La relazione tra la considerazione scorretta del “non immutabile” come immutabile e della sofferenza come felicità
Abbiamo parlato della nostra considerazione scorretta delle cose che cambiano. Abbiamo preso in esame il ritenere che qualcosa – una relazione, ad esempio – duri per sempre quando invece, di fatto, avrà una fine. Poi abbiamo preso in considerazione il nostro pensiero scorretto secondo cui, finché essa dura, è immutabile e non cambia, quando invece si trasforma di istante in istante.
Il credere, da parte nostra, che la proiezione della nostra considerazione scorretta sia corretta può avere una base dottrinale. Leggiamo molte favole e vediamo film di Hollywood che ci dicono che vivremo per sempre felici e contenti, e quindi nutriamo tale aspettativa – ed è falsa. Può avere una base dottrinale, come in questo caso. D’altra parte, anche se comprendiamo che la propaganda con cui siamo stati nutriti è assurda e falsa, anche quando capiamo che la vita non è una favola, non vogliamo veramente accettarlo. Rimane in noi una considerazione scorretta che sorge spontaneamente. Se esaminiamo noi stessi, vediamo che c’è molta resistenza ad accettare quello che sappiamo essere davvero impossibile.
Dobbiamo esaminare la questione più a fondo, e ci renderemo conto che esistono altri tipi di considerazioni scorrette che, in un certo senso, si alimentano a vicenda: nutrono l’idea sbagliata di tutto come qualcosa di immutabile e non in cambiamento. Perché vogliamo considerare questa relazione come stabile, immutabile e così via? Perché la consideriamo felice: “Ho una relazione felice”, “Stare con te mi rende felice”. Il livello successivo consiste nel capire che in noi c’è la – cosiddetta – considerazione scorretta della “sofferenza come felicità”.
Che cosa significa, realmente? È in forte connessione con il processo del cambiamento. Pensiamo, ad esempio: “Tenere la mano della persona amata è felicità: mi fa sentire felice”. Ebbene, se davvero ci fa sentire felici, dovrebbe farlo per sempre. Tuttavia, se teniamo la mano di qualcuno a lungo, alla fine ci risulterà molto scomodo. Vogliamo fare qualcos’altro. Non vogliamo trascorrere i successivi vent’anni incollati alla mano dell’altra persona. E poi le nostre mani iniziano a sudare e la situazione diventa molto fastidiosa.
Ebbene, se la persona amata ci accarezza la mano o una parte del corpo, e continua a farlo per un’ora, ci farà molto, molto male: si trasformerà in dolore. Oppure, se dormiamo abbracciando una persona, e il nostro braccio la circonda, questo rapidamente si addormenterà e saremo molto, molto scomodi. Se questa è vera felicità, più a lungo teniamo il braccio in quella posizione e più questo ci dovrebbe rendere felici – ma, ovviamente, ciò non accade. Considerare ognuna di queste cose come vera felicità è una falsa concezione. Queste esperienze non costituiscono la vera felicità, perché si trasformeranno in infelicità e, naturalmente, finiranno.
Per quanto possiamo amare qualcuno, se restiamo in sua compagnia troppo a lungo, inizia a irritarci e diciamo: “Per favore, ho bisogno di stare da solo per un po’”. Non vogliamo essere seguiti anche in bagno…! Ancora una volta, potremmo avere questa idea sbagliata con una base dottrinale: ci è stato insegnato che questa è la vera felicità – “Se acquisti questa macchina sarai davvero felice”, e così via. Quindi potremmo essere nutriti con questo messaggio dalla propaganda e dalla pubblicità, oppure ciò potrebbe sorgere spontaneamente. Ciò non significa che non esista la felicità e che il Buddhismo stia affermando che tutto è miserabile e orribile. Non sta dicendo questo. Dobbiamo però capire la realtà delle cose e non esagerare. “È molto bello stare con te, ma...”.
Le cose cambiano, e possiamo goderci ciò che consideriamo felicità; tuttavia, alla fine, non riuscirà a soddisfarci. Cambierà, ci sentiremo frustrati, e così via. Ci sono anche molti altri problemi. Se abbiamo sempre qualcosa, ci annoierà. Magari il gelato mi piace molto, ma se dovessi mangiare solo quello per i prossimi anni mi stancherebbe molto. E capiterebbe a tutti. È la considerazione scorretta della “sofferenza come felicità”.
Analizziamo questo punto e dedichiamo un po’ più di tempo alla riflessione. Che cosa consideriamo veramente come “felicità?” La esageriamo? O, altrimenti, che cosa facciamo? Qual è il nostro atteggiamento nei suoi confronti? Cerchiamo di capire la connessione tra le nostre aspettative sulla felicità e l’idea sbagliata che potremmo avere rispetto alle cose come stabili e sempre uguali a sé stesse. Perché – per collegarci alla nostra discussione sulla vacuità, anche se qui non siamo ancora nell’ambito di quest’ultima – ciò che dobbiamo comprendere è l’esagerazione, e che dobbiamo eliminare proprio questo: il nostro esagerare le cose e immaginare, poi, che la realtà corrisponda a tale esagerazione.
[Meditazione.]
Discussione sulla felicità
Che cosa intendiamo per “felicità”?
Questo punto si addentra in una questione molto complicata. È: “Oh! Che meraviglia!” e, come in un film di Hollywood, andiamo a ballare per strada e a cantare delle canzoni? È un accontentarsi: “Beh, non va poi così bene ma d’accordo, me ne sto zitto e mi accontento di questo”? Qual è l’effettiva definizione di felicità? Questa è una domanda importante.
La felicità è, prima di tutto, una “sensazione”. Stiamo parlando di provare un certo livello di felicità o infelicità: questo è il modo in cui facciamo esperienza della maturazione del nostro karma – ecco una definizione o spiegazione molto interessante. Avendo agito in modo distruttivo, sperimentiamo le cose – stare con voi, parlare, vedere qualcosa, ascoltare musica – con infelicità e, come risultato di un comportamento costruttivo, ne facciamo esperienza con felicità. Questo è in generale, solo convenzionalmente, ciò cui ci riferiamo quando parliamo di sentirci felici o infelici.
La felicità viene definita come quella sensazione che, quando è da noi provata e poi cessa, vogliamo sentire nuovamente; l’infelicità come quella sensazione da cui vogliamo separarci, quando la proviamo. I traduttori tibetani hanno reso il termine sanscrito chandas, “intenzione”, come ‘dod-pa, che significa “desiderio”. Non stiamo parlando del fattore mentale del “desiderio ardente”. La parola sanscrita che viene tradotta in tibetano come “desiderio ardente”, in realtà, significa “sete”. “Devo liberarmi di questo dolore” e “Devo provare di nuovo questa felicità”.
Non stiamo parlando di questa esagerazione della felicità come la cosa più meravigliosa del mondo e dell’infelicità come la cosa più orribile. Se seguiamo il termine originale sanscrito che viene utilizzato, stiamo solo parlando di sentirci convenzionalmente “felici”. Riguardo alla felicità, sarebbe bello sperimentarla di nuovo quando cessa, e questo è ciò cui aspiriamo come nostra intenzione; e riguardo all’infelicità, vorremmo separarcene, e ambiamo a questo come nostra intenzione.
Quando parliamo della considerazione scorretta della sofferenza o dell’infelicità come felicità, si basa su un’esagerazione differente rispetto alla felicità come una cosa meravigliosa e all’infelicità come una cosa orribile. Stiamo facendo una proiezione: proiettiamo che qualunque felicità che abbiamo durerà per sempre. Ma non è così, pertanto quando cambia o finisce, ne siamo frustrati.
Ora, naturalmente, neppure l’infelicità durerà per sempre. Tuttavia, poiché preferiremmo la felicità all’infelicità, abbiamo problemi per via del nostro esagerare molto la prima. Non si tratta soltanto di esagerare un’esperienza di felicità perché potremmo ritrovarci a essere felici non molto spesso, ma di avere l’aspettativa, la speranza che, in qualche modo, “Se potessi essere sempre con la persona amata sarei felice” o “Se avessi un’enorme quantità di denaro in banca sarei felice”.
Ovviamente ci sono molte, molte cose che potremmo dire sulla felicità e sull’infelicità, su come affrontiamo queste sensazioni, e così via, ma sarà per un’altra volta.
Tutti gli esseri senzienti desiderano la felicità o avere la felicità. Ad esempio, se un animale trova del cibo per la sua prole si sente felice e “anche solo dare un boccone di cibo” produce una qualche forza positiva e si traduce in felicità. Non ci stiamo incastrando nelle nostre contaminazioni mentali, o nella mente negativa, in questa discussione sulla felicità?
Questo è il motivo per cui sto operando una differenziazione, qui. Convenzionalmente, abbiamo felicità e infelicità. Tutti vogliono essere felici; nessuno vuole essere infelice. Tuttavia qui, nel nostro tema che riguarda la considerazione scorretta, il punto è: come consideriamo la felicità? Qual è il nostro atteggiamento nei suoi confronti? Quali sono le nostre aspettative? Non dovremmo esagerarla e considerarla erroneamente come una cosa fantastica o che durerà per sempre e non darà mai insoddisfazioni o che non cambierà nell’infelicità.
Considerazione scorretta è esattamente ciò che significa il termine, alla lettera. Operiamo delle considerazioni su qualcosa in modo scorretto. Prendiamo in esame l’esempio della democrazia e della libertà, considerate da molte persone come la felicità. Ma che cosa implicano? Molte scelte: ad esempio, scegliamo ciò che ci piace. È stata condotta una ricerca al riguardo – tra i vari studi scientifici cui Sua Santità partecipa e che sponsorizza – un’indagine sulla felicità. È stato scoperto che più scelte abbiamo più siamo infelici. Se in un negozio ci sono centocinquanta diversi tipi di sapone o cereali per la colazione, andiamo lì e pensiamo: “Non so cosa scegliere” o “Non so cosa sia meglio”. Pensiamo: “Il fatto che ci siano così tante varietà dovrebbe rendermi felice: così posso avere ciò che voglio”, ma che cosa succede? Scegliamo qualcosa e poi pensiamo: “Forse quest’altra cosa sarebbe stata migliore”, e quindi non siamo mai veramente soddisfatti di ciò che abbiamo. Ne dubitiamo sempre.
È come quando ci sono seicento possibili canali diversi da guardare in televisione, e troviamo qualcosa, ma poi pensiamo: “Forse è meglio qualcos’altro”. Fondamentalmente, più scelte abbiamo e più, in realtà, siamo infelici. Ciò ha a che fare con le aspettative. Se ci sono molte scelte ci aspettiamo che qualcosa sia perfetto. Tuttavia, non c’è nulla di perfetto. Consideriamo felicità l’avere tutte queste scelte, quando in realtà è sofferenza. Andremo in guerra per portare questo modello in Paesi che non ce l’hanno – ed è assurdo. Perché? Perché abbiamo la considerazione scorretta che “questa sia la felicità”.
Nella mia vita tutto andava bene: c’era molto amore con i miei genitori e con i miei amici, e tutto ciò che desideravo diventava realtà; tuttavia, mi svegliavo ogni mattina e mi chiedevo: “Che cosa ci faccio qui?” Mi sono reso conto di possedere molti beni materiali e, però, essi non erano la felicità. E ora, anche se dovessi perdere ciò che ho, non diventerei triste. Ora è la verità che mi rende felice. La felicità è quando ho un barlume di verità, quando posso vedere un po’ di verità nella luce.
Questo ci porta a un altro livello di discussione. Qui parliamo della cosiddetta “felicità contaminata” e “felicità non contaminata”. Quando qualcosa è contaminato, è mescolato con confusione, con una certa inconsapevolezza di come effettivamente esiste. La felicità contaminata sarà insoddisfacente, alla fine, e costituirà un grosso problema. Tuttavia, può esserci anche felicità che non si mescola a questa confusione, non sorge dalla confusione e non crea maggiore confusione.
Se parliamo di felicità duratura, questa deriva da una separazione dalla confusione, da ciò che è solitamente tradotto come “ignoranza” o “inconsapevolezza”. È simile a una sensazione di sollievo, come quando ci sfiliamo delle scarpe strette: essere separati da quella restrizione è felicità. Ora, non stiamo parlando di una separazione temporanea. Non è come mangiare ed essere temporaneamente separati dalla fame, che tornerà. Non stiamo parlando di questo: ciò è la felicità problematica di cui parlavo. Stiamo invece parlando di quando la nostra confusione, la nostra inconsapevolezza e tutto il resto se ne saranno andati per sempre: non torneranno mai più. Questa è una felicità duratura. È diverso: stiamo parlando di un altro livello.
La felicità nel vedere “la verità” è certamente qualcosa di cui si parla nel Buddhismo. Tuttavia, bisogna andare molto in profondità per poter pensare di aver capito la verità; noi, invece, non siamo andati sufficientemente a fondo, e quindi talvolta siamo molto, molto delusi e frustrati. Questo è un punto molto importante negli insegnamenti buddhisti: non pensare mai “ho capito a sufficienza”, fino a quando non saremo diventati un Buddha. Andiamo sempre più in profondità, sempre di più. Spesso pensiamo di aver risolto un problema, e quindi di non averlo più. Oppure pensiamo: “Se in futuro dovesse sorgere un problema, sarei in grado di affrontarlo bene”. Tuttavia, quando ciò effettivamente accade, scopriamo che non è così facile.
Prendiamoci ora qualche istante per pensare: “Abbiamo un modo falso di considerare la felicità?” Se stiamo esagerando la felicità, e quella che consideriamo tale, dobbiamo decostruirla per capire: “Beh, non è proprio così. Godiamo di ciò che abbiamo, ma ci rendiamo conto che questa non è la felicità ultima: può cambiare”, ecc. Tuttavia, cerchiamo di non essere ingenui nel pensare che questo sia facile, nella vita reale. Non lo è, perché in noi sorge spontaneamente un eccessivo afferrarci per far durare quella felicità, per farla essere la felicità ultima, e perché “davvero, davvero mi renda felice”. Agiamo in questo modo – tale afferrarsi sorge spontaneamente, in particolare quando è indirizzato alla felicità di essere con qualcuno a cui siamo attaccati.
Potremmo non provare molto attaccamento per gli oggetti materiali, ma circa gli altri e la persona che amiamo parliamo di qualcosa di molto delicato. Ora la questione inizia a farsi molto personale. “Voglio essere amato da te”. Questa è felicità? Che cos’è? Domanda interessante. Ditemi: “essere amato da te” è felicità o sofferenza? Ora stiamo parlando di un te speciale, quello che vogliamo ci ami. È felicità o sofferenza? Che cosa ne pensate?
L’amore contiene il potenziale per il rischio di una sofferenza futura. È come mangiare il fugu, il pesce palla giapponese che è velenoso e letale se preparato nel modo sbagliato.
Va bene, quindi essere amati da qualcuno – o amare qualcuno – implica il rischio del dolore quando non dovessimo più essere amati. E che dire delle aspettative che l’altro nutre, conseguenti al fatto che ci ama? Si aspetta che saremo disponibili ogni volta che lo vorrà, per esempio? Si aspetta che siamo perfetti, perfetti per lui?
Per esempio: io ero molto innamorato ma poi è finita male, e ho sofferto molto. Ma se ora ripenso all’intera storia non soffro più, perché da essa ho imparato molto.
Ciò significa che in futuro, in un’altra relazione, non ci sentiremo più feriti se essa finirà? Questo è il punto che ho sollevato prima: Quanto profondamente siamo riusciti a superare la causa del problema?
Solitamente, negli insegnamenti buddhisti si dice che c’è la sofferenza e c’è la sofferenza della sofferenza. Questo si riferisce al dolore fisico, e a quello mentale che vi si aggiunge.
È vero, esistono determinati livelli di intensità della sofferenza. Tuttavia, nell’essere amati da qualcuno, quali sono le nostre aspettative? Ci aspettiamo che l’altro esprima tale amore nel modo in cui vorremmo lo facesse? E se non lo esprimesse? Deve esprimerlo continuamente? Deve costantemente dirci che ci vuole bene, per riaffermarlo? Quanto spesso deve dircelo?
Perché, in effetti, per quanto sia bello sentirci amati da qualcuno, che cos’è esattamente? Quali sono le nostre aspettative? La maggior parte di noi sa quanto è terribile quando sentiamo che l’altra persona non ci ama più e non riceviamo più il suo amore. In che cosa consiste l’essere amati da qualcuno? Perché non conta essere amati da qualcuno cui non siamo interessati? Voglio essere amato da te – da questa persona. Essere amati da quella non è felicità, mentre essere amati da questa lo è. È strano. Essere amati dal nostro cane non è sufficiente.
A volte è sufficiente.
A volte sì. Ebbene, però: ci accontentiamo di questo? “Beh, mia madre mi ama. È tutto”. Queste sono cose su cui riflettere. Non esiste una risposta chiara e immediata, ma questi sono temi su cui dobbiamo lavorare. Ciò che vogliamo superare è la considerazione scorretta, che si basa sull’esagerazione.
Considerare l’impuro come puro
Ora, perché consideriamo lo “stare con te” felicità? Può essere a causa di un altro tipo di considerazione scorretta: la successiva considerazione scorretta che adesso vediamo consiste nel considerare qualcosa – e queste sono le parole che vengono utilizzate – di “impuro come puro”. La frase che mi piace usare per l’analisi di questo punto è: “Se è la tazza della persona che amo, è pulita; se è la tazza della donna delle pulizie, è sporca”. “Sono molto felice di condividere una tazza e una bevanda con la persona da me amata, ma non voglio condividerla con l’ubriaco per strada o con la donna delle pulizie, perché sono sporchi”. Strano, no?
“Se bacio la persona amata e le infilo la lingua in bocca, è pulita, e questa è la felicità”; tuttavia, se infilo la lingua nella bocca dell’ubriaco per strada, è felicità? È pulita? “Oh, la bocca del mio amato è pulita” e sulla base di questo ci sentiamo felici. È molto strano. Questo è un altro livello di considerazione scorretta. È molto divertente, se ci pensiamo. Va perfettamente bene infilarci il dito in bocca e pulirci i denti, o persino infilarci le dita nel naso; se però qualcun altro ci mette il dito in bocca? Il nostro dito è pulito e il suo sporco? È divertente, no? “Posso mettermi le dita nel naso, ma non ho intenzione di farlo nel naso di qualcun altro. Quello è sporco, il mio va bene”.
Il mio naso non è pulito, ma è il mio: questa è la differenza.
Oh! Questa è la differenza, quindi. È strano. Da un punto di vista oggettivo è la stessa cosa. Questo ci porta al livello successivo di considerazione scorretta, che ha a che fare con l’intero tema di “io” e “mio” – e ci arriveremo. Questi quattro tipi di considerazioni scorrette sono tutti collegati tra loro – non immutabile come immutabile, sofferenza come felicità, impuro come puro, e nessun sé esistente in modo indipendente come un sé esistente in modo indipendente.
Considerare qualcosa di sporco come pulito può avere una base dottrinale. Possiamo trarre un esempio dall’India: “Se un bramino serve il cibo con la sua mano – come fanno gli indiani – per me è qualcosa di puro; invece, se un intoccabile lo fa con la sua, è sporco. “Ciò può basarsi su una propaganda o una dottrina di questo genere, oppure potrebbe sorgere spontaneamente. Nessuno deve insegnarci che “la tazza della persona che amo è pulita e la tazza dell’ubriaco è sporca”. Questo argomento si fa interessante. Un bambino opera qualche differenziazione? Non proprio. È molto curioso: a un bambino piccolo insegniamo che cosa è sporco. Gli insegniamo che cosa è pulito? “Non metterlo in bocca, è sporco!” Gli insegniamo: “Mettilo in bocca, è pulito”?
Pensiamo ancora una volta a questo punto in relazione ai rapporti interpersonali. Possiamo affrontarlo su molti, molti livelli diversi. Da un punto di vista buddhista, questo si addentra nell’ampia questione del corpo. Consideriamo il corpo umano meraviglioso e pulito, mentre se ne rimuoviamo la pelle… è ancora meraviglioso e pulito? Se guardiamo dentro lo stomaco, è meraviglioso e pulito? Il cibo è davvero pulito e meraviglioso; se lo mettiamo in bocca e poi lo sputiamo, è ancora così pulito e meraviglioso? Ci sono molti, molti temi che sono oggetto di studio.
Ora, la conseguenza di ciò non consiste nel fatto che “considero il mio corpo negativo e orribile”, e quindi nutriamo grande avversione e odio per esso, o qualsiasi altra cosa. Non è questo il punto. Il punto non è esagerare. È importante ricordare. Una considerazione scorretta è un’esagerazione di qualcosa, trasformandola in una cosa importante e non vedendo davvero la realtà – la realtà convenzionale che è qui, ciò di cui stiamo parlando. Perché siamo così felici di stare con la persona amata? Perché siamo così felici di tenerle la mano? Perché siamo così felici di condividere il letto con lei e non con qualcun altro? Perché la consideriamo speciale. “È meraviglioso, è pulito ed è felicità”. Spero che possiate rendervi conto di come tutto ciò ci stia conducendo verso la relazione di questi fattori con la mente, con il modo in cui consideriamo le cose. Ecco dove stiamo andando.
Riflettiamo su questo per un momento, dal punto di vista della considerazione scorretta di ciò che è impuro come puro.
[Meditazione]
Avete domande?
Domande
Hai spiegato “considerare la sofferenza come felicità” e “considerare l’impuro come puro” come due passaggi distinti. Non sono in correlazione tra loro, o riguardano invece la stessa questione?
Sono in relazione tra loro. Possiamo forse trovare esempi in cui non sono necessariamente entrambi coinvolti nella stessa situazione, ma possiamo certamente pensare a una situazione in cui lo sono. Sono sdraiato a letto con la persona amata e penso che questo durerà per sempre, mentre ovviamente non è così. Posso pensare che questa sia felicità, ma, di fatto, il mio braccio si addormenta e l’altra persona è sopra di me, e voglio rigirarmi, ma se lo faccio la sveglio, e quindi mi trovo in grande imbarazzo. Oppure siamo distesi uno sopra l’altro e il partner “è molto pulito, e io sono molto felice”, ma poi iniziamo a sudare: entrambi stiamo sudando. È ancora qualcosa di felice? È ancora qualcosa di pulito? Queste cose sono in relazione l’una all’altra.
Nell’esempio del trovarsi coricati a letto con qualcuno, con una persona cara, può rientrare anche la quarta considerazione scorretta: “È con te”, quindi è speciale. Se fossi sdraiato qui con l’ubriaco o il cane sopra di me, non sarebbe la stessa cosa. Penso: “È con te, quindi è speciale, è felicità, è pulito”.
Tuttavia, queste due considerazioni non sono sempre compresenti: “È estate, e considero questo come felicità”. Ciò non è in relazione alla situazione: “L’estate è pura o impura?” È questa felicità? Ebbene, se è felicità, allora alla temperatura di 45 gradi dovrebbe essere comunque felicità; tuttavia, ovviamente non lo è. L’esempio dell’estate, dunque, non ha nulla a che fare con la coppia impuro o puro. Nel considerare l’estate felicità, dovrebbe essere felicità indipendentemente da quanto sia calda. Spesso queste due considerazioni sono compresenti, e allora abbiamo gli esempi più interessanti, in realtà, perché di solito sono i più emotivamente carichi e disturbanti e sono quelli che più implicano, in noi, l’attaccamento.
Ci sono altri esempi, oltre al corpo, per quanto riguarda puro e impuro?
“Se la mia stanza è disordinata e il letto non è stato rifatto, beh, va bene: è pulita. Tuttavia, se quella di qualcun altro è nelle stesse condizioni, in particolare quella dei miei figli, allora è sporca” e ci irrita. “Se ho indossato i miei pantaloni per una settimana, va bene, sono ancora puliti: posso ancora indossarli. Tuttavia, se sono i pantaloni che qualcun altro ha indossato da una settimana, sono sporchi. Non voglio indossarli”. Ci sono molti esempi, ma per ora credo siano sufficienti quelli menzionati.
Ci sono molte situazioni simili a queste, e spesso le diverse considerazioni scorrette delle stesse sono correlate tra loro, specialmente se si tratta di un atto compiuto da qualcuno che consideriamo speciale. “Se la persona da me amata cucina, il pasto è pulito”, ci fidiamo. Tuttavia, se lo prepara qualcun altro, beh, non ci fidiamo più. Magari non ha lavato i piatti in modo appropriato. “Se io ho lavato i piatti semplicemente sciacquandoli con acqua fredda e asciugandoli con un vecchio strofinaccio che uso da un mese, sono puliti. Se qualcun altro lo fa, sono sporchi”.
Che ne pensi di: “Se mangio a casa di mia madre, è una cosa; se mangio a casa di mia suocera, è ben diverso”?
Corretto: esattamente. Questo ristorante è pulito; quello è sporco, permanente, immutabile, ecc.
Magari è vero?
Può essere vero questa volta, magari, ma è immutabile? È sempre così? “Tutto ciò che mangio in questo ristorante mi porterà felicità?” Penso che sia davvero divertente perché possiamo rendercene conto. Vado in questo ristorante: non mi piacciono troppe opzioni. Se sono troppe, mi danno veramente infelicità, quindi tendo a mangiare sempre la stessa cosa in uno specifico ristorante. Lì ho trovato un piatto che mi piace e lo mangio, ma una volta: “Ma tu guarda, ci hanno messo troppo sale”. Il cuoco si è dimenticato di aver messo il sale e lo ha aggiunto una seconda volta, oppure il cuoco si è ammalato e qualcun altro ha cucinato al posto suo. Tuttavia, noi ci aspettiamo che sarà sempre felicità, senza mai cambiare.
Di solito le situazioni sono molto più complesse e, anche se andiamo allo stesso ristorante, ogni giorno accadono cose diverse che influenzano la qualità della nostra esperienza. Non è troppo semplicistico limitarsi a distinguere tra puro e impuro, quando in realtà sono coinvolti molti più fattori?
Verissimo, ma qual è il punto, qui? Perché stiamo esaminando questi problemi? Perché, se ci aspettiamo che il cibo in questo ristorante sia sempre lo stesso, sempre delizioso, ci dia sempre felicità, e sia sempre pulito, sviluppiamo un grande attaccamento: “Voglio davvero andare lì”. Nutriamo una grande speranza. Tuttavia, se tale speranza o aspettativa non è soddisfatta, ci arrabbiamo molto, siamo veramente delusi e frustrati. Ecco ciò che vogliamo evitare: la sofferenza che deriva da queste aspettative, basate sulla considerazione che quel qualcosa sarà sempre così, ci darà sempre felicità, e così via. Le cose cambiano. È vero ciò che dici: cambiano.
Se a casa ho un grosso problema e prendo in considerazione l’idea di ubriacarmi o assumere della droga, pensando: “Sarà felicità”, beh, dai, non lo sarà. Il problema non sparirà soltanto perché siamo ubriachi o drogati. Tali condizioni potrebbero causare altri problemi, quindi è questa felicità? Mangiando del cioccolato mi sento davvero meglio, quando sono infelice? Quanto dura? Che cosa mi aspetto dal mangiarlo?
Può aiutare, forse. Personalmente, mi piace il cioccolato; e se sono davvero di pessimo umore, potrei mangiarne un pezzetto, ad esempio, ma da questo non mi aspetto un miracolo. Ci rendiamo conto che: “Va bene, questo potrebbe darmi una felicità momentanea, o potrebbe non farlo”, quindi: se lo fa, ne godiamo; in caso contrario, non accade e andiamo avanti. Non ingigantiamo il tutto.
Il punto è “non esagerare”. Quando esageriamo e proiettiamo qualcosa di totalmente irrealistico, come risultato avremo problemi, saremo infelici. Questo è ciò su cui verte il Buddhismo: il modo in cui superare la sofferenza. Tuttavia, qui stiamo parlando di livelli grossolani. Quando ci addentriamo nella discussione sulla vacuità andiamo sempre più nel sottile, ma prima dobbiamo affrontare questi livelli grossolani.