Identificare il falso “io”

La continuità dell’“io” convenzionale

Secondo la tradizione buddhista indo-tibetana, abbiamo un “io” convenzionale, e in realtà esso è un’astrazione: consiste in un’imputazione sul flusso di continuità, in continuo cambiamento, dei cinque fattori aggregati che costituiscono ogni momento della nostra esperienza soggettiva individuale. Questo “io” convenzionale è incluso nell’aggregato delle altre variabili influenzanti – il grande aggregato che include tutto ciò che è non statico e non negli altri, come tutte le emozioni. L’“io” convenzionale è qualcosa che cambia di istante in istante, non è statico. “Ora sto facendo questo, ora sto facendo quello”. Cambia, ovviamente, attimo dopo attimo. Inoltre può produrre degli effetti. “Posso lavare i vestiti; posso rendere felice qualcuno; posso rendere infelice qualcuno”.

Le cose possono durare per sempre o per un breve periodo. Dal punto di vista Mahayana, ogni singolo “io” convenzionale dura per sempre, senza inizio né fine. Sebbene i cinque aggregati di un individuo possano espandersi nel corso della vita, e poi esistere principalmente in forma potenziale durante il bardo tra una vita e l’altra, la continuità di ogni mente o attività mentale individuale prosegue senza inizio né fine. Continua anche fino all’illuminazione. Vari sistemi di principi buddhisti indiani affermano che diversi livelli o aspetti della mente hanno una continuità ininterrotta che continua per sempre. Indipendentemente dal sistema che seguiamo, però, c’è sempre qualche aspetto dell’attività mentale che può fungere da base per l’imputazione “io” e, per questo, possiamo dire che l’“io” convenzionale continua per sempre.

Partecipante: Pensavo che una persona smettesse di esistere quando raggiunge il nirvana.

Ecco perché ho detto: “secondo il Mahayana”. Secondo il Theravada, e forse anche altre scuole dell’Hinayana, il continuum mentale termina con il parinirvana, dopo che si è diventati un Buddha o un arhat e si è morti. Esistono diverse teorie. In ogni caso, tale conseguimento è probabilmente molto lontano per la maggior parte di noi e quindi il nostro flusso mentale durerà ancora a lungo.

Questo significa che il karma dura per sempre?

Secondo il Mahayana, il karma può essere purificato, nel senso che può essere ripulito senza che debba maturare. Secondo il Theravada, prima di conseguire il parinirvana tutto il nostro karma maturerà, anche se in forma leggera. Nessun sistema buddhista afferma che il karma continui per sempre.

C’è una grande differenza tra il pensare che il mio flusso mentale terminerà quando diventerò un arhat e il pensare che continuerà per sempre.

Buddha ha dato molte spiegazioni diverse per soddisfare persone differenti, con mentalità differenti. E peraltro non devono necessariamente essere per persone diverse: potrebbero essere per la stessa persona, in fasi differenti della propria vita. Questo fine settimana terrò un corso che assumerà il punto di vista della tradizione indo-tibetana Mahayana. In questo sistema si afferma che ogni continuum mentale individuale continua per sempre. Naturalmente, se abbiamo l’opportunità di studiare molte diverse scuole buddhiste, ognuno di noi deve capire quale si addice al proprio attuale livello di sviluppo.

Dal punto di vista Mahayana, la presentazione Hinayana è per chi si sentirebbe molto scoraggiato al pensiero che il flusso mentale continui per sempre, e sarebbe molto più incoraggiato dal pensiero di una fine definita. I Theravadin non affermerebbero questo. Tra le varie scuole dell’Hinayana, neppure tutti i Theravadin direbbero che il flusso mentale termina con il parinirvana. Alcuni sosterrebbero che, dopo essere diventati arhat o Buddha, la qualità del continuum mentale cambia e la sua vecchia qualità cessa. Questo è certo. Tutti concorderebbero su ciò.

Però, che adottiamo la visione Hinayana o Mahayana, in entrambi i casi vogliamo raggiungere il punto in cui finisce la continuità della nostra mente quotidiana, disturbata e pazza. Non è così importante pensare all’esistenza o inesistenza di qualcosa che segua a esso: l’importante è liberarsi dell’aspetto disturbante. Come ho detto, è così lontano che, al momento, non costituisce una grande preoccupazione.

Identificare il falso “io”

In un certo senso, dal punto di vista Mahayana, in ogni individuo c’è qualcosa di eterno; tuttavia non è permanente, non è statico. Dobbiamo veramente capire di che cosa stiamo parlando qui. Quando diciamo anatma o “non sé”, quel sé è molto specifico: non si sta parlando di un sé qualsiasi. Questo sé ha una definizione, possiede determinate qualità.

Il primo livello di ciò che stiamo confutando è un sé, un falso “io”, un atman, che ha tre caratteristiche. La prima consiste nel suo essere statico (immutabile). Statico non significa eterno. Di solito è tradotto come “permanente”, ma questo termine è fuorviante e induce in confusione, specialmente qui. Statico significa che non cambia di istante in istante, non è influenzato da nulla e non può produrre alcun effetto. “Uno più uno uguale due” non cambia. È sempre lo stesso. Non può fare nulla. Questo “io” cambia di momento in momento; compie cose diverse in tempi diversi. Non è qualcosa di statico o immutabile.

La seconda caratteristica che confutiamo è la seguente: che il sé sia una cosa, ossia un monolite privo di parti temporali e di aspetti che lo costituiscano. In un certo senso, questo significherebbe che l’io sarebbe sempre la stessa identica cosa. L’“io” in questa vita sarebbe la stessa cosa rispetto all’“io” nelle mie vite passate e future, e l’“io” che è un padre sarebbe la stessa cosa rispetto all’“io” che è un figlio.

La terza caratteristica che confutiamo è la seguente: che il sé sia totalmente separato, e quindi separabile, da qualsiasi insieme di aggregati, e quindi possa volare via dopo la morte o il nirvana ed esistere per conto proprio. È perché crediamo, erroneamente, di esistere in questo modo che ci sentiamo alienati dal nostro corpo e dai nostri sentimenti. Una volta sono caduto e mi sono rotto le costole, e ho avuto la sensazione che ci fosse un piccolo “io” separato da tutta quell’esperienza e che non voleva effettivamente connettersi con ciò che stava accadendo. Ho pensato: “Oh no, non voglio fare questa brutta esperienza”. È qualcosa che capita spesso alle persone malate.

Questo tipo di “io”, con queste tre caratteristiche, non si riferisce a nulla di reale. Nella pratica della meditazione sulla vacuità diventa molto importante identificare nella nostra stessa esperienza il modo in cui sosteniamo questa visione di noi stessi. Non possiamo avanzare nella pratica se non identifichiamo in noi stessi ciò che questo significa per noi, a partire dalla nostra esperienza. Dobbiamo identificare il falso “io”, l’“io” da confutare.

Domande e dibattito circa un “io” immutabile

Riflettiamo ora ad alta voce, mentre proviamo a identificare questo falso “io”. Io parlerò di questo, ma voi pensate a quello che dico. Restiamo a un livello molto informale.

Penso che, nella maggior parte dei casi, abbiamo la sensazione di rimanere gli stessi per tutta la vita. Limitiamoci a parlare soltanto di questa vita: per quasi tutti gli occidentali, l’idea delle vite future è qualcosa con cui è un po’ difficile cominciare a lavorare.

Che cosa intendi per “identificare questo tipo di sé nella nostra meditazione”?

Il primo stadio della meditazione sulla vacuità consiste nell’identificare ciò che deve essere confutato. Il grande maestro indiano Shantideva ha scritto che se non riusciamo a vedere il bersaglio non possiamo scoccare una freccia verso di esso. Se vogliamo comprendere che la fantasia che proiettiamo su noi stessi non si riferisce a nulla di reale, dobbiamo essere in grado di vedere che cos’è quella fantasia – non soltanto a livello teorico e intellettuale.

Pensateci. Ritenete – come penso faccia la maggior parte della gente – di essere la stessa persona di quando avevate dieci anni? Per esempio: “Ero Alex quando avevo dieci anni e ora sono un Alex cinquantenne – sono la stessa persona?”.

È come un fiume: riceve molta acqua da ogni parte, ma al suo interno c’è l’acqua della sorgente originaria.

Sarebbe come pensare: “Beh, ho imparato molte lezioni – ho raccolto molta acqua – ma sono ancora ‘Alex’, un ‘Alex’ più vecchio – lo stesso fiume, di base – che ha imparato queste lezioni e avuto queste esperienze”. È quasi come se durante la nostra vita avessimo fatto un giro in un parco divertimenti e ci fosse questo “io” che è andato in giro. Vi sentite così?

Ovviamente, sarà diverso per ognuno. Dovete individuare che cosa questo significhi, a partire dalla vostra esperienza. Per quanto riguarda me stesso, per lo meno, ho la sensazione di essere cambiato in alcuni aspetti, ma di essere sempre la stessa persona per quanto riguarda altri aspetti.

Qui dobbiamo operare una distinzione. Dal punto di vista buddhista siamo individui. Non ci siamo trasformati in qualcun altro. A volte pensiamo di essere cambiati, come quando diciamo: “Da quando ho avuto un bambino, sono diventato una persona diversa”. Ma lo siamo veramente? Questo è il tipo di domanda che dobbiamo porci. Che cosa significa dire che siamo cambiati?

Il metodo buddhista non è quello di un insegnante o di un libro, che ci forniscono delle risposte alle nostre domande. Dobbiamo fare esperienza noi stessi delle cose. Se consideriamo l’esempio del Buddha stesso, come ha imparato? Vedendo una persona morta, una anziana, una malata e un monaco. Questo ha avuto un significato importante per lui. Possiamo dare suggerimenti, nel Buddhismo, ma poi dobbiamo rivolgere queste domande a noi stessi e cercare davvero di sentire qualcosa in relazione a quello che realmente significano, e non soltanto dire: “Io non la penso così” e rifiutarlo. Anche se abbiamo una certa esperienza e comprensione del Buddhismo, dobbiamo addentrarci ulteriormente nel sottile e nel profondo, e riflettere: “Penso davvero così, a un livello sottile?”. Esaminiamoci: “Ho mai pensato a me stesso come a un sé immutabile – che non cambia, non è influenzato da nulla e non influenza nient’altro? Che cosa potrebbe significare?”.

Avete mai avuto l’esperienza di trovarvi con altre persone o in mezzo alla folla, e non voler essere lì? L’esperienza di lasciare semplicemente tutto là fuori, in un certo senso, e ritirarvi in una piccola parte della vostra testa, come se in qualche modo poteste scomparire e la vostra presenza potesse non avere alcuna influenza sugli altri? Vi siete mai dissociati, semplicemente, dall’intera situazione? Qualche volta io faccio esperienza di questo. L’idea che siamo immutabili ci porta a pensare che potremmo semplicemente districarci dal processo causa-effetto, come se ciò che facciamo e diciamo non contasse più, perché ci siamo disattivati. Ad esempio, nostro figlio piange e noi siamo stanchi e non vogliamo alzarci e quindi, per un minuto, non sentiamo più il bambino piangere, come se nulla stesse accadendo. Iniziamo a esaminare dove e quando abbiamo potuto avere una simile esperienza. Di che cosa si tratta, nella mia vita?

Conosco questa esperienza, ma per me è come se esistessi a un altro livello rispetto alle persone che mi circondano.

Esattamente. È così. Dovete camminare per una strada pericolosa di notte e vi proteggete ritirandovi in voi stessi; è come se passaste a un altro livello e ci fosse un piccolo “io” prezioso che potete mantenere immune da tutto, e che non sarà influenzato da nulla. Pensiamo: “Non lascerò che io sia spaventato”, il che è davvero strano, come se ci fossero due “io”. Oppure: siamo coinvolti con qualcuno a livello emotivo, e questa persona ci lascia e ci dice cose terribili. Noi, interiormente, ci congeliamo: è come se passassimo a un altro livello ed esistessimo come un sé immutabile, non influenzato da quanto è appena accaduto.

Affinché la meditazione sulla vacuità sortisca un qualche effetto sulla nostra vita, dobbiamo essere in grado di mettere in relazione tutto ciò con la nostra esperienza personale. Altrimenti è solo un esercizio intellettuale che non va da nessuna parte.

Sembra che, al di sotto di questo livello, in noi stessi ce ne siano altri ancor più sottili, che vogliamo proteggere ancora di più, come qualcosa di molto, molto sacro, di cui non vogliamo neppure parlare.

Questo punto si avvicina a ciò di cui stiamo parlando: “C’è qualcosa di speciale qui dentro e non voglio sporcarlo. Non voglio lasciarmi coinvolgere da qualcosa con te, perché non voglio ferirmi”. È questo ciò che significa essere immutabili?

Perché non dedichiamo qualche minuto a rifletterci? Stiamo cercando esperienze in cui immaginiamo di essere in qualche modo separati da ciò che sta accadendo e non influenzati da nulla. Una volta sono stato morso da un cane e mi sono sentito così. Era come se dentro di me ci fosse un “io” che era stato violato da questa creatura. Come ha potuto, questo essere, mordere davvero “me”? Era semplicemente inconcepibile.

[Contemplazione silenziosa]

Ulteriore dibattito circa un “io” immutabile

Alcune persone stavano parlando mentre eravamo intenti a svolgere la nostra contemplazione, e ho notato che alcuni di noi si sono voltati e le hanno guardate. “Che cosa succede? Che cosa sta accadendo?” Il pensiero è questo: “Non voglio essere interrotto”, come se dentro ci fosse un “io” che non vuole essere influenzato da ciò che sta accadendo. Vogliamo mantenere l’“io” come una cosa immutabile dentro di noi, che non cambia e può semplicemente fare le sue cose senza essere influenzata da tutto il resto. Facciamo esperienza di questo tutto il tempo! Ci sono molti esempi, se iniziamo veramente a pensarci.

Esiste un qualche “io” immutabile, che non cambia di istante in istante?

No. Non c’è nulla di immutabile al di sotto del nostro “io” convenzionale. Il nostro “io” convenzionale è tutto ciò che esiste, e cambia, momento per momento. Anche se ce ne rendiamo conto, però, non vogliamo accettarlo. Per qualche istante potremmo capirlo e pensare in termini di un “io” che cambia continuamente, ma poi perdiamo questa nostra consapevolezza e vediamo le cose in modo diverso.

La vacuità è quello stato mentale in cui tutto ciò che accade dentro di me è sempre in armonia con tutto ciò che accade fuori?

Prima di tutto, lasciami chiarire una cosa: la vacuità non è uno stato mentale. Una mente che comprendesse la vacuità, però, sarebbe in armonia, sia esteriormente che interiormente: parteciperemmo pienamente a tutto ciò che accade. Ad esempio, in una situazione in cui ci siano delle persone che parlano durante la meditazione, reagiremmo pensando: “Stanno parlando. L’ho sentito. E allora?” e continueremmo la nostra meditazione. “Se altre persone qui non vogliono meditare in questo frangente, peggio per loro. Magari non avevano capito qualcosa e stavano facendo una domanda al vicino per chiarire quel punto; chi lo sa?”. In questo modo, siamo in armonia con ciò che accade e proseguiamo con la nostra meditazione. Ci mettiamo nei guai, invece, quando pensiamo a questo “io” solido e immutabile: “Questo è il mio momento sacro e speciale per meditare, io ho pagato molto per questo e ora io voglio avere il mio momento speciale! Come osi parlare e interromperMI!”.

Questo desiderio di essere in grado di isolarci da tutto e fare ciò che vogliamo senza essere influenzati da altro, come se fossimo immutabili, è la premessa o il pensiero di base per essere egoisti ed egocentrici. Quando siamo egoisti, pensiamo soltanto a noi stessi, al fatto di non essere influenzati da nient’altro di ciò che accade intorno a noi, e di non influenzarlo a nostra volta. Non ci interessa. Guardiamo soltanto a noi stessi: “Io devo essere servito per primo al ristorante. Devo ottenere questo per primo. IO, IO, IO, IO”. Questo è un “io” che è immutabile e sta fuori dal contesto di ciò che accade intorno a noi.

Questo certamente non significa che non ci si comporti in alcun modo o non si reagisca affatto a ciò che accade all’esterno…

Corretto. Questo è il motivo per cui diciamo che esiste un “io” convenzionale. Altrimenti non potremmo funzionare. In effetti, rispondiamo ancora a tutto ciò che accade.

Forse il punto essenziale è che si è davvero coinvolti quando è necessario, ma, ogni volta che le cose non sono poi così urgenti, semplicemente si passa oltre.

In un certo senso, sì. Non si prendono le cose sul personale, come un insulto personale. Non siamo il centro dell’universo.

Ho visto qualcuno che era arrabbiato e ho pensato che fosse arrabbiato con me. Magari non era così. Magari aveva qualche cosa che non andava con una scarpa…

Sì, quando ci arrabbiamo così, questo si chiama preoccupazione verso sé stessi. Proviene da questa idea sbagliata circa il modo in cui esistiamo. Pensando a noi stessi tutto il tempo, crediamo di essere il centro dell’universo e, se qualcuno ha un’espressione strana sul volto, pensiamo che sia a causa nostra. Oppure potremmo pensare: “Sono arrivato in Europa qualche giorno fa e qui le temperature sono scese qualche giorno fa, quindi devo aver portato io il freddo”. Questa è una preoccupazione narcisistica verso sé stessi.

Oppure, la cameriera porta al nostro tavolo tutti i piatti ordinati dai nostri amici e non porta la nostra pizza. Potremmo arrabbiarci molto: “Voglio la MIA pizza. Sono affamato. Tutti gli altri vengono sempre serviti, ma io non ricevo mai ciò che ho ordinato. Non le piaccio”. È qualcosa di infantile, vero? D’altra parte, se il nostro ordine richiede davvero molto tempo, non dobbiamo semplicemente starcene seduti e pensare: “Beh, che me la porti o meno è lo stesso”. Possiamo chiedere alla cameriera di controllare gentilmente il nostro ordine, ma senza arrabbiarci o prenderla sul personale. Questo è il punto: non prendere le cose sul personale.

Per la maggior parte delle persone, in particolare per i giovani, il fatto di non essere il centro dell’universo è un grande shock. I giovani – e anche alcuni anziani – si preoccupano di come appaiono, quando escono. “Oh, ho un brufolo. Non piacerò a nessuno”. La realtà è che non importa a nessuno: nessuno guarderà. Tutti badano soltanto a loro stessi; non controllano se abbiamo o meno un brufolo. Altri pensano che loro siano il centro dell’universo e che tutti li guardino. Naturalmente, però, non sfoceremo nell’estremo opposto, andando in giro nudi. Ciò che cercheremo di fare è uscire da questa preoccupazione verso noi stessi, come se fossimo il centro dell’universo.

Per le cose normali, di ogni giorno, potrebbe benissimo essere così, ma prendiamo un altro esempio, con un africano nero, in Germania, verbalmente maltrattato e magari persino buttato fuori dalla metropolitana e ferito. Questa persona inizia ad avere paura e diventa paranoica. In questo caso, non è lei a immaginare che le stia succedendo qualcosa, bensì sono la società e le persone che le fanno qualcosa. Che cosa ci sarebbe da dire a riguardo?

Ancora una volta, proveremmo a non prenderla sul personale. L’africano del tuo esempio potrebbe pensare: “Le persone in metropolitana non mi conoscono come persona. Stanno soltanto reagendo al colore della mia pelle. Io non sono semplicemente il colore della mia pelle. Non mi influenza come persona. Non implica che io sia una persona meno degna”. Naturalmente, dobbiamo fare i conti con i pregiudizi degli altri e stare attenti a come guardiamo, agiamo e così via. Se non prendiamo tutto sul personale, tuttavia, non perdiamo la nostra dignità nell’esperienza. Se dobbiamo attraversare un cortile dove un cane agitato abbaia ai passanti, possiamo prenderla sul personale: “A quel cane non piaccio!”. Oppure possiamo pensare: “Questo è un cane molto disturbato che abbaia a chiunque, e ora capita a me passare per di qua, quindi abbaia a me”. Stiamo attenti, ovviamente, ma non siamo offesi e feriti dal cane a livello personale. Penso che sia qualcosa di simile.

In realtà, potremmo fare un passo in più. Potremmo pensare, in riferimento al cane: “Forse questo cane è stato maltrattato dal suo proprietario, ed è per questo che abbaia così furiosamente a tutti quelli che passano”. Allo stesso modo: “Forse queste persone in metropolitana stanno soffrendo per via delle pressioni economiche e sono insoddisfatte della loro vita e delle conseguenze della riunificazione, qui in Germania, e quindi, a causa di ciò, sfogano la loro frustrazione su stranieri dalla pelle scura come me”. Pensando in questo modo, sviluppiamo comprensione e compassione, anziché paura e paranoia.

Domande e dibattito circa un “io” che è uno

“Uno” significa letteralmente “uno” o “identico”. Pensiamo, in qualche modo, di essere sempre la stessa cosa, indipendentemente da ciò che accade, come un monolite privo di parti? Devo dire che io spesso la penso così. Alex era in India all’inizio di questa settimana, poi Alex è stato a Praga e ora Alex è a Berlino, ma è sempre “Alex” – quest’unica cosa. È come una persona che va a vedere due film diversi o guarda anche un altro programma televisivo. È la realtà, questa? Penso che la qualità dell’essere “uno” si riferisca a un monolite privo di parti, che rimane sempre la stessa cosa.

Intuitivamente pensavo che la qualità dell’essere uno significasse che sono tutt’uno con tutto ciò che accade: che tutto è un’unica cosa.

No, è nel pensare a noi stessi, non a ciò che ci circonda.

Quindi questo significa essere uno con me stesso o all’unisono con me stesso? Ma questa è una cosa molto positiva.

Di certo non si tratta di questo. Riflettete su che cosa potrebbe significare pensare che “io” sia un monolite senza parti.

Se penso di essere uno, allora se manca una parte – come una mano o una gamba – non c’è più “io”.

Esatto. Se perdo la mano, sono ancora “io”? Se ho l’Alzheimer e perdo la memoria e la personalità, sono ancora “io”? Questo problema sorge insieme all’identificazione di “me” con alcuni aspetti della mia esperienza – per esempio, il mio corpo nel suo insieme o la mia mente nel suo insieme – e quindi al pensare che “io” sia identico a quest’unica cosa monolitica. Dopotutto, se l’“io” è senza parti, non può perderne alcuna.

Dovremmo davvero distinguere l’idea di una persona monolitica, simile a una statua di pietra, dall’idea di essere tutt’uno con i miei sentimenti? Entrambe sono illusioni, quindi perché dobbiamo operare una distinzione, qui?

Sono due questioni distinte. L’idea di essere tutt’uno con i nostri sentimenti ha a che fare con il non sentirci separati e alienati da essi. E questo è un punto diverso rispetto al concetto di un monolite senza parti che è “uno”.

Ho un piccolo problema con la parola “monolitico”: sembra un po’ statico. Per me è più una concentrazione univoca, un processo. Sembra ci sia qualcosa che è duraturo nel tempo, ma che ha tutte queste esperienze. È questo che intendi per “monolitico”? È qualcosa che attraversa la vita come un filo?

Vedremo questo più avanti. C’è una linea di ragionamento, che usiamo nella meditazione sulla vacuità, chiamata “né uno né molti”. In quel dibattito, “uno” è spiegato come segue. ”Alex” e “Alex” sono uno; ”Alex” e “Dott. Berzin” sono due. Sono diversi. Si riferiscono alla stessa persona ma non sono identici: sono parole diverse. ”Uno” significa totalmente identico, sempre.

C’è quindi una cosa dentro di me che è sacra, che è il vero “io” ed è sempre lo stesso? Le persone possono chiamarmi “Dott. Berzin” o “Alexander”: possono chiamarmi in qualunque modo. Ma, per me, io sono davvero “Alex”. È un punto interessante. Hai mai avuto questa esperienza? Io ho vari nomi. Nell’ambito professionale le persone mi chiamano in un modo, i miei amici mi chiamano in un altro, e quindi chi sono veramente? Per me, io sono davvero “Alex”. Il punto è che questa idea non è corretta. Forse ha qualcosa a che fare con la sensazione che ci siano tutti questi diversi livelli di “me”, ognuno con un nome diverso, ma che in qualche modo dentro di noi ci sia il vero “io”, come una cosa sacra e priva di queste parti aventi nomi diversi. Probabilmente è più simile a qualcosa del genere. Penso che molte persone la pensino così. È qualcosa che potete riconoscere in voi stessi?

Come ho detto, l’intera pratica della meditazione sulla vacuità è un processo. Non è sufficiente che qualcuno ci dica in una frase che cosa la vacuità significhi, così poi lo scriviamo e abbiamo finito.

Finché non abbiamo raggiunto lo stadio liberato di un arhat, sembra che ci sia sempre questa sensazione di un “io”. Questo “io” potrebbe cambiare, ma la sensazione di un “io” è sempre presente.

L’“io” convenzionale è sempre presente, certo. Ma vi aggiungiamo qualcosa e lo esageriamo. Questo è il problema. Proiettiamo su di esso uno speciale “io” che sta dentro di noi ed è sempre uno e il medesimo, senza parti.

Prendiamo in considerazione l’esperienza seguente. Diciamo: “Mi hai fatto davvero del male” come se l’altra persona avesse toccato quel punto molto profondo, in noi stessi, dove proviamo dolore. Tutte le altre cose che ci ha detto erano piuttosto sgradevoli, ma ora “è davvero arrivato a ME”. Questo è ciò di cui stiamo parlando. Siamo molto indignati: “Questo è il mio IO speciale e privato!”

In una situazione del genere, ciò che è ferito non è effettivamente qualcosa che non abbiamo mai osato guardare, qualcosa come il lato nevrotico di noi stessi, la nostra ombra? È qualcosa che si risolverebbe da sé, se fossimo in grado di guardarlo con chiarezza?

Qui dobbiamo fare attenzione. Quando la psicologia junghiana parla del nostro lato ombra, un lato negativo che di solito rimane inconscio, afferma tuttavia che questo lato oscuro è reale. Nel Buddhismo il falso “io” non è reale. C’è una grande differenza. Inoltre, diventare consapevoli dell’idea sbagliata che abbiamo di noi stessi e del modo in cui esistiamo non è sufficiente per liberarcene, sebbene sia un inizio. Dobbiamo renderci conto che tale idea sbagliata non si riferisce a nulla di reale.

Quando proviamo a guardare il nostro speciale “io” privato, perde la sua sacralità. C’è lì quindi, di fatto, qualcosa da trovare? Si tratta del cambiamento stesso?

Se stai chiedendo che cosa ci rimane dopo che ci siamo liberati del falso “io”, ci rimane un sé che cambia continuamente. Bene, e che cos’è? Tu dici “cambiamento”, ma può esserci del cambiamento senza qualcosa che stia cambiando? E come esiste quella cosa che cambia? È qualcosa di solido e rintracciabile? Oppure che cos’è? Vi invito a rifletterci.

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