Lo dzogchen a confronto con altri sistemi buddhisti

La necessità dello dzogchen

Lo dzogchen (rdzogs-chen, la grande completezza) è un sistema avanzato di pratica Mahayana che conduce all’illuminazione. Si trova principalmente nelle tradizioni Nyingma e Bon, ma compare anche come pratica supplementare in alcune tradizioni Kagyu, quali la Drugpa, la Drigung e la Karma Kagyu. Ora qui parleremo dello dzogchen così come formulato nella scuola Nyingma.

Per raggiungere l’illuminazione dobbiamo rimuovere per sempre due serie di oscuramenti:

  • oscuramenti emotivi (nyon-sgrib) – emozioni e atteggiamenti disturbanti che impediscono la liberazione;
  • oscuramenti cognitivi (shes-sgrib) – che riguardano tutti gli oggetti conoscibili e impediscono l’onniscienza.

Questi oscuramenti comportano, rispettivamente, la sofferenza dell’incontrollabile ricorrenza delle esistenze (samsara) e l’incapacità di essere di aiuto agli altri nel miglior modo possibile. Sono tuttavia passeggeri (glo-bur): semplicemente, oscurano la natura essenziale (ngo-bo) della mente e ne limitano il funzionamento. In sostanza, la mente (l’attività mentale) è naturalmente pura rispetto a tutte le contaminazioni passeggere – e questo è un aspetto importante della sua natura di Buddha.

In generale, per rimuovere entrambe le serie di oscuramenti abbiamo bisogno del bodhicitta (byang-sems) e della cognizione non-concettuale della vacuità (stong-nyid, scr. shunyata) – la naturale assenza, nella mente, di contaminazioni passeggere, e l’assenza di suoi modi impossibili di esistere (quali un suo esistere come intrinsecamente macchiata da contaminazioni). Il bodhicitta consiste in una mente e un cuore finalizzati all’illuminazione, con l’intenzione di ottenerla e quindi di beneficiare il più possibile tutti gli esseri. La rimozione dell’oscuramento richiede anche il livello di mente (o attività mentale) più consono a questa stessa rimozione, e la pratica dello dzogchen ci conduce a tale livello.

Sem e rigpa

L’attività mentale avviene su due livelli: con consapevolezza limitata (sems) e con consapevolezza pura (rig-pa). Dato che molti studenti occidentali hanno già familiarità con i termini corrispondenti in tibetano, li useremo per facilitare la discussione.

  • Sem – attività mentale limitata da contaminazioni passeggere.
  • Rigpa – attività mentale priva di tutte le macchie di oscuramento passeggere.

Il sem può essere concettuale o non-concettuale e, in entrambi i casi, è sempre contaminato. Il rigpa, invece, è esclusivamente non-concettuale; lo è in modo più puro del sem non-concettuale, e non è mai contaminato da nessuna delle due serie di oscuramenti.

Poiché l’attività mentale, sia essa limitata o pura, è naturalmente priva di contaminazioni passeggere, il rigpa è lo stato naturale del sem. Così, il rigpa, con la sua natura essenziale che consiste nell’essere privo di ogni contaminazione, può essere riconosciuto come la base di ogni istante della nostra cognizione.

Lo dzogchen è quindi un metodo di pratica che, basato sul bodhicitta e sulla cognizione non-concettuale della vacuità, ci consente di riconoscere il rigpa e rimanere per sempre al suo livello di attività mentale, libera da ogni oscuramento. In questo modo, nel rigpa diventa pienamente operativa la “grande completezza” (dzogchen) di tutte le qualità illuminanti per il beneficio degli altri.

Equivalenze nei sistemi non-dzogchen

I sistemi non-dzogchen della scuola Gelug, Sakya e Kagyu analizzano tre livelli della mente o dell’attività mentale:

  1. attività mentale grossolana – cognizione sensoriale, che è sempre non-concettuale;
  2. attività mentale sottile – cognizione mentale sia concettuale che non-concettuale;
  3. chiara luce (’od-gsal), l’attività mentale più sottile alla base di tutte queste attività – esclusivamente non-concettuale, ma più sottile dell’attività mentale non-concettuale grossolana o sottile.

Per una cognizione della vacuità, i sutra e le classi inferiori del tantra utilizzano l’attività mentale sottile, mentre solo l’anuttarayoga, la classe più elevata del tantra, prevede l’accesso all’attività mentale di chiara luce e il suo utilizzo.

Parallelamente a questa presentazione, per la cognizione della vacuità, nel sistema Nyingma i sutra e le classi inferiori del tantra impiegano sem, mentre soltanto lo dzogchen prevede l’accesso al rigpa e il suo utilizzo.

I sistemi non-dzogchen spiegano che la mente più sottile, di chiara luce, si manifesta al momento della morte. Un facsimile della stessa si manifesta per un istante quando facciamo esperienza dell’orgasmo, dell’addormentamento, dello svenimento, dello starnuto e dello sbadiglio. In tali momenti, i venti-energia (rlung, scr. prana, “lung”) più grossolani che supportano l’attività mentale grossolana e sottile cessano temporaneamente (si dissolvono), in tal modo interrompendo momentaneamente questi due livelli di attività mentale e consentendo al livello di chiara luce di funzionare.

Per ottenere un controllo stabile dell’attività mentale di chiara luce, tuttavia, è necessario accedere a tale livello in meditazione. Raggiungiamo questo obiettivo mediante le pratiche dello stadio completo dell’anuttarayoga (rdzogs-rim, stadio di completamento), che consistono nel lavorare con il sistema energetico sottile del corpo per dissolvere i venti-energia. Come causa di una buona riuscita nello stadio completo, immagineremo il processo di dissoluzione durante lo stadio di generazione (bskyed-rim), che è modellato sugli stadi di morte, bardo e rinascita.

Con i metodi dello dzogchen riconosciamo l’attività mentale più sottile – il rigpa, in questo caso – e ne abbiamo accesso senza avere bisogno della dissoluzione dei venti-energia quale metodo perché questo possa accadere. Ma come possiamo riconoscere il rigpa?

La definizione di mente

Mente, nel buddhismo, indica l’attività mentale, non una “cosa” quale agente di quell’attività o uno “strumento” che un “io” usa per impegnarsi in essa. La definizione di mente descrive l’attività da due punti di vista – pertanto, i due aspetti della descrizione sono funzioni simultanee, non sequenziali:

  1. l’attività mentale del produrre o del dare origine (‘char-ba) ad apparenze cognitive (snang-ba);
  2. l’attività mentale dell’impegnarsi (‘jug-pa) cognitivamente nelle apparenze cognitive.

Il primo aspetto è solitamente tradotto come chiarezza (gsal) e il secondo come consapevolezza (rig).

Le apparenze cognitive non si riferiscono alle apparenze di cose “là fuori”, che possiamo o non possiamo notare e conoscere. Si riferiscono a come esse appaiono “alla mente” quando le conosciamo. In un certo senso, sono come ologrammi mentali. Ad esempio, in una cognizione non-concettuale sensoriale quale il vedere compaiono forme colorate, che sono semplicemente rappresentazioni mentali (snang-ba, parvenze mentali) o derivati mentali (gzugs-brnyan, riflessi mentali) di un istante di forme colorate. Nella cognizione concettuale appare una rappresentazione mentale dell’oggetto convenzionale – come una mano, ad esempio – le cui forme colorate di quel momento sono gli oggetti del senso della vista. La sequenza delle rappresentazioni mentali di una mano che ogni secondo è un centimetro più a destra ci appare come movimento. In altre parole, le apparenze cognitive esistono unicamente nel contesto dell’attività mentale. Non necessariamente sono chiare o a fuoco.

Inoltre, le apparenze cognitive non si riferiscono semplicemente alle immagini che appaiono “nella mente” quando conosciamo gli oggetti visibili con i nostri occhi. Si riferiscono anche alle apparenze cognitive o alle insorgenze (shar-ba) di suoni, odori, sapori, sensazioni fisiche, pensieri, emozioni e così via. Dopotutto, è l’attività mentale che fa sorgere una sequenza di suoni di consonanti e vocali come parole e frasi.

Si noti che le espressioni “things appear to the mind” (“le cose appaiono alla mente”) o “in the mind” (“nella mente”) sono semplicemente modi di parlare specifici della lingua inglese (e italiana, n.d.t.) e riflettono un concetto dualistico della mente, totalmente diverso dal modello buddhista.

L’impegnarsi cognitivamente con le apparenze cognitive può avvenire in qualsiasi modo: vedendole, udendole, pensandole o sentendole, e non ha bisogno di essere cosciente o con comprensione. Può includere l’ignorare qualcosa e l’essere confusi al riguardo.

La definizione aggiunge anche la parola soltanto (tsam): essa implica che l’attività mentale avvenga senza che un agente concreto, un “io”, la faccia accadere. Ciò implica anche che le contaminazioni passeggere non siano la caratteristica peculiare di tale attività. La natura superficiale (kun-rdzob, convenzionale) dell’attività mentale si limita a produrre le apparenze cognitive e impegnarsi in esse; la sua natura più profonda (don-dam, ultima) è la sua vacuità.

Inoltre, l’attività mentale è individuale e soggettiva. La mia visione di un’immagine e la mia sensazione di felicità non sono le vostre. Oltre a ciò, il buddhismo non afferma una mente universale di cui tutti facciamo parte, cui tutti possiamo accedere o con cui i nostri continua mentali (flussi mentali) si fondono quando conseguiamo la liberazione o l’illuminazione. Anche quando è illuminato, il continuum mentale di ogni Buddha conserva la sua individualità.

Le differenze tra mahamudra e dzogchen

La natura dell’attività mentale rimane la stessa a livello grossolano, a quello sottile e al più sottile, quello di chiara luce. La pratica di mahamudra (phyag-chen, grande sigillo), che si trova nelle tradizioni Kagyu, Sakya e Gelug/Kagyu, si concentra su tale natura. Le tradizioni Kagyu e Gelug/Kagyu hanno livelli di pratica sia di sutra che di anuttarayoga tantra, mentre la Sakya solo di anuttarayoga. In altre parole, il mahamudra Sakya si concentra solo sulla natura dell’attività mentale di chiara luce, mentre le altre due tradizioni includono anche l’attenzione alla natura degli altri livelli di attività mentale.

Il rigpa ha la stessa natura dei tre livelli di attività mentale analizzati dalle scuole non-dzogchen. La pratica dzogchen, tuttavia, è eseguita esclusivamente al livello più elevato del tantra e ha a che fare solo con il livello più sottile dell’attività mentale. Inoltre, lo dzogchen non si concentra soltanto sulla natura convenzionale e più profonda del rigpa, ma anche sui suoi vari aspetti e le sue diverse sfaccettature.

Le differenze tra rigpa e chiara luce

Inoltre, il rigpa non è un esatto equivalente della chiara luce. Piuttosto, è una sua parte.

Diversi gradi di non-contaminazione

  • Il livello della mente di chiara luce è naturalmente privo di livelli più grossolani di attività mentale, quelli in cui si verificano la cognizione concettuale e le contaminazioni passeggere delle emozioni e degli atteggiamenti disturbanti. Prima dell’illuminazione, però, l’attività mentale di chiara luce non è priva delle abitudini dell’afferrarci alla vera esistenza, che possono essere designate o etichettate su di essa. Quando la chiara luce è manifesta, tuttavia, queste abitudini non fanno sì che l’attività di chiara luce crei apparenze discordanti (duali) di vera esistenza (gnyis-snang), né le impediscono di conoscere le due verità simultaneamente (apparenze e vacuità) – sebbene tali abitudini lo facciano quando i livelli della mente più grossolani sono attivi.
  • Il rigpa, d’altro canto, è privo persino delle abitudini dell’afferrarci alla vera esistenza. È lo stato naturale della mente, totalmente incontaminato.

La differenza in termini di riconoscibilità

L’attività mentale di chiara luce e il rigpa sono simili per quanto concerne il fatto che, mentre sono in funzione, i livelli più grossolani dell’attività mentale non funzionano.

  • Accedere alla mente di chiara luce e riconoscerla richiede un arresto attivo dei livelli più grossolani dell’attività mentale, mediante la dissoluzione dei venti-energia che supportano quei livelli.
  • Il rigpa è riconoscibile senza che, come metodo per riconoscerlo, si debbano attivamente arrestare i livelli più grossolani dell’attività mentale e del vento-energia. Una volta riconosciuto il rigpa e avuto accesso a esso, tuttavia, i livelli più grossolani smettono automaticamente di funzionare.

La differenza in termini di profonda auto-consapevolezza 

  • I sistemi non-dzogchen, in particolare quello Gelug, differenziano la chiara luce che è oggetto (yul) dalla chiara luce cognitiva (yul-can, soggetto). La chiara luce che è oggetto è l’effettiva natura vuota (chos-nyid) della chiara luce, mentre la chiara luce cognitiva è l’attività mentale stessa della chiara luce, un fenomeno avente come sua natura (chos-can) la chiara luce che è oggetto.

    L’attività mentale della chiara luce non è necessariamente consapevole della propria natura vuota; un esempio di ciò è la mente di chiara luce sperimentata al momento della morte ordinaria. Anche quando, come spiega il maestro Gelug del XV secolo Kedrub Norzang-gyatso (mKhas-grub Nor-bzang rgya-mtsho), l’attività mentale di chiara luce dà naturalmente origine a un aspetto cognitivo simile a quello che sorge nella cognizione non-concettuale della vacuità, in ogni caso tale aspetto non sorge in modo automatico con una comprensione della vacuità – come anche nel caso della morte ordinaria. Inoltre, anche quando la profonda auto-consapevolezza (rang-rig ye-shes) della propria natura vuota è presentata come una qualità naturale della chiara luce, come nei sistemi Sakya e Kagyu, essa non è sempre operativa – come nel caso della morte ordinaria. Pertanto, la pratica dell’anuttarayoga mira a raggiungere, in meditazione, una chiara luce cognitiva che sia pienamente consapevole della propria natura – di chiara luce che è oggetto.
  • Il rigpa, d’altra parte, è consapevole in modo innato della propria natura vuota. Quando vi accediamo, automaticamente è pienamente consapevole della sua stessa natura. In termini dzogchen, conosce il proprio volto (rang-ngo shes-pa).

Rigpa brillante e rigpa dell’essenza

Sul sentiero proviamo a riconoscere due tipi di rigpa: dapprima il rigpa brillante (rtsal-gyi rig-pa), e poi il soggiacente rigpa dell’essenza (ngo-bo’i rig-pa):

  1. rigpa brillante – l’aspetto del rigpa che attivamente dà origine ad apparenze cognitive;
  2. rigpa dell’essenza – lo spazio aperto (klong) cognitivo o la sfera (dbyings) cognitiva soggiacente, che consente l’attiva produzione e cognizione delle apparenze cognitive.

Entrambi i tipi di rigpa sono sempre rigpa – ciò significa che entrambi sono attività mentali: la consapevolezza naturalmente pura e incontaminata di qualcosa.

La relazione tra le apparenze cognitive e il rigpa

Le apparenze cognitive sono il gioco (rol-pa, manifestazione) del rigpa dell’essenza. Quando sono conosciute mediante il sem sembra che non esistano in questo modo e, dunque, sono ingannevoli.

Qui, parlare delle apparenze come del gioco di un certo tipo di attività mentale non implica che:

  • le apparenze sorgano a causa del karma accumulato dalla mente, o esistano meramente come ciò che può essere mentalmente etichettato dalla mente, come nell’utilizzo Gelug del termine gioco della mente;
  • tutti i fenomeni esistano soltanto nella mente, come nella posizione estrema del solipsismo;
  • l’apparenza cognitiva di un tavolo e la coscienza visiva dello stesso provengano dalla stessa sorgente natale (rdzas) – vale a dire, la stessa eredità karmica (sa-bon, seme, tendenza karmica) – nonostante il tavolo resti costituito di atomi e abbia una vera esistenza non designata (non sia semplicemente un tavolo immaginario), come nella spiegazione Cittamatra.

Piuttosto, significa che l’apparenza cognitiva del tavolo è qualcosa cui il rigpa dà origine per via della sua natura funzionale (rang-bzhin). In altre parole, ciò che il rigpa fa in modo naturale è creare spontaneamente (lhun-grub) apparenze cognitive; quindi è in questo senso che le apparenze cognitive sono un gioco della mente.

A differenza della formulazione Cittamatra, tuttavia, secondo lo dzogchen il tavolo ha la sua propria sorgente natale – ad esempio, il legno e gli atomi che lo compongono. Inoltre, il tavolo manca di vera esistenza non designata (bden-par ma-grub-pa). Esiste come tavolo in quanto può essere mentalmente etichettato come tavolo in modo valido. A livello ultimo, però, la sua modalità di esistenza è al di là delle parole e dei concetti, come nella spiegazione Madhyamaka non-Gelug.

La formulazione dzogchen delle apparenze come gioco della mente utilizza spesso la terminologia Cittamatra – ad esempio, parla di alaya (kun-gzhi, base di tutto) e degli otto tipi di coscienza. Tuttavia, non spiega tali fenomeni come esistenti nella stessa modalità affermata dal sistema Cittamatra. L’utilizzo di tale terminologia deriva dal fatto che Shantarakshita e Kamalashila – i primi due maestri indiani di logica buddhista che andarono a insegnarla in Tibet, e coloro che fornirono ai Nyingma la base filosofica dei sutra – insegnarono una forma di Madhyamaka che usava termini Cittamatra. La tradizione Gelug la chiama “scuola Madhyamaka Yogacara Svatantrika”.

Meditazione sulla vacuità

La natura vuota del rigpa è la sua natura essenziale (ngo-bo) ed è chiamata la sua purezza primordiale (ka-dag).

Varie tradizioni tibetane dello dzogchen, e differenti maestri all’interno di ciascuna di esse, hanno spiegato la purezza primordiale del rigpa in termini di vacuità di sé (rang-stong), vacuità d’altro (gzhan-stong) o entrambe.

  • Longchenpa (Klong-chen Rab-’byams-pa Dri-med ‘od-zer), ad esempio, non ha fatto alcun riferimento alla vacuità d’altro.
  • Ci sono due interpretazioni della posizione di Mipam (‘Ju Mi-pham ‘Jam-dbyangs rnam-rgyal rgya-mtsho), create da due ali formatesi tra i suoi discepoli. Botrul (Bod-sprul) e Kenpo Zhenga (mKhan-po gZhan-dga’) presentano Mipam come sostenitore della vacuità di sé, mentre Zhechen Gyaltsab (Zhe-chen rGyal-tshab Pad-ma rnam-rgyal) e Katog Situ (Kah-thog Si-tu) come sostenitore della vacuità d’altro. Il primo gruppo si trova principalmente nel Monastero Dzogchen (rDzogs-chen dGon-pa), mentre il secondo principalmente nel Monastero Zhechen (Zhe-chen dGon-pa). Non c’è tuttavia pervasione circa il fatto che tutti i maestri di ciascuno di questi monasteri debbano condividere questa interpretazione e sostenere la visione corrispondente.

Inoltre, hanno dato diverse definizioni di vacuità di sé e vacuità d’altro. Ci atterremo qui alle definizioni più comunemente accettate nella scuola Nyingma:

  • vacuità di sé – l'assenza di un modo impossibile di esistere, come la vera esistenza non designata e, oltre a ciò, l'esistenza che corrisponde a quanto le parole e i concetti implicano;
  • vacuità d’altro – assenza nel rigpa di tutti i livelli più grossolani di attività mentale e delle macchie di contaminazione.

La presentazione della purezza primordiale in termini di vacuità di sé è quindi più o meno equivalente alla presentazione, propria dei sistemi non-dzogchen, della chiara luce che è oggetto. La presentazione in termini di vacuità d’altro è più o meno equivalente a quella della chiara luce cognitiva. Indipendentemente dal modo in cui è presentata e dalla terminologia utilizzata, la purezza primordiale è vuota di sé e di altro.

La meditazione sulla purezza primordiale del rigpa, presentata o meno in termini di vacuità d’altro, implica la focalizzazione sul rigpa come stato cognitivo privo di tutti i livelli più grossolani e di tutte le contaminazioni passeggere. È consapevole in modo innato della propria purezza primordiale.

La meditazione sulla vacuità nello dzogchen non implica dunque la meditazione analitica sulla vacuità di sé. E questa non è implicata neppure nella meditazione non-dzogchen sulla chiara luce che è oggetto, per la quale ci limitiamo a richiamare alla mente la nostra comprensione della vacuità di sé precedentemente acquisita attraverso la meditazione analitica.

La meditazione dzogchen, tuttavia, non implica alcun tipo di focalizzazione sulla vacuità di sé del rigpa. Sebbene l’analisi della vacuità di sé includa parte dell’addestramento richiesto prima di tentare la pratica dello dzogchen, la vacuità di sé è compresa soltanto al momento della meditazione sul rigpa come parte della purezza primordiale di cui il rigpa è consapevole in modo innato. Inoltre, quando ci concentriamo sulle apparenze cognitive come sul gioco naturale del rigpa, ciò implica che abbiamo già compreso la loro vacuità di sé. Se esse sono il gioco naturale del rigpa, non possono esistere nel modo implicato dalle parole e dai concetti utilizzati per indicarle. Parole e concetti implicano che le cose esistano in modo vero e indipendente in scatole solide e fisse come “questo” e “quello”, ossia in una modalità di esistenza impossibile. Non esiste nulla del genere.

Il rigpa è completo di tutte le buone qualità

Il rigpa che è base (gzhi’i rig-pa) è la base operativa della pura consapevolezza. È non-ostruito e onnipervasivo (zang-thal), nel senso che permea tutto il sem senza ostruzioni, come l’olio di sesamo permea i semi di sesamo, nonostante il fatto che non lo riconosciamo. Pertanto, il rigpa è un aspetto della natura di Buddha e, secondo lo dzogchen, è completo di tutte le buone qualità (yon-tan, qualità di Buddha), quali l’onniscienza e la compassione onnicomprensiva. Il rigpa è analogo al sole e, proprio come questo non può esistere separatamente dalle sue stesse qualità, quali la luce e il calore, allo stesso modo il rigpa non esiste separatamente dalle qualità di Buddha.

Quando in meditazione accediamo al rigpa dell’essenza e questo diventa operativo, non dobbiamo quindi aggiungervi le qualità di Buddha. Non abbiamo bisogno di creare, in aggiunta a esso, una mente di consapevolezza onnisciente o di compassione onnicomprensiva. È naturalmente e spontaneamente (lhun-grub) lì.

Un confronto con le posizioni Gelug, Sakya e Samkhya

Le spiegazioni Gelug e Sakya della natura di Buddha affermano che ora le qualità di Buddha esistono meramente come dei potenziali (nus-pa) dell’attività mentale di chiara luce. Sono come semi, diversi dal terreno in cui si trovano. Dobbiamo coltivarli in modo che crescano.

Sebbene la scuola Samkhya – una scuola non-buddhista della filosofia indiana – non affermi la natura di Buddha o le qualità di Buddha, una presentazione di questo punto in stile Samkhya vedrebbe l'onniscienza come in fin dei conti già funzionante nell’attività mentale di chiara luce. È semplicemente non manifesta al momento presente.

La posizione dello dzogchen non è nessuna di quelle appena viste. Non possiamo dire che il rigpa, nel suo attuale stato oscurato, sia operativo come consapevolezza onnisciente. Il rigpa è attualmente oscurato da contaminazioni passeggere e fluisce insieme a un fattore di stupefazione (rmongs-cha, stupidità, abbagliamento) che sorge automaticamente (lhan-skyes). Per via dello stupore il rigpa non riconosce il proprio volto e, di conseguenza, non è operativo. Funziona invece come un alaya per le abitudini (bag-chags-kyi kun-gzhi) – consapevolezza che agisce da fondamento per le abitudini ad afferrarci alla vera esistenza, per il karma e per i ricordi.

Pertanto, lo dzogchen sottolinea l’importanza delle pratiche preliminari (sngon-’gro, “ngondro”) e del rafforzamento delle due reti che costruiscono l’illuminazione – quelle di forza positiva e di profonda consapevolezza (raccolte di merito e intuizione) – con la stessa forza con cui le tradizioni Gelug, Sakya e Kagyu non-dzogchen la enfatizzano. Lo scopo, tuttavia, non è costruire buone qualità o creare dei potenziali per queste, bensì eliminare gli oscuramenti che impediscono al rigpa di riconoscere il suo stesso volto. Il “volto” di rigpa è caratterizzato come Samantabhadra (Kun-tu bzang-po): letteralmente, del tutto eccellente. Tale riconoscimento non avverrà per conto proprio, in assenza di cause.

Il significato dell’essere permanente del rigpa 

Quando i testi dzogchen affermano che il rigpa è un fenomeno inalterato (‘dus-ma-byed, incondizionato, non-composto) e permanente (rtag-pa), dobbiamo comprenderne attentamente il significato. Inalterato, qui, significa che non è creato di nuovo ogni istante e non cresce in modo organico da qualcosa, come un germoglio da un seme. Quindi, è spontaneo (bcos-med) – non costruito o fabbricato, sotto l’influenza di cause e condizioni, come qualcosa di temporaneo e nuovo. Inoltre, il suo avere buone qualità non dipende da cause e condizioni. È permanente ma non nel senso di essere statico e non svolgere una funzione, bensì piuttosto nel senso di durare per sempre, così come le sue qualità.

In ogni momento, però, il rigpa dà spontaneamente origine a – ed è consapevole di – oggetti diversi. In questo senso è fresco e pulito (so-ma). Sebbene la sua natura non cambi mai, questi aspetti cambiano. Concentrandosi su questa caratteristica, la scuola Gelug affermerebbe che il rigpa è non-immutabile (mi-rtag-pa, impermanente). Qui in ogni caso non c’è contraddizione, perché lo dzogchen e la scuola Gelug definiscono e usano i termini permanenti e impermanenti in modo diverso.

Coloro che progrediscono per gradi e coloro per i quali accade tutto in una volta

Esistono due tipi di praticanti dzogchen: quelli che progrediscono per gradi (lam-rim-pa) e quelli per i quali accade tutto in una volta (cig-car-ba). Questa differenziazione riguarda il modo di procedere dei praticanti verso l'illuminazione, una volta realizzato il rigpa dell’essenza. In altre parole, riguarda coloro che sono diventati arya ('phags-pa, esseri altamente realizzati) con il conseguimento di una mente-sentiero che vede (mthong-lam, sentiero che vede) e del vero arresto degli oscuramenti emotivi.

  • Coloro che progrediscono per gradi procedono attraverso i dieci livelli bhumi (sa, scr. bhumi) della mente di un arya bodhisattva, uno per uno, rimuovendo gradualmente gli oscuramenti cognitivi.
  • Coloro per i quali accade tutto in una volta ottengono un vero arresto di entrambe le serie di oscuramenti, tutto in una volta con la prima realizzazione del rigpa dell'essenza. Così, diventano simultaneamente arya e Buddha.

Sebbene i testi dzogchen di solito parlino più del secondo tipo, solo una piccola parte di praticanti vi appartiene. La loro eliminazione di entrambe le serie di oscuramenti con la prima realizzazione del rigpa dell'essenza è dovuta all'enorme quantità di forza positiva (merito) che hanno accumulato nelle vite precedenti, con la pratica del bodhicitta e dello dzogchen. Tale forza positiva può anche consentire loro di procedere, più rapidamente della maggior parte dei praticanti, attraverso i vari gradi che precedono il conseguimento di una mente-sentiero che vede. Tuttavia, nessuno afferma che il raggiungimento dell'illuminazione accada senza l'accumulazione di vaste reti di forza positiva e di profonda consapevolezza, proveniente dall'intensa pratica dei preliminari, dalla meditazione e dalla condotta del bodhisattva – anche se la maggior parte di tutto ciò è avvenuta nelle vite precedenti.

Pertanto, quando i testi dzogchen si riferiscono al riconoscimento del rigpa come a ciò che recide tutto per la completa liberazione (chig-chod kun-grol, la panacea per la completa liberazione), dobbiamo comprendere correttamente questo punto. Per coloro per i quali accade tutto in una volta, la prima realizzazione del rigpa dell’essenza è sufficiente per recidere tutti gli oscuramenti per il completo raggiungimento dell’illuminazione. Ciò non significa, però, che per l’ottenimento dell’illuminazione la realizzazione del rigpa sia sufficiente di per sé, senza bisogno di alcun preliminare, come il bodhicitta o il rafforzamento delle due reti che costruiscono l’illuminazione, quale causa per raggiungere tale realizzazione.

Un confronto con l’illuminazione graduale e improvvisa, così come asserite nel buddhismo cinese

Varie tradizioni del buddhismo cinese distinguono tra illuminazione graduale e improvvisa. Le due non corrispondono alla distinzione dzogchen tra il modo di praticare di coloro che progrediscono per gradi e quello di coloro per i quali avviene tutto in una volta.

  • L’illuminazione graduale (tsen-min, cin. jianmen, 渐 门, 漸 門) implica lavorare con l’attività mentale samsarica per stadi graduali, per ottenere la liberazione dal samsara.
  • L’illuminazione improvvisa (ston-min, cin. dunmen, 顿 门, 頓 門) deriva dalla visione secondo cui è impossibile ottenere la liberazione dal samsara utilizzando l’attività mentale samsarica. Dobbiamo operare una rottura totale da quel livello e uscire da esso “all’improvviso”.

Diverse scuole Chan (giapp. Zen) in Cina sono sostenitrici dell’illuminazione improvvisa. I metodi per uscire improvvisamente dall’attività mentale samsarica includono il lavoro con il paradosso (giapp. koan) per arrestare ogni pensiero concettuale, il mero sedersi (giapp. zazen) o il semplice arresto di ogni pensiero. Lo dzogchen non utilizza nessuno di questi metodi.

Lo dzogchen spiega dal punto di vista del risultato

Secondo Jamyang Khyentse Wangpo (‘Jam-dbyangs mkhyen-brtse dbang-po), maestro Rime (non settario) dell’inizio del XX secolo, le quattro tradizioni del buddhismo tibetano possono essere differenziate in base al punto di vista da cui offrono la loro spiegazione: quello della base, del sentiero o del risultato.

  1. La tradizione Gelug spiega dal punto di vista della base – in altre parole, dal punto di vista dei praticanti ordinari. Ad esempio, tali persone sono in grado di percepire le apparenze o la vacuità soltanto separatamente, sebbene le due siano inseparabili. Pertanto, la scuola Gelug spiega le apparenze e la vacuità come le due verità, e quindi la verità più profonda è solo la vacuità di sé. Di conseguenza, la tradizione Gelug presenta lo svabhavakaya (ngo-bo-nyid sku, corpo di propria natura) di un Buddha come la vacuità della consapevolezza onnisciente di un Buddha.
  2. La tradizione Sakya spiega dal punto di vista del sentiero. Sebbene non si può dire che l’attività mentale della chiara luce al livello della base, per esempio al momento della morte, sia beata, cionondimeno è resa beata sul sentiero dell’anuttarayoga tantra. Parlando da questo punto di vista, la scuola Sakya afferma che la consapevolezza della chiara luce è naturalmente beata.
  3. Le tradizioni Nyingma e Kagyu spiegano dal punto di vista risultante di un Buddha. Ad esempio, i Buddha conoscono simultaneamente le apparenze e la vacuità in modo non-concettuale. Pertanto, Nyingma e Kagyu – e quindi dzogchen – spiegano la verità più profonda in termini di vacuità e apparenza tra loro inseparabili e, di conseguenza, presentano lo svabhavakaya come l’inseparabilità degli altri tre corpi di Buddha.

Così, quando i testi dzogchen parlano dello stato naturale oltre il karma, oltre le categorie di costruttivo e distruttivo, lo spiegano dal punto di vista risultante di un Buddha. Tale presentazione non concede ai praticanti dei livelli precedenti, che sono ancora sotto l'influenza di emozioni e atteggiamenti disturbanti, la licenza gratuita di compiere atti distruttivi: queste persone accumulano ancora karma e ne sperimentano ancora i risultati di sofferenza.

Taglio netto e salto in avanti

La letteratura dzogchen include molte discussioni sugli stadi della pratica chiamati taglio netto (khregs-chod, “tekcho”) e salto in avanti (thod-rgal, “toghel”). Sono pratiche estremamente avanzate, equivalenti alle fasi finali dello stadio completo dell'anuttarayoga tantra.

Nello stadio del taglio netto, una volta portati dai nostri maestri dzogchen a riconoscere il rigpa, siamo in grado di accedere al rigpa dell'essenza e quindi arrestare tutti i sem, poiché i venti-energia sottili si dissolvono automaticamente. In altre parole, siamo in grado di arrestare tutti i livelli più grossolani dell’attività mentale – quelli in cui hanno luogo le contaminazioni passeggere di emozioni e atteggiamenti disturbanti e la cognizione concettuale. Con ciò, otteniamo una mente-sentiero che vede e diventiamo arya. Se non siamo praticanti per i quali accade tutto in una volta, non siamo ancora in grado di rimanere per sempre al livello del rigpa dell'essenza: dopo la meditazione torniamo al sem.

Nello stadio del salto in avanti acquisiamo una maggiore familiarità con il rigpa dell’essenza. I momenti di sem sono la condizione immediatamente precedente (de-ma-thag rkyen) per la quale la nostra esperienza sarà composta dai cinque fattori aggregati (phung-po, scr. skandha). Più frequentemente e più a lungo riusciamo a rimanere con il rigpa dell’essenza, più indeboliamo la forza di una condizione immediatamente precedente per la quale faremo esperienza dei cinque aggregati.

In assenza di una forte condizione immediatamente precedente, i nostri cinque aggregati svaniscono, inclusi i nostri corpi ordinari, e sorgiamo nella forma di un corpo di arcobaleno ('ja'-lus). Ciò accade perché tra le qualità naturali del rigpa c'è quella di creare spontaneamente l'apparenza di una luce di arcobaleno dai cinque colori. 

Il corpo di arcobaleno è la causa di ottenimento (nyer-len rgyu) che si trasforma nei rupakaya (gzugs-sku, corpi di forma) di un Buddha. La causa equivalente per un rupakaya nell’anuttarayoga tantra in generale (escluso il Kalachakra) è un corpo illusorio (sgyu-lus) nel tantra padre, o un corpo di luce (‘od-lus) nel tantra madre. L’equivalente nel Kalachakra è una forma vuota (stong-gzugs). Sebbene lo dzogchen a volte usi i termini corpo di luce e forma vuota per indicare il corpo di arcobaleno, e l’anuttarayoga in generale a volte usi corpo di arcobaleno per il corpo di luce, i tipi di corpi raggiunti e i metodi per ottenerli nell’anuttarayoga in generale, nel Kalachakra e nello dzogchen rimangono distinti.

La necessità della pratica di mahayoga e anuyoga prima dello dzogchen

È impossibile raggiungere gli stadi di taglio netto e salto in avanti senza una precedente pratica di mahayoga e anuyoga – se non in questa vita, in quelle precedenti. Per questo motivo l’atiyoga, sinonimo di dzogchen, di solito appare come maha-atiyoga e indica un’unione di mahayoga e dzogchen.

Mahayoga

La pratica del mahayoga enfatizza l’equivalente dello stadio di generazione dell’anuttarayoga, in cui lavoriamo con l’immaginazione – in altre parole, in modo concettuale. Sebbene il rigpa sia al di là delle parole e dei concetti, tuttavia ci basiamo su un’idea di rigpa che utilizziamo come facsimile per rappresentare il rigpa in meditazione, prima di essere effettivamente in grado di accedervi.

Visualizziamo noi stessi come una forma di Buddha (yidam, divinità), quale ad esempio Vajrasattva. Ciò funge da causa affinché la luce di arcobaleno dai cinque colori, che è una qualità naturale del rigpa, appaia nella forma di un corpo di arcobaleno di Vajrasattva e, infine, come la rete di forme illuminanti, o rupakaya, di un Buddha. Sebbene la natura del rigpa sia quella di creare spontaneamente le apparenze con la luce di arcobaleno dai cinque colori, senza una causa precedente come modello è improbabile che essa crei l’apparenza di un rupakaya.

Inoltre, visualizziamo noi stessi come una coppia in unione, sperimentando una consapevolezza estremamente beata che sorge simultaneamente (lhan-skyes bde-ba chen-po) – una consapevolezza beata che sorge simultaneamente ad ogni istante di rigpa. Ciò funge da causa per eliminare gli oscuramenti che impediscono lo spontaneo giungere in essere della naturale qualità di beatitudine del rigpa.

Anuyoga

La pratica dell’anuyoga enfatizza l’equivalente dei gradi di pratica dello stadio completo dell’anuttarayoga tantra in generale che sono precedenti al raggiungimento dell’effettiva consapevolezza di chiara luce e di una mente-sentiero che vede. Implica dunque un lavoro con il sistema energetico sottile: con i suoi venti-energia, canali-energia e gocce-energia (rtsa-rlung-thig-le). Tale pratica, in un certo senso, “olia” il sistema energetico sottile in modo tale che sia più facile, per i venti-energia, dissolversi automaticamente nello stadio del taglio netto.

La procedura di base della meditazione dzogchen

Gli istanti di pensiero concettuale (rnam-rtog) e, in particolare, di pensiero verbale sorgono, dimorano e scompaiono simultaneamente, proprio come nel caso della scrittura sull'acqua. Non è richiesto alcuno sforzo per dissolverli, e questo è il significato del termine liberazione automatica (rang-grol, auto-liberazione). I pensieri si liberano automaticamente, nel senso che scompaiono contemporaneamente al loro sorgere. Quando dimoriamo in questo stato di simultaneo sorgere, dimorare e scomparire, dimoriamo nello “stato naturale della mente”. A volte è descritto come lo spazio tra i millisecondi di pensiero o come lo spazio aperto sottostante i pensieri.

Quando i testi spiegano che tale livello di attività mentale non opera distinzioni tra “questo” e “quello”, ciò significa che esso non fa distinzioni in un “questo” e “quello” veramente esistenti. I testi non intendono dire che questo livello di attività mentale manchi di discernimento (‘du-shes, riconoscimento) di che cosa sia qualcosa. Manca semplicemente della cognizione concettuale che etichetta attivamente qualcosa con un costrutto mentale, quale “tavolo”. Non può essere che il rigpa non conosca nulla: dopotutto, quando è completamente operativo, il rigpa è la consapevolezza onnisciente di un Buddha.

Qui la presentazione dello dzogchen non contraddice l'affermazione Prasangika- Gelug secondo cui le cose esistono convenzionalmente come “questo” o “quello” semplicemente in quanto possono essere etichettate in modo valido come “questo” o “quello”. Non esiste intrinsecamente nulla, in qualcosa, che lo renda un “questo” o un “quello” per proprio potere. Tuttavia, un oggetto può essere etichettato correttamente come “tavolo” da una cognizione valida della sua verità superficiale (convenzionale) e questo oggetto ha la capacità di svolgere la funzione (don-byed nus-pa) di un tavolo. 

Le differenze tra i metodi di meditazione dzogchen, vipassana e mahamudra in relazione al pensiero concettuale

Vipassana

La meditazione vipassana (lhag-mthong, scr. vipashyana) nella sfera del buddhismo Theravada implica il notare e l’osservare il sorgere e lo svanire degli istanti di pensiero concettuale, ma non attraverso gli “occhi” di un “io” esistente in modo indipendente quale osservatore. Mediante questa procedura ci rendiamo conto dell'impermanenza o della natura fugace del pensiero concettuale e dell’attività mentale in generale. Ci rendiamo anche conto del fatto che questa avviene senza un “io” quale agente indipendente che la osservi o la faccia accadere.

La meditazione dzogchen, al contrario, si concentra sul simultaneo sorgere, dimorare e scomparire degli istanti di pensiero concettuale – non semplicemente sul notarli o osservarli. Ciò ci permette di riconoscere innanzitutto il rigpa brillante – l’aspetto del rigpa che crea spontaneamente l’apparenza di pensieri che simultaneamente sorgono, dimorano e scompaiono –, e poi il rigpa dell’essenza – l’aspetto del rigpa che funge da spazio cognitivo alla base di ogni momento di attività mentale e che consente lo spontaneo crearsi di pensieri che simultaneamente sorgono, dimorano e scompaiono.

Oltre a ciò, la meditazione vipassana si occupa soltanto dei livelli più grossolani dell’attività mentale, mentre lo dzogchen accede al livello più sottile, il rigpa.

Mahamudra

Uno dei metodi principali della meditazione mahamudra nella tradizione Karma Kagyu consiste nel considerare gli istanti del pensiero concettuale come dharmakaya (chos-sku) – la rete della consapevolezza onnisciente di un Buddha che include ogni cosa. Se il dharmakaya è paragonato all'oceano, i momenti di pensiero concettuale sono come le sue onde. Che l'oceano sia calmo o scosso dalle onde, queste in ogni caso sono acqua. Pertanto, senza cercare consapevolmente di calmarle, ci concentriamo sull'oceano, che non è mai disturbato nelle sue profondità, per quanto grandi possano essere le onde sulla sua superficie. Di conseguenza, il processo concettuale si calma in modo naturale.

Nella tradizione Gelug/Kagyu della mahamudra consideriamo gli istanti di pensiero concettuale come nuvole passeggere che oscurano temporaneamente il cielo. Sorgono e scompaiono nel cielo, ma non sono nella sua natura.

Sia la mahamudra che lo dzogchen si occupano del livello più sottile dell’attività mentale: la mahamudra vi accede dissolvendo i venti-energia e i livelli più grossolani dell’attività mentale, mentre lo dzogchen vi accede riconoscendolo nei livelli più grossolani, ossia il sem.

Dzogchen e Chan (Zen) a confronto

  • Il Chan (giapp. Zen) è esclusivamente una pratica sutra, mentre lo dzogchen è esclusivamente tantra e, in particolare, della classe più elevata del tantra. Lo dzogchen lavora quindi con il livello più sottile dell’attività mentale, mentre il Chan lavora con i livelli più grossolani.
  • Sebbene il Chan non insegni esplicitamente che tutte le buone qualità sono complete nella mente, comunica questo punto in modo implicito, in particolare in relazione alla compassione. Il Chan riserva solo una limitata importanza alla coltivazione della compassione come metodo per eliminare gli oscuramenti che impediscono alla compassione innata di risplendere. Quando raggiungeremo lo stato naturale, la compassione vi farà automaticamente parte. Lo dzogchen, invece, insegna esplicitamente che tutte le qualità – non solo la compassione – sono complete nel rigpa e implica anche un’ampia pratica di meditazione sutra e tantra volta a coltivare la compassione.
  • La pratica del Chan non richiede una previa pratica dei preliminari comuni e non comuni, ossia studio e meditazione dei sutra e centomila ripetizioni di varie pratiche, mentre la pratica dello dzogchen richiede entrambe le serie di preliminari.
  • La pratica del Chan non richiede di aver già ricevuto un potenziamento (iniziazione), mentre la pratica dello dzogchen lo richiede.
  • Sebbene l’illuminazione necessiti del livello più sottile dell’attività mentale, il Chan non lo spiega né presenta metodi espliciti per raggiungerlo. Inoltre, non parla del sistema energetico sottile. D’altra parte, però, la concentrazione sull’area sotto l’ombelico (giapp. hara), inclusa in varie pratiche del Chan, indubbiamente fa sì che i venti-energia entrino e si dissolvano nel canale centrale, e questo dà accesso al livello più sottile. Nello dzogchen si accede al rigpa, essendo noi portati a riconoscerlo da parte dei maestri spirituali, dopo aver “oliato” il sistema energetico sottile con una previa pratica di anuyoga.
  • Il metodo del Chan, e in particolare della tradizione Rinzai, per andare oltre il processo concettuale consiste nel “dubbio profondo” – il dubitare di tutte le affermazioni concettuali – e nella pratica del koan, che spesso comporta il paradosso. Lo dzogchen arresta il processo concettuale mediante il concentrarsi sul simultaneo sorgere e scomparire dei pensieri.
  • Nel Chan, e specialmente nella tradizione Soto, la causa per realizzare un rupakaya è sedere nella perfetta postura di un Buddha. Nello dzogchen le cause sono: la natura del rigpa che consiste nel creare spontaneamente le apparenze, la caratteristica innata del rigpa che consiste nel risplendere della luce di arcobaleno dai cinque colori, e la precedente pratica del mahayoga in cui visualizziamo noi stessi come forme di Buddha. Il Chan non prevede alcuna esposizione o presentazione delle forme di Buddha.

Osservazioni conclusive

Lo dzogchen è una pratica estremamente avanzata e difficile. Quando viene descritto come senza sforzo (‘bad-med) non significa che, come principianti, non abbiamo bisogno di fare nulla – solo sederci, rilassarci, e poi accadrà tutto in un’unica volta. Senza sforzo si riferisce al fatto che automaticamente i pensieri scompaiono contemporaneamente al loro sorgere: non è necessario compiere uno sforzo per farli scomparire; cionondimeno, dobbiamo riconoscere e realizzare questo fatto. Senza sforzo si riferisce anche a quanto segue: quando realizziamo il rigpa dell’essenza, sulla base della previa pratica di mahayoga e anuyoga i venti-energia si dissolvono senza sforzo e sorge senza sforzo un’apparenza di noi stessi come corpo di arcobaleno, nell’aspetto di una forma di Buddha.

Quindi, sebbene la letteratura dzogchen parli principalmente dal punto di vista dello stadio risultante e di coloro per i quali accade tutto in una volta, prima di essere in grado di praticare lo dzogchen con successo dobbiamo accumulare le cause di una buona riuscita della pratica. In altre parole, non possiamo fare a meno di praticare i preliminari comuni e non comuni, ricevere il potenziamento, mantenere i voti appropriati e praticare una certa quantità di meditazione di mahayoga e anuyoga.

Ora, tuttavia, possiamo praticare un facsimile della meditazione dzogchen per familiarizzare con il metodo. Concentrarci sul simultaneo sorgere, dimorare e scomparire dei pensieri, a qualunque livello ci fosse possibile, è utile per superare ansia, preoccupazione, rabbia e così via. Dobbiamo però cercare di evitare di illuderci pensando che questo sia il livello effettivo e più profondo della meditazione dzogchen. Dobbiamo cercare di evitare l’errore di pensare che tutto sia già perfetto e quindi non sia necessario trasformare gli schemi distruttivi presenti nei nostri atteggiamenti o comportamenti

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