammino. Infatti, certe pratiche richiedono sofferenza e difficoltà per superare gli ostacoli. Basta osservare le pratiche ascetiche del Buddha e le difficoltà di Milarepa – hanno accolto la sofferenza per ottenere la realizzazione di uno scopo superiore. Pertanto, anche noi possiamo accogliere piccole difficoltà per ottenere maggiori benefici in futuro, così come elimineremmo una minaccia per le nostre vite accettando il dolore di un’operazione chirurgica.

Quanto a come affrontare i problemi che emergono, Shantideva consigliò nel suo testo Impegnarsi nella condotta del bodhisattva:

(VI.10) Se si può rimediare, perché avere un pessimo umore per qualcosa? E se non si può rimediare, a che serve essere di pessimo umore a tal riguardo?

Quando soffriamo, possiamo anche vederlo come un modo per purificare le nostre negatività. Con la nostra sofferenza, richiediamo che le difficoltà che sperimentiamo diminuiscano le nostre sofferenze future.

Shantideva disse questo usando un esempio forte:

(VI.72) Perché un uomo che sta per essere messo a morte sarebbe sfortunato se, facendogli tagliare la mano, la sua vita fosse risparmiata? Allora perché sarei sfortunato se, attraverso le sofferenze umane, fossi risparmiato dai regni senza gioia?
(VI.73) Se non riesco nemmeno a sopportare questa piccola sofferenza del presente, allora perché non mi proteggo dalla rabbia che sarebbe la causa di dolori infernali?

Pensando in questo modo, possiamo anche prendere le sofferenze degli altri, come nella pratica tonglen di dare e ricevere.

La pazienza lungimirante di sopportare le difficoltà quando ci si impegna nella pratica del Dharma

La pratica del Dharma comporta spesso molte difficoltà. Considerare gli obiettivi per cui pratichiamo il Dharma ci aiuta a sviluppare la pazienza lungimirante di sopportare le difficoltà coinvolte. Tale pazienza è necessaria, per esempio, quando si affrontano i seguenti otto tipi di difficoltà mentre si pratica il Dharma:

  1. Quando si diventa un monaco o una monaca, il dover indossare abiti di scarsa qualità.
  2. Essere emarginati dalla società se decidiamo di non condurre una vita laica ordinaria e vogliamo praticare il Dharma intensamente. Anche se le persone non ci incoraggiano oppure ci guardano dall’alto in basso come strani, dobbiamo prendere la nostra decisione da soli. I maestri Kadampa di un tempo insegnano che è inappropriato conformarsi alle aspettative di tutti a causa della preoccupazione per gli otto dharma mondani – lode e critica eccetera.
  3. Quando ci impegniamo in una pratica rigorosa del Dharma – ad esempio, durante un ritiro di tre anni – non dormire abbastanza oppure dover dormire seduti
  4. Dover mostrare rispetto per il Buddha, Dharma e Sangha stando in piedi quando un testo viene portato in una stanza e, prima di un insegnamento, prostrarsi al lama, o eseguire un gesto della mano se siamo malati. La prostrazione è un modo eccellente per eliminare l'arroganza, poiché è un modo per mostrare rispetto e rendere omaggio. È quindi importante che un lama si prostri al Triplice Gioiello prima di insegnare, pensando, prima di farlo, all'impermanenza, alla sofferenza del cambiamento e all'assenza del sé, e poi schioccando le dita per evitare di essere arroganti.
  5. Quando diventiamo un monaco o una monaca, dover rasarsi la testa, smettere di cantare e danzare, mendicare per il nostro cibo e accettare tutto ciò che ci viene dato
  6. Doversi concentrare con nessuna divagazione mentale quando recitiamo preghiere e meditiamo, e dover mantenere la presenza mentale durante la meditazione del cammino.
  7. Quando si pensa alla sofferenza di tutti gli esseri e si medita sulla compassione, sopportare il turbamento emotivo e la tristezza che emergono. Quando Buton insegnava, raccontava barzellette che facevano ridere, ma quando Langri Tangpa insegnava, raccontava storie tristi che facevano piangere tutti. Tuttavia, quando si prova compassione, questo tipo di tristezza e turbamento emotivo non è come le normali emozioni disturbanti. Questo perché, nel profondo della nostra mente, siamo forti. Quando pensiamo alle sofferenze degli altri, non siamo sopraffatti dalla sofferenza che proviamo a causa dei nostri sentimenti di tristezza. Accettiamo prontamente la sofferenza che emerge quando pensiamo alle sofferenze degli altri.
  8. Sospendere le nostre ordinarie e piacevoli attività ricreative quando lavoriamo per aiutare gli altri.

Queste, quindi, sono le otto tipologie di difficoltà che dobbiamo sopportare quando ci impegniamo nella pratica del Dharma.

C’è un’ulteriore situazione che richiede questo tipo di pazienza che è utile menzionare. L’effettiva possibilità di ottenere l’illuminazione è stabilita da ragionamenti che riguardano fenomeni estremamente oscuri. Per verificare la nostra percezione di qualcosa di ovvio, la nostra percezione non deve essere contraddetta dalla valida e nuda cognizione non concettuale. Per i fenomeni oscuri, la nostra comprensione non deve essere contraddetta dalla valida cognizione inferenziale. Per i fenomeni estremamente oscuri, la nostra comprensione non deve essere contraddetta da valide citazioni provenienti da fonti autorevoli.

Che dire, per esempio, degli insegnamenti nei testi buddhisti sul Monte Meru? Il punto principale negli insegnamenti buddhisti sono le quattro nobili verità e, come parte dell'argomento riguardante la prima nobile verità, la vera sofferenza, c'è una discussione sull'ambiente. L'enfasi principale in esso, tuttavia, è sugli esseri limitati che vivono in questo ambiente. Il Buddha, tuttavia, parlò dell'ambiente in termini di opinioni attuali del suo tempo. Poiché questa descrizione del Monte Meru e così via è contraddetta da una percezione valida, pertanto non deve essere accettata.

Per quanto riguarda i fenomeni estremamente oscuri, come il karma, non dobbiamo trovare nulla di contraddittorio negli insegnamenti del Buddha. Quindi, dobbiamo pazientemente esaminare molte scritture per verificare che non ci siano contraddizioni interne. In questo modo, saremo in grado di accettare questi argomenti estremamente oscuri, incluso il raggiungimento dell'illuminazione.

La perseveranza lungimirante

Abbiamo anche bisogno di una perseveranza o di uno sforzo lungimirante. La perseveranza, qui, è il tipo di sforzo che mettiamo in azioni costruttive quando ci divertiamo a farle. Non è come lo sforzo ordinario che facciamo quando ci impegniamo, per esempio, in azioni distruttive. Non possiamo semplicemente sederci e ammirare tutte le buone qualità della mente – amore, compassione, saggezza e così via. Dobbiamo fare uno sforzo costante per realizzarle. Ciò che ostacola il nostro sforzo costruttivo, tuttavia, è la pigrizia, quindi dobbiamo anche sforzarci di superarla.

Ci sono tre tipi di perseveranza:

  • La perseveranza simile a un’armatura
  • La perseveranza applicata alle azioni costruttive
  • La perseveranza di lavorare per il beneficio degli altri

La perseveranza simile a un’armatura

Abbiamo bisogno di uno sforzo simile all'armatura, dove non importa se dobbiamo esercitarci per un giorno o per un eone, ci sforzeremo per innumerevoli eoni per aiutare anche un solo essere senziente – non ci arrenderemo mai. Noi tutti possiamo sviluppare questa perseveranza invincibile, come un'armatura, che non si affatica e non si scoraggia mai.

Nel fare questo, Nagarjuna consiglia nel suo testo Una ghirlanda preziosa (Rin-chen ’phreng-ba, scr. Ratnavali):

(V.83) Come la terra, l’acqua, il fuoco, il vento, la medicina e anche le foreste, possa io sempre essere di aiuto agli esseri senzienti nel modo che desiderano, senza nessuna ostruzione.

Shantideva scrisse qualcosa di simile:

(III.20) Ed eternamente, come la terra e così via – i grandi elementi – e lo spazio, possa io servire, in una moltitudine di forme, come base per la vita di un numero inimmaginabile di esseri limitati.
(X.55) Per tutto il tempo che lo spazio rimane, e per tutto il tempo che gli esseri erranti rimangono, posso anch'io rimanere per quel tempo, dissipando le sofferenze degli esseri erranti.

Normalmente quando soffriamo, un breve periodo di tempo sembra molto lungo, ma quando siamo soddisfatti e felici, il tempo vola e potremmo rimanere in quello stato per sempre. Pertanto, è un enorme vantaggio sviluppare la bodhichitta e perseverare in quello stato lavorando a beneficio degli altri. Non importa quanto a lungo perseveriamo con la bodhichitta nei nostri cuori, il tempo volerà velocemente e con gioia. Non sentiremo che aiutare gli altri è un peso.

Quando leggiamo nella Ghirlanda Preziosa la spiegazione di Nagarjuna sul numero progressivamente più grande di eoni nel corso dei quali abbiamo bisogno di accumulare la forza positiva (il merito) per raggiungere le varie caratteristiche del corpo fisico di un Buddha, potremmo sentire che questo è un risultato davvero difficile da ottenere. Ma quando ci concentriamo sul beneficio di un numero illimitato di esseri senzienti e sul raggiungimento dell'illuminazione per essere in grado di farlo per sempre, anche se la quantità di forza positiva che questo richiederà è ancora maggiore, non saremo scoraggiati. Se stiamo già aiutando gli altri e se, quando raggiungeremo l'illuminazione, continueremo ad aiutare tutti gli altri, che differenza fa se ci vuole così tanto tempo?

Come scrisse Bhavaviveka nel suo testo Essenza cuore del Madhyamaka (dBu-ma’i snying-po, scr. Madhyamaka-hrdaya):

(I.29) Chi, come un eroe che lavora per il bene degli altri con le azioni di una grande persona, non rimarrebbe nel samsara, anche senza una fine, come se fosse per un solo giorno.

Quindi, poiché abbiamo compassione per tutti gli esseri limitati, rimaniamo nel samsara per aiutare tutti; non è che desideriamo rimanere nel samsara a causa della nostra attrazione per i suoi difetti. Così, con la consapevolezza discriminante e vedendo i difetti del samsara, non ne veniamo contaminati, ma piuttosto vediamo che è giusto rimanere nel samsara finché stiamo aiutando gli altri il più possibile.

Prima di tagliare l’erba, dobbiamo affilare la falce. Allo stesso modo, dobbiamo sforzarci di sviluppare il bodhichitta e una comprensione corretta della vacuità. Una volta che avremo acquisito perspicacia in entrambi, tutte le nostre azioni potranno essere a beneficio degli altri e in accordo con il Dharma. Farlo ci porterà grande soddisfazione e sarà di grande beneficio sia per noi che per gli altri. Ma, per fare questo, tuttavia, abbiamo bisogno di superare la pigrizia.

La migliore pratica preliminare (sngon-'Gro) è meditare sulla bodhichitta (compassione) e la saggezza (vuoto), e leggere e studiare gli insegnamenti. I vecchi maestri di Kadampa hanno detto che quando siamo ben nutriti e comodi, possiamo sembrare grandi praticanti, ma quando arrivano le difficoltà, la nostra vera natura si manifesta, specialmente quando stiamo morendo.

La morte avviene in due fasi. In primo luogo, nel processo di morte, smettiamo di respirare quando la nostra coscienza non dà più origine agli 80 tipi di attività mentale concettuale sottile universalmente esistente (kun-rtog brgyad-cu). Ma abbiamo ancora i tre tipi di sottilissima attività mentale concettuale che crea le apparenze (snang-ba gsum) – [apparenza bianca (snang-ba dkar-lam-pa), incremento rosso (mched-pa dmar-lam-pa), e quasi ottenimento nero (nyer-thob nag-lam-pa).]

Quando, durante la seconda fase, la nostra coscienza non dà più origine a questi tre e sorge la chiara attività mentale della morte, tecnicamente dovremmo essere morti, anche se ci sono stati casi di alcune persone che si sono riprese da quello stato. Ma la maggior parte non si riprende e muore. Per la maggior parte delle persone, quando il respiro si ferma, il loro cervello funziona ancora. Ma se sono attaccati a un respiratore artificiale e le funzioni cerebrali sono ancora presenti, probabilmente sono ancora vive.

Superare tipologie differenti di pigrizia

In ogni caso, mentre siamo ancora in vita, dobbiamo sforzarci in attività costruttive con perseveranza simile a un'armatura, anche di fronte alla nostra morte imminente. Ci sono tre tipi di pigrizia che ostacolano i nostri sforzi costruttivi:

  • Procrastinazione
  • Attaccamento ad attività futili, l’essere sempre indaffarati per cose insignificanti
  • Scoraggiarsi e sentire che “Non ne ho le capacità”, o pensare che l’illuminazione sia impossibile.

Quest’ultimo è di due tipi. Il primo è quando, per esempio, ci eccitiamo dopo aver sentito che possiamo raggiungere l'illuminazione entro un ritiro di tre anni. Tuttavia, quando sentiamo che potrebbero volerci tre innumerevoli eoni, pensiamo che sia impossibile e rinunciamo. Questo vuol dire scoraggiarsi quando otteniamo una conoscenza dettagliata.

Il secondo tipo consiste nello scoraggiarsi per i nostri progressi non ricordando l'impermanenza e così via. Se, fin dall'inizio, generiamo una ferma convinzione (mos-pa) nella nostra capacità di raggiungere l'obiettivo sulla base dell'impermanenza e così via, non avremo mai il problema di scoraggiarci. Possiamo anche meditare sulla nostra natura di Buddha per evitare lo scoraggiamento.

Come sottolineò Shantideva:

(VI.14ab) Non c'è nulla che non diventi più facile una volta che ci si è abituati.

Fondamentalmente, nessun bodhisattva divenne un Buddha senza nessuno sforzo. Quando i testi di Kalachakra parlano dell’Adibuddha (dang-po sangs-rgyas, il primo Buddha) e quelli di Guhyasamaja parlano di Adinatha (dang-po mgon-po, il primo Guardiano), o di un “Buddha dal primo” e di un “Guardiano dal primo”, questo non significa che qualcuno iniziò come un Buddha. Questi termini si riferiscono al fatto che tutte le apparenze pure e impure sorgono dalla mente di chiara luce e si dissolvono in essa. La mente di chiara luce non è un luogo, ma si riferisce alla natura della mente di ogni individuo, sia nel samsara che nel nirvana. Una volta che le impurità si sono dissolte tutte e le apparenze pure cominciano a sorgere dalla mente di chiara luce, questo segna l'inizio della Buddhità. Il raggiungimento della Buddhità è da questa prima occasione e questo è ciò a cui si riferiscono le espressioni "Buddha dal primo, primo Buddha" e "Guardiano dal primo, primo Guardiano". Inoltre, non è che una volta raggiunta la Buddhità, possiamo cadere da quello stato.

Secondo una fonte, Maitreya sviluppò la bodhichitta prima di Shakyamuni, ma Shakyamuni lavorò più duramente e quindi ottenne prima l'illuminazione. Ma "primo Buddha" non si riferisce neanche a questo.

Inoltre, quando ci sforziamo, abbiamo bisogno di fiducia. Sia la fiducia che l'arroganza sono stati d'animo edificanti, ma l'arroganza disprezza gli altri. Shantideva descrive tre tipi di fiducia:

  • Fiducia nell'azione – pensiamo, "Io solo lo farò." Non ci limitiamo a seguire gli altri, ma ci impegniamo ad assumerci le nostre responsabilità.
  • Fiducia per quanto riguarda il nostro potere e la nostra capacità – non siamo sicuri di ciò che gli altri possono fare, ma a prescindere, non li disprezziamo. Ci impegniamo ad aiutare gli altri, e così via, anche se gli altri non possono o non vogliono.
  • Fiducia riguardo le nostre menti – siamo sicuri della nostra vittoria sulle emozioni disturbanti e non verremo sopraffatti da esse

Pertanto, i bodhisattva hanno un forte senso di sé – “Lo farò!”. Quindi ci sono due tipi di ego – positivo e negativo. Uno è un piantagrane e l'altro ha la fiducia per ribellarsi contro le nostre emozioni disturbanti. Quest'ultimo ha il potere della stabilità (brtan-pa'i stobs).

Abbiamo anche bisogno del potere della gioia, dove ci piace lavorare per aiutare gli altri, ma senza stancarci completamente. Ci riposiamo quando è il caso, in modo da poter continuare a lavorare con gioia. Se siamo troppo stanchi, cadiamo in preda allo scoraggiamento; quindi, dobbiamo riconoscere i nostri limiti fisici e mentali. Tuttavia, non dovremmo rilassarci troppo; in altre parole, ci prendiamo solo un periodo di riposo quando siamo stanchi e ne abbiamo bisogno. Poi durante la nostra pratica di meditazione effettiva, saremo in grado di mantenere la nostra presenza mentale [consapevolezza].

Costanza mentale lungimirante

Riguardo la costanza mentale – o stabilità mentale, concentrazione – ci sono quattro livelli di costanza mentale, i quattro dhyana (bsam-gtan). Questi sono stati progressivamente più profondi di assorbimento meditativo, in cui non c'è distrazione dagli oggetti sensoriali del desiderio e l'attenzione nella meditazione è sugli oggetti eterei e sottili della mente. In stati senza forma di assorbimento ancora più profondo, l'oggetto meditativo è ancora più sottile.

Lo shamatha – uno stato mentale calmo e stabile – è lo “stadio preliminare indispensabile del primo stato di costanza mentale” (bsam-gtan dang-po’i nyer-bsdogs mi-lcogs-med, l’indispensabile stadio preliminare del primo dhyana), non il primo stato effettivo. Inoltre, lo shamatha è una mente priva di tutti i pensieri che distraggono e che rimane fermamente ed esclusivamente stabile su un oggetto costruttivo. Anche i non-buddhisti allenano le loro menti nella concentrazione e sono in grado di ottenere lo shamatha e i quattro dhyana, quindi questi sono comuni sia ai buddhisti che ai non-buddhisti.

Per migliorare costantemente la nostra pratica spirituale, abbiamo bisogno di concentrazione. Se non c'è concentrazione, non ci sarà alcun sviluppo mentale o progresso.

Lo scopo di sviluppare lo shamatha è di usarlo come base con cui, e su cui, raggiungere uno stato di vipashyana (lhag-mthong). La vipashyana è uno stato mentale eccezionalmente percettivo. Sia che il suo oggetto sia convenzionale o fondamentale, la vipashyana lo indaga completamente, sulla base di analisi che svelano la sua natura.

La pratica di shamatha sottolinea la meditazione stabilizzante (’jog-sgom), mentre nella pratica del sutra, la vipashyana sottolinea la meditazione discernente analitica (dpyad-sgom). Nella pratica dei tre tantra inferiori, la vipashyana è soltanto una meditazione analitica, discernente, mentre nel tantra anuttarayoga, il mahamudra Kagyu, lo dzogchen Nyingma, e la meditazione di chiara luce Gelug, la vipashyana è una meditazione stabilizzante.

È soltanto quando il termine “vipashyana” viene utilizzato in senso lato che si riferisce alla meditazione sulla vacuità. Sia lo shamatha che la vipashyana possono utilizzare un’ampia varietà di oggetti come loro focus. Ma i due non si differenziano per il loro oggetto di concentrazione, ma dai tipi di stati mentali con cui si concentrano sull’oggetto.

La vipashyana ha sia la rilevazione grossolana (rtog-pa) dei dettagli grezzi del suo oggetto di concentrazione sia il discernimento sottile (dpyod-pa) dei dettagli sottili, nonché due livelli di una sensazione di adeguatezza (shin-sbyangs, flessibilità mentale). La prima sensazione di adeguatezza è indotta dalla meditazione stabilizzante, la seconda dalla meditazione analitica, discernente. Lo stato unito (zung-‘brel) di shamatha e vipashyana può concentrarsi sulla verità convenzionale o la verità più profonda del suo oggetto. Lo shamatha semplicemente si concentra e non analizza un oggetto, mentre la vipashyana analizza e svela i dettagli del suo oggetto.

Sia lo shamatha che la vipashyana sono simili nel senso che entrambi richiedono innanzitutto di radunare le cause e circostanze per la loro pratica. Abbiamo bisogno di un posto isolato e quieto, senza rumori. Una volta che abbiamo raggiunto risultati nella pratica, il rumore non sarà un problema. Dovremmo iniziare con molte sessioni brevi, giorno e notte, prendendo delle pause frequenti per non scoraggiarci. Se spingiamo troppo forte in modo che la nostra meditazione diventi difettosa, perderemo solo il nostro tempo.

Dovremmo terminare le nostre sessioni di meditazione quando ancora desideriamo continuare, perché saremo felici di ricominciare la pratica. Dovremmo essere moderati nel nostro cibo e aderire alla pura moralità e all'autodisciplina praticando la consapevolezza delle nostre azioni con oggetti esterni. Nella meditazione, la nostra presenza mentale è indirizzata al nostro comportamento interno, al fine di evitare la distrazione interiore.

Lo shamatha si può concentrare, come menzionato prima, sulla verità convenzionale o la verità più profonda di qualunque fenomeno. Ma qual è quella più efficace su cui concentrarsi – la verità più profonda del vaso o della mente come nella meditazione mahamudra? Ovviamente, la mente. Pertanto, nello stadio completo del Guhyasamaja, la pratica della mente isolata (sems-dben) viene sottolineata molto di più di quella del corpo isolato (lus-dben) o della parola isolata (ngag-dben). In termini della verità convenzionale, possiamo concentrarci esternamente su qualche forma visiva o suono, oppure internamente sulla posizione del nostro corpo, o sulle divinità visualizzate dentro o fuori i nostri corpi.

Anche se quando cominciamo a meditare possiamo concentrarci su un oggetto esterno con la coscienza sensoriale, tali oggetti non sono quelli effettivi che ci permettono di sviluppare la concentrazione. Questo perché sono oggetti solo di un momento di cognizione sensoriale non concettuale e, come tali, cambiano di momento in momento. Per sviluppare la concentrazione, abbiamo bisogno di un oggetto stabile e quindi utilizziamo un oggetto mentale derivato da tale cognizione sensoriale. Dobbiamo concentrarci concettualmente su un ologramma mentale (rnam-pa) che è una riflessione dell’oggetto sensoriale, che lo rappresenta come un oggetto 3D di senso comune che si estende nel tempo e su tutta la sua informazione sensoriale. Lo stesso vale quando meditiamo sulla visualizzazione di una divinità. Anche questo è un processo concettuale.

Ma, come ho detto, coloro che cominciano a praticare particolarmente la meditazione mahamudra, iniziano concentrandosi sugli oggetti esterni. Questo è un metodo abile. In maniera simile, nella meditazione Kalachakra sulle forme prive (stong-gzugs), meditiamo con i nostri occhi che guardano in alto verso il centro delle sopracciglia, e quindi l’oggetto di concentrazione è sia esterno che interno. Ma le meditazioni effettive per ottenere lo shamatha si fanno con la coscienza mentale concettuale, non con la coscienza sensoriale.

È importante che la scienza moderna indaghi la cognizione concettuale e non concettuale. Sarebbe anche molto utile esaminare le spiegazioni indiane non buddhiste sulla cognizione per vedere se possono spiegare qualche processo cognitivo in modo più chiaro. È sempre utile vedere le cose da diversi punti di vista e sfidare le nostre convinzioni.

Quando ci concentriamo su un oggetto, dobbiamo eliminare i cinque difetti, come illustrato da Maitreya nel suo testo Differenziare il Centro dagli Estremi (dBu-mtha’ rnam-’byed, scr. Madhyanta-vibhanga). Questi sono:

  • La pigrizia di non voler meditare
  • Dimenticare l’oggetto di concentrazione
  • Il torpore mentale grossolano e sottile, e l’eccitazione mentale verso oggetti dell’attaccamento
  • Non applicare forze opponenti quando necessario
  • Non smettere di applicare forze opponenti quando non sono più necessarie.

Leggendo [libri] sulla meditazione, possiamo ottenere l'intenzione di meditare e fare uno sforzo in essa, superando così la pigrizia di non voler meditare. Familiarizzandoci con l'oggetto della meditazione in modo che sia chiaro nella nostra mente, non lo dimenticheremo. Saremo in grado di mantenere le nostre menti su di esso, fresco in ogni momento. Per mantenere la nostra presa mentale sull’oggetto (senza dimenticarlo e lasciarlo andare), utilizziamo la presenza mentale [consapevolezza] (dran-pa). Con la vigilanza [introspezione] (shes-bzhin), sappiamo quando dobbiamo applicare un opponente per correggere qualche difetto nella nostra meditazione, e impieghiamo l’intenzione (‘dun-pa) e un impulso mentale (sems-pa) per riapplicare la nostra attenzione (yid-la byed-pa) ancora una volta.

Quando siamo in grado di concentrarci perfettamente per quattro ore di fila, sviluppiamo una gioiosa sensazione di adeguatezza fisica e mentale. Grazie a questa, abbiamo uno strumento potente da applicare nella pratica del tantra anuttarayoga nelle meditazioni sul tummo (calore interno), le sottili gocce-energia (thig-le) e il mahamudra focalizzato sulla mente. 

Il IV Panchen Lama sottolineò nel Testo radice per il Prezioso Mahamudra Gelug/Kagyu (’dGe-ldan bka’-brgyud rin-po-che’i phyag-chen rtsa-ba):

Per questa (tradizione sutra del mahamudra), ci sono due metodi, ovvero cercare uno stato meditativo dopo aver ottenuto una visione corretta (della vacuità) e cercare una visione corretta dopo [aver ottenuto] uno stato meditativo.

Il primo stile è per coloro che hanno facoltà acute. Innanzitutto, sviluppano una visione corretta della vacuità. Ma nella tradizione del tantra anuttarayoga del mahamudra Kagyu, si sviluppa lo shamatha nel primo stadio, “esclusività” (gtse-gcig). Nel secondo stadio, chiamato “libero dalla fabbricazione mentale” (spros-bral), si ottiene la vipashyana. Il terzo stadio, “il singolo sapore” (ro-gcig), applica i risultati precedenti alle pratiche superiori dello stadio completo.

Consapevolezza discriminante lungimirante

Ci sono tre tipologie di consapevolezza discriminante lungimirante:

  • La consapevolezza discriminante della verità convenzionale
  • La consapevolezza discriminante della verità più profonda
  • La consapevolezza discriminante delle differenti disposizioni dei discepoli.

L'enfasi principale è su come usare l’intelligenza per eliminare le nostre emozioni disturbanti. Per questo, abbiamo bisogno di una comprensione corretta dell’assenza del sé e della vacuità. Ciò che differenzia la visione buddhista da quelle indiane non-buddhiste è se confuta o afferma un sé statico di una persona, un atman. Come asserisce Il Sutra del Re delle Concentrazioni Assorte (Ting-nge-’dzin rgyal-po’i mdo, scr. Samadhiraja Sutra):

Sebbene qualcuno sia in grado di meditare con concentrazione assorta, se non eliminano (dalle loro menti) il fatto che distinguono (le cose) come se avessero un sé (veramente stabilito), le loro emozioni disturbanti torneranno e li disturberanno, come (accadde con) Udraka quando meditò con concentrazione assorta. Ma se qualcuno medita, avendo osservato in dettaglio, con osservazione dettagliata (so-sor rtog-pa), l’assenza di sé dei fenomeni, ciò sarà la causa per il risultato, l’ottenimento del nirvana. Nessuna pacificazione si realizzerà attraverso qualsiasi altra causa.

Pertanto, abbiamo bisogno di meditare sull’assenza del sé affidandoci alla ragione e all’indagine, non semplicemente su citazioni scritturali su di essa.

Abbiamo anche bisogno di identificare e confutare l’oggetto corretto che deve essere smentito. Come disse Dharmakirti in Un Commentario al (“Compendio sulle) Menti che conoscono in modo validodi Dignaga (Tshad-ma rnam-’grel, scr. Pramanavarttika):

Per liberarsi dall’attaccamento e dalla repulsione in termini di (oggetti che hanno) buone qualità o difetti, non guardare questi oggetti. Ciò non avverrà (esaminando) qualunque maniera esterna di esistenza (possano avere).

[Quindi non esaminate perché hanno buone qualità o difetti, bensì esaminate il vostro aggrapparsi al sé che vi fa sentire attaccati ad essi oppure disgustati da tali oggetti.]

Chandrakirti indicò l’ordine per confutare gli oggetti che devono essere smentiti – primo il malinteso di “io” e poi di “mio”. In Un Supplemento ai (“Versi Radice sul) Madhyamaka” di Nagarjuna, lui scrisse:

(I.3) Mi prostro alla compassione sviluppata per coloro che, innanzitutto si aggrappano a un atman, pensando “io”, poi sviluppano attaccamento alle cose, pensando “Queste sono mie”, e così vagano (su e giù nel samsara) senza nessun controllo, come secchi su una ruota idraulica.

L’afferrarsi a un “io” veramente stabilito è qualcosa che sorge automaticamente e, in base a questo, anche la sensazione del “mio” corpo e così via sorge automaticamente. Sentiamo veramente che ci sia un “io” concreto e un corpo concreto. A volte identifichiamo questo “io” con i nostri aggregati, e a volte lo concepiamo come completamente differente e separato dagli aggregati. Ma, più spesso, noi consideriamo il corpo come “mio”, come se ci fosse un “io” separato che è il possessore di questo corpo come “mio”.

Tale “io” non esiste, anche se convenzionalmente c’è un sé, chiamato “io”. Ma solitamente vediamo un falso “sé” come un comandante, qualcosa che non dipende affatto dagli aggregati. Anche se la nostra idea di noi stessi è vaga, ancora quando qualcuno ci causa problemi, l’idea di un “io” emerge con forza e sembra ancora più concreta, sostanzialmente esistente e autonomamente conoscibile (rdzas-yod) come un comandante.

Lo Svatantrika e le altre scuole buddhiste inferiori vedono soltanto questo comandante “io” (esistente in modo indipendente e autonomamente conoscibile) come l’oggetto da confutare per ottenere la liberazione. L’afferrarsi al sé di una persona come esistente in questo modo causa emozioni disturbanti, e pertanto è un oscuramento emotivo (nyon-sgrib) che previene la liberazione. In aggiunta, il Chittamatra e lo Svatantrika parlano dell’afferrarsi ai fenomeni come un’oscurazione cognitiva (shes-sgrib) che previene l’onniscienza, sebbene l’afferrarsi al sé di una persona sia ancora la radice del samsara.

Per superare il samsara, lo Svatantrika e il Chittamatra affermano che non abbiamo bisogno di eliminare l’afferrarsi all’esistenza autostabilita (rang-bzhin-gyis grub-pa, esistenza intrinseca) di tutti i fenomeni. Il Prasangika, tuttavia, asserisce che finché ci afferriamo all’esistenza autostabilita di tutti i fenomeni, non saremo in grado di eliminare l’aggrapparsi a un sé impossibile delle persone, e pertanto la liberazione sarà irraggiungibile. Finché ci si aggrappa ad un’esistenza autostabilita degli aggregati che sono la base su cui il sé, “io”, è imputato [fenomeno di imputazione], ci sarà l’afferrarsi all’esistenza autostabilita di tale “io”.

Pertanto, il Prasangika parla di un afferrarsi più sottile all’identità di persone e fenomeni di quello identificato dalle scuole Svatantrika o Chittamatra. Se ci liberiamo dalle forme più sottili dell’afferrarsi al sé delle persone, allora grazie a questo ci saremo anche liberati dalle forme più grossolane definite dallo Svatantrika e dalle [scuole] inferiori.

Dal punto di vista Prasangika, l’oggetto da confutare è lo stesso per le persone e per i fenomeni; non c’è alcuna differenza nella sottigliezza della vacuità delle persone o dei fenomeni. Se non siamo in grado per prima cosa di eliminare l’afferrarsi all’esistenza autostabilita dei fenomeni, nello specifico gli aggregati, non saremo in grado di bloccare il nostro afferrarsi all’identità delle persone. Così, secondo il Prasangika, l’afferrarsi all’esistenza autostabilita dei fenomeni è inclusa come un’oscurazione emotiva che previene la liberazione.

Nei Settanta Versi sulla Vacuità (sTong-nyi bdun-cu-pa’i tshig-le’ur byas-pa, scr. Shunyatasaptati-karika), Nagarjuna chiarì che l’afferrarsi all’esistenza autostabilita dei fenomeni è il primo dei dodici anelli dell’origine dipendente, l’ignoranza: 

(8ab) I dodici anelli non sorgono (in modo indipendente) ma nascono in maniera interdipendente gli uni dagli altri.
(11) Se le variabili influenzanti (il secondo anello) non esistessero, non potrebbe esserci l’ignoranza (il primo anello), e se non ci fosse (l’ignoranza), (l’anello delle variabili influenzanti) sarebbe anch’esso qualcosa di inesistente. Siccome sono fenomeni che sono uno la causa dell’altro, non sono fenomeni che possiedono una natura autonoma (rang-bzhin).

Pertanto, abbiamo bisogno di eliminare questo afferrarsi, nonché l’ignoranza e l’ingenuità (gti-mug) di non sapere che è incorretto. Aryadeva spiegò il perché nel Trattato in Quattrocento Versi:

(VI.10) Proprio come il potere cognitivo del corpo (pervade tutto) il corpo, l’ingenuità dimora in tutte le (emozioni disturbanti). Pertanto, distruggendo l’ingenuità, tutte le emozioni disturbanti verranno distrutte.

Così, gli antidoti all'ingenuità, riferendosi all'ignoranza, sono anche antidoti a tutte le altre emozioni disturbanti. Se possiamo comprendere l’origine dipendente, allora l'ansia e tutte le altre sofferenze non sorgeranno. Pertanto, l'origine dipendente deve essere compresa fin dall'inizio.

Chandrakirti confermò questo nel testo Parole Chiarite (Tshigs-gsal, scr. Prasannapada):

Avendo (il Buddha) detto che il desiderio bramoso si deve esaurire, ciò non significa che questo causerà l’esaurimento della rabbia; e avendo detto che la rabbia si deve esaurire, ciò non significa che questo causerà l’esaurimento del desiderio bramoso. Qual è la ragione per cui, quando (il Buddha) disse che l’arroganza e così via si devono esaurire, le altre macchie non vengono distrutte semplicemente da questo? Questo, disse, è perché queste non pervadono (tutti) i fenomeni e quindi loro e il loro effetto non sono così grandi.
Ma quando disse che l’ingenuità si deve esaurire, ciò causa la distruzione, senza eccezioni, di tutte le emozioni disturbanti. I Trionfanti spiegarono che ciascuna emozione disturbante dipende dall’ingenuità. 
Cosa uno ha bisogno di vedere affinché ciò che sorge in base all’ingenuità si esaurisca (eliminandolo)? È la reale natura di ogni cosa (de-nyid). Questa reale natura di ogni cosa è diventata ben nota da Coloro Andati Beatamente come la via di mezzo (il Madhyamaka). Questo, che è accettato come la natura stessa del Dharma degli Abili, è descritto come la vacuità.

Quindi, se possiamo vedere l’origine dipendente, la nostra ingenuità non sorgerà più. Pertanto, abbiamo bisogno di comprendere l’origine dipendente fin dall’inizio. Come disse Aryadeva nel Trattato in Quattrocento Versi

(VI.11) Quando (è il caso che le cose) accadono per via dell’origine dipendente, (non possono essere veramente esistenti). Vedendo (questo), l’ingenuità non sorgerà.

I sistemi Vaibhashika e Sautrantika non parlano dell’assenza d’identità di tutti i fenomeni. Il Chittamatra ne parla, ma solo nei termini di confutare che i fenomeni esistano e siano stabiliti esternamente, in modo separato dalla mente che li conosce. Tuttavia, il Chittamatra accetta la vera esistenza della mente stabilita senza imputazioni e dei fenomeni accuratamente stabiliti. Ma come possono sostenere che alcuni fenomeni abbiano un’esistenza stabilita in modo indipendente, e altri no? Affermando questo, essi cadono in entrambi gli estremi – l’assolutismo e il nichilismo.

Nagarjuna affermò chiaramente nei Versi Radice per il Madhyamaka:

(XXIV.18) Noi dichiariamo l’origine dipendente come la vacuità. Ciò (significa) la dipendenza dall’imputazione – questa effettivamente è la via di mezzo.

Il fatto che le cose possano soltanto essere conosciute in base a nomi non è una posizione nichilista. Come proseguì Nagarjuna dicendo:

(XXIV.19) Non esiste nulla che non sorga in modo dipendente. Per via di questo, non esiste nulla che non sia vuoto.

I sistemi Vaibhashika e Sautrantika accettano l’origine dipendente soltanto in termini di fenomeni influenzati (non statici) – sorgono tutti in base a cause e condizioni. Il Chittamatra inoltre accetta l’origine dipendente in termini di interi e parti – le parti sorgono in base all’intero, e un intero sorge in base alle parti. Il Prasangika aggiunge a questo che ogni cosa sorge in base ai nomi con cui sono designati. In termini di questi tre livelli dell’origine dipendente, l’afferrarsi ad una identità dei fenomeni come qualcosa che non ha un’origine dipendente, comincia dalla visione Prasangika in giù, dal sottile al grossolano.

[Per il Prasangika, la maniera d’esistenza che confuta è quella di non sorgere in base all’etichettatura mentale – in altre parole, l’esistenza veramente stabilita. Il Chittamatra e i sistemi inferiori accettano l’esistenza veramente stabilita. Per il Chittamatra, la maniera che confuta è quella di non dipendere da parti, quindi particelle senza parti e momenti senza parti. Tutti i fenomeni, sia statici sia non statici, sorgono in base a parti. Il Sautrantika e il Vaibhashika accettano questi fenomeni senza parti. La maniera che confutano è quella che i fenomeni non statici sorgono senza dipendere da cause e condizioni. Le scuole non-buddhiste Samkhya e Yoga asseriscono che la materia primaria è statica e immutabile. Pertanto, la maniera del non sorgere dipendente che ciascun sistema di principi buddhista confuta va dal sottile al grossolano.]

La maniera in cui ciascuna di queste [modalità] di afferrarsi conosce cognitivamente i loro oggetti (’dzin-stangs), tuttavia, è lo stessa, sia che si afferrino al sé delle persone o all’identità dei fenomeni. Pertanto, l’afferrarsi all’identità dei fenomeni dà origine all’afferrarsi al sé delle persone, e ciò porta a pressanti impulsi karmici, che a loro volta provocano la rinascita che si ripete incontrollabilmente, il samsara.

Pertanto, abbiamo bisogno di vedere la seconda nobile verità, le vere origini della sofferenza, in termini delle emozioni disturbanti e degli impulsi karmici, che si basano sull’afferrarsi a un’identità (che non sorge in modo dipendente) di tutti i fenomeni, persone incluse. Pertanto, la prima nobile verità, la vera sofferenza, ha due livelli – grossolano e sottile – a seconda di quanto profondamente definiamo la seconda nobile verità in termini di tale afferrarsi e la quarta nobile verità in termini della consapevolezza discriminante opponente.

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