Le basi per comprendere la vacuità

Il vuoto o vacuità si riferisce al fatto che le nostre proiezioni di modi impossibili di esistere su noi stessi, sugli altri e su tutto ciò che incontriamo non corrispondono alla realtà. Non c’è mai stata e non potrà mai esserci una vera realtà corrispondente ad essi. Comprendere e meditare sulla vacuità, quindi, è la chiave per dissipare i problemi che creiamo a noi stessi se non siamo in contatto con la realtà.

Perché c’è l’ignoranza?

Le persone spesso chiedono “Perché c’è ignoranza nel mondo? Qualcuno l’ha creata? C’è perché Adamo ed Eva hanno mangiato una mela proibita da un albero o... da dove viene?”.

Nel Buddhismo diciamo che l’inconsapevolezza non ha inizio. Il motivo per cui siamo inconsapevoli e non sappiamo come esistono realmente le cose è perché il modo in cui le cose appaiono non è il modo in cui esistono. Si riferisce a cose ordinarie e convenzionali. A me, ad esempio, sembra di essere il centro dell’universo e a tutti gli altri anche sembra di essere il centro. Quando chiudi gli occhi per andare a dormire, sembra che il resto dell’universo non esista e che esisti solo tu, non è vero? Ma non è così che esiste il mondo. Tuttavia, quando crediamo che il mondo esista effettivamente in quel modo sbagliato creiamo tutti i nostri problemi, sia per noi che per gli altri.

Questo è un esempio molto semplice, ma è vero per tutto ciò che normalmente sperimentiamo. Le nostre menti fanno apparire le cose in modi molto confusi e strani e noi crediamo che siano vere. Non capiamo come esiste la realtà. Anche per gli animali è così, anche a loro sembra di essere il centro dell’universo. Non stiamo parlando di qualche errore intellettuale. Il modo in cui le cose appaiono nella nostra esperienza quotidiana non è corretto, anche per gli animali.

È possibile, però, liberarsi della confusione e dell’ignoranza che sono la causa dei nostri problemi, se ci si pensa. Non sapere come esistono le cose, o averne una comprensione errata, non può esistere nella nostra mente contemporaneamente a una comprensione totalmente corretta. Nel mezzo abbiamo l’indecisione, quando non siamo sicuri e pensiamo “Forse è così, forse è così”. Ma se siamo totalmente convinti del modo corretto in cui noi, gli altri e tutto esiste, non possiamo avere allo stesso tempo una comprensione errata e un’ignoranza. Se sai che la terra è rotonda, non penserai più che sia piatta: sai che è rotonda. Poiché la comprensione corretta può sostituire totalmente la comprensione errata fino al punto in cui non si ripresenterà mai più – perché siamo pienamente convinti che quella corretta sia giusta – allora ci siamo sbarazzati delle cause dei problemi, che non sorgeranno più. Quando pensiamo in questo modo, ci convinciamo che sia possibile liberarci effettivamente dei nostri problemi. In realtà è piuttosto importante nel Buddhismo convincersi di poter raggiungere questo obiettivo. Altrimenti perché ci stiamo provando?

I cinque fattori aggregati dell’esperienza

La confusione su di loro

La confusione fondamentale che abbiamo sulla realtà riguarda la relazione tra “me” e il corpo e la mente. Per eliminarla dobbiamo avere una chiara comprensione dei cinque fattori aggregati dell’esperienza – i cosiddetti cinque aggregati. “Aggregato” è un aggettivo che significa “costituito da molte parti”. È la nostra esperienza quotidiana momento per momento, che è composta da molte parti in continua evoluzione. A noi, però, non sembra così. Ci svegliamo la mattina e ci sentiamo depressi, per esempio, e quindi pensiamo che questo stato mentale sia solido, pesante e durerà tutto il giorno. Non siamo consapevoli del fatto che, in ogni momento, vediamo qualcosa di diverso, sentiamo qualcosa di diverso e così via. Non consideriamo cosa realmente accade in ogni momento. Se abbiamo mal di testa, sembra che non succeda nient’altro oltre al mal di testa. Questo è un altro esempio di come il modo in cui le cose appaiono non è il modo in cui esistono.

È la stessa cosa in termini di “me”. “Sono grasso”: non importa se sperimentiamo ogni genere di cose in ogni momento, ci identifichiamo con una cosa: l’essere grassi. È così che ci appare quando ci guardiamo allo specchio. Ci identifichiamo con qualche aspetto della nostra esperienza, il peso del nostro corpo. Ma in noi c’è molto di più oltre al semplice peso, non è vero? Dobbiamo comprendere tutte le cose che compongono la nostra esperienza: i cinque aggregati 

La classificazione buddhista dei fenomeni

La filosofia buddhista distingue tra cose che esistono e cose che non esistono: ciò che esiste può essere validamente conosciuto e ciò che non esiste non può essere conosciuto validamente. Le labbra del pollo non esistono, possiamo immaginare labbra umane su un pollo ma non labbra di pollo su un pollo perché non esiste una cosa del genere.

Ciò che esiste può essere suddiviso nelle due grandi categorie di “statico” e “non statico”. Questi termini sono solitamente tradotti come “permanente” e “impermanente” ma sono fuorvianti. La differenza sta nel fatto che una cosa cambi o meno mentre esiste. Potrebbe esistere per un breve periodo di tempo o per sempre. Non voglio davvero entrare negli esempi di fenomeni statici, ma in breve sono cose come le qualità matematiche, dei fatti che non cambiano mai. “Uno più uno fa due” non cambia mai.

I cinque fattori aggregati si riferiscono solo ai fenomeni non statici che compongono la nostra esperienza di momento in momento. Alcuni sono collegati al nostro continuum mentale e altri no. Esistono tre categorie fondamentali di fenomeni non statici: forme di fenomeni fisici, modi di essere consapevoli di qualcosa e variabili influenzanti che non sono nessuna di queste (variabili influenzanti non concomitanti).

Le forme dei fenomeni fisici costituiscono il primo fattore aggregato della nostra esperienza: l’aggregato delle forme che includono immagini, suoni, odori, sapori, sensazioni fisiche e così via. Ci sono anche alcune forme che non sono materiali, come gli oggetti che vediamo e sentiamo nei sogni.

Ciò che traduco come “modi di essere consapevoli di qualcosa” viene solitamente tradotto come “fenomeni mentali”, ma questa resa terminologica non è chiara. Sono modi di essere consapevoli di qualcosa: ascoltare, vedere, sentire o pensare qualcosa, essere arrabbiati, apprezzare qualcosa, ecc. Tutti questi sono modi di essere consapevoli. Sono abbastanza diversi dalla forma di un fenomeno fisico.

Quindi, ci sono cose che influenzano la nostra esperienza che non sono nessuna di queste due. Un esempio è il tempo. Il tempo passa e questo ci colpisce: invecchiamo. Ma il tempo non è nessuno dei due.

La coscienza primaria e i fattori mentali

Esistono due tipi di modi per essere consapevoli di qualcosa: coscienza primaria e fattori mentali. La coscienza primaria costituisce il secondo aggregato ed è consapevole semplicemente della natura essenziale di qualcosa come il suo essere un suono, una vista, un odore, un pensiero. Il vedere, ad esempio, riconosce semplicemente la natura essenziale di una forma come tale.

Un esempio più semplice, ma molto profondo, riguarda la conoscenza di un’arancia. Cos’è un’arancia? È una domanda interessante. È la sua forma o il suo suono che emette quando la spremi? È l’odore, il sapore o la sensazione che hai nella mano? Cos’è un’arancia? Tutto questo è in un’arancia? Con la coscienza primaria siamo consapevoli semplicemente di quale di questi campi di informazione stiamo conoscendo, se siamo nel canale della vista, dell’udito, dell’olfatto. Abbiamo a che fare con immagini, suoni, pensieri? Cosa ha a che fare con questa arancia?

Domanda: non riesco a distinguere tra la forma fisica e la consapevolezza di una forma fisica. Devo essere consapevole di qualcosa.

Questo è un ottimo punto, perché deve sempre esserci qualcosa di cui siamo consapevoli. Soggetto e oggetto, o coscienza e oggetto, sono chiamati “non duali”. Questa è una traduzione letterale e può essere fuorviante. Ciò non significa che i due siano identici. In termini molto semplici, i due sono sempre insieme, non puoi avere l’uno senza l’altro, non puoi avere un’esperienza senza sperimentare qualcosa, un pensiero senza pensare un pensiero. Sono diversi, non identici, ma sono sempre insieme.

Ora, attorno a quella coscienza primaria si concentrano tutti i fattori mentali o tipi sussidiari di consapevolezza – piacere per l’oggetto, antipatia per esso, attenzione, interesse per esso e tutte le varie emozioni possibili. E ogni tipo di coscienza primaria funziona attraverso uno specifico potere sensoriale. Anche “potere sensoriale” non è una buona traduzione. Ciò di cui stiamo parlando qui sono i sensori cognitivi e, per i cinque sensi fisici, queste sono forme di fenomeni fisici, parte dell’aggregato delle forme. Ci sono le cellule fotosensibili degli occhi, le cellule sensibili al suono delle orecchie e così via. Ogni tipo di coscienza sensoriale primaria funziona con il proprio tipo specifico di cellule sensibili. La coscienza primaria, operando attraverso le cellule sensoriali, non fa altro che accendere un canale sulla televisione.

Sentire un livello di felicità

I fattori mentali vanno insieme nel canale: una volta che siamo su un canale, dobbiamo giocare con gli altri tasti per metterlo a fuoco, regolare il volume e tutte queste altre cose. Ci sono molti fattori mentali o tipi di consapevolezza sussidiaria.

Tra i più importanti, innanzitutto, c’è la sensazione di un livello di felicità. Di solito viene tradotta come “sensazione” ma non ha nulla a che fare con le emozioni. Quando leggi la parola “sensazione” in un testo buddhista, l’unico significato che ha è “sentire un livello di felicità”. Sebbene sia solitamente tradotta come “sensazione”, non è un’emozione o un’intuizione, né una sensazione come il caldo o il freddo.

In ogni momento siamo su qualche canale: abbiamo a che fare con qualcosa, con la vista per esempio, e ciò avviene sulla base delle cellule fotosensibili degli occhi e del corpo in generale. Succede di continuo e, insieme a ciò, in ogni momento, sentiamo qualcosa sulla scala tra felice e infelice – potrebbe essere neutro, potrebbe essere qualsiasi cosa – e questo dà un tono esperienziale a ogni istante. Quel fattore mentale costituisce di per sé il terzo fattore aggregato, l’aggregato del sentire un livello di felicità.

La distinzione

Un altro importante fattore mentale è la distinzione, solitamente tradotto con “riconoscimento”, che è una traduzione totalmente fuorviante. “Riconoscimento” significa che hai visto qualcosa in precedenza, paragoni qualcosa di nuovo ad esso e quindi riconosci che la cosa nuova appartiene alla stessa categoria. Non stiamo parlando di quello.

Ad esempio, siamo sul canale della vista e vediamo un campo visivo. Per poter fare qualcosa con esso dobbiamo essere in grado di distinguere qualcosa da tutto il resto in quel campo. Devo distinguere la forma colorata della tua testa dalla forma colorata del muro dietro di te per poterti guardare, sperimentarti e avere qualche risposta emotiva nei tuoi confronti. Senza di ciò non potremmo davvero sopravvivere, non potremmo funzionare. È la stessa cosa quando si tratta di distinguere la voce di qualcuno dal rumore di fondo del traffico. Questa è “distinzione”, che è un fattore aggregato di per sé.

L’aggregato di tutto il resto

Poi c’è “tutto il resto” che non è statico, cambia continuamente e costituisce il quinto fattore aggregato. “Tutto il resto” include il prestare attenzione, interesse, rabbia, desiderio, amore, compassione – tutte le emozioni e tutto ciò che ci permette di concentrarci e così via. È una categoria vasta.

Uno di questi ultimi tre aggregati avviene per primo o tutti insieme nello stesso momento?

In realtà, tutti e cinque gli aggregati funzionano contemporaneamente. Non è che prima arriva il pensiero, poi lo noti e poi lo pensi.

I cinque fattori aggregati sono cinque cumuli o cinque sacchi, ogni momento della nostra esperienza è composto da uno o più elementi di ciascun sacco. Questi cinque sono:

  • l’aggregato delle forme, questo nostro corpo, tutte le immagini, suoni e così via
  • l’aggregato della coscienza: vedere, udire, annusare, gustare, provare una sensazione fisica e pensare
  • l’aggregato delle sensazioni – provare un livello di felicità
  • l’aggregato della distinzione
  • l’aggregato di altre variabili influenzanti a volte chiamato “l’aggregato della volizione”.

Quest’ultimo era quello a cui mi riferivo come “l’aggregato di tutto il resto”. Include un bisogno, come “Ho bisogno di grattarmi la testa”. Secondo alcuni sistemi buddhisti questo è il karma. Poiché gli impulsi o il karma sono il fattore più rilevante in quella categoria alcuni traduttori lo chiamano “aggregato delle volizioni”. Chiamarla “volontà” sarebbe troppo forte. Ma volizioni ed emozioni sono tutte in un unico grande sacco.

Identificare l’ “io” convenzionale: l’esempio di un’abitudine

Ora possiamo lavorare con questo schema dei cinque fattori aggregati della nostra esperienza. Ciò che vorremo fare è identificare l’ “io” convenzionale incluso in quest’ultimo fattore, l’aggregato di altre variabili influenzanti, e comprendere la sua relazione con tutti gli altri membri degli aggregati.

L’ “io” convenzionale è un fenomeno non statico e, tra i tre tipi di fenomeni non statici di cui abbiamo discusso, è un esempio del terzo tipo – quelli che non sono né una forma di fenomeno fisico né un modo di essere consapevoli di qualcosa. Tutti sono inclusi nell’aggregato delle altre variabili influenzanti. Qualche altro esempio di elementi di questa terza categoria di fenomeni non statici: il “tempo” o le abitudini.

Cos’è un’abitudine? Per esempio: l’abitudine di fumare sigarette, che non è l’effettivo atto fisico del fumare: quello è il fumo, non l’abitudine di fumare. L’abitudine non è il desiderio o l’impulso di fumare una sigaretta, è un modo per prendere coscienza di qualcosa: vedi la sigaretta e la vuoi.

Ma John, il fumatore, non è cosciente del suo desiderio di fumare perché in tutte le sue cellule ci sono sostanze chimiche che lo costringono a fumare.

Queste sostanze chimiche costituiscono la base fisica dell’abitudine al fumo, ma l’abitudine non sono le sostanze chimiche stesse. Una bottiglia piena di quella sostanza chimica non fumerà una sigaretta, vero? Pertanto, un’abitudine non è il suo supporto chimico e nemmeno un percorso “ben lubrificato” di impulsi neurochimici nel cervello. Anche un cervello morto che ha quel percorso non fumerà una sigaretta.

Allora, cos’è l’abitudine di fumare sigarette? C’è una sequenza di eventi simili che si ripetono frequentemente, per esempio ogni ora fumiamo compulsivamente una sigaretta e, sulla base di quella sequenza ripetitiva di eventi simili, possiamo oggettivamente dire “C’è l’abitudine di fumare”. L’abitudine al fumo è, nel linguaggio tecnico buddhista, una “imputazione” sulla base di questi eventi simili.

Che cos’è un fenomeno imputato? Un fenomeno imputato, come un’abitudine, è qualcosa che dipende da altri fenomeni come sua base per esistere e per essere validamente conosciuto. L’abitudine al fumo, ad esempio, dipende dagli atti del fumo per esistere ed essere validamente conosciuta, non esiste indipendentemente da quegli atti. Allo stesso modo, il movimento è un fenomeno imputato sulla base del fatto che un oggetto fisico si trova sequenzialmente in posizioni leggermente diverse. Non può esserci movimento senza che ci sia qualcosa che si muove.

Un’abitudine, quindi, come il movimento, non è qualcosa inventato dal pensiero concettuale. Se fermassimo ogni pensiero concettuale, ciò non farebbe cessare tutte le abitudini e i movimenti. Le abitudini, quindi, sono fenomeni non statici validamente conoscibili, influenzati da molte cose. Possono cambiare, diventare più forti o più deboli e così via. L’abitudine si trova nella terza categoria dei fenomeni non statici, la categoria “nessuno dei due”.

L’ “io” convenzionale

L’ “io” convenzionale, che sarà piuttosto importante nella nostra discussione, è un altro esempio di questa categoria di “nessuno dei due”. Ad esempio, si verifica una sequenza individuale di esperienza soggettiva di qualcosa che possiamo analizzare in termini dei cinque fattori aggregati che costituiscono ogni momento di quell’esperienza. C’è un vedere qualcuno, un sentire qualcosa, un andare qui, un fare questo, un fare quello. Tutto ciò forma una sequenza individuale di esperienza soggettiva di qualcosa, perché un momento segue l’altro. L’ “io” convenzionale è un fenomeno imputato sulla base di questa sequenza di esperienze di qualcosa. Esiste e può essere validamente conosciuto solo in dipendenza da questa base. Poiché le cose stanno così, possiamo validamente dire “Sono ‘io’ – io sto facendo questo, sto dicendo quello, sto sentendo questo”. Le nostre affermazioni non sono solo frutto della nostra immaginazione, non è che qualcun altro o nessuno lo stia facendo. Io lo sto facendo, io sto sperimentando questo.

Proprio come un’abitudine non è un diavoletto seduto nella nostra testa che dice “Fuma una sigaretta adesso”, allo stesso modo l’ “io” convenzionale non è un piccolo controllore nella nostra testa che dice “Adesso fai questo, ora fai quello”. È un’imputazione che non è né una qualche forma di fenomeno fisico né un modo di conoscere qualcosa. Il problema è che sembra che ci sia questo piccolo controllore nella nostra testa perché sentiamo una voce che dice “Ora farò questo o quello”. Ci sembra così e crediamo sia vero, ma non è così che esiste realmente.

Nel Buddhismo parliamo di un “io” convenzionale, che esiste. Noi esistiamo. Non diciamo semplicemente “Questo corpo è seduto sulla sedia” ma “Io sono seduto sulla sedia”. Convenzionalmente, siamo seduti qui e stiamo sperimentando tutto: vediamo, sentiamo e così via. Ma non c’è qualche piccolo diavolo o angelo concreto seduto nelle nostre teste che è il vero “io” che vive l’esperienza.

Naturalmente possiamo discuterne in modo molto più dettagliato, ma questa è la situazione generale. Quando pensiamo di essere come un piccolo controllore nella nostra testa, diventiamo molto consapevoli di noi stessi e iniziamo a preoccuparci di ciò che la gente pensa di “me” e a sviluppare ogni sorta di problemi nevrotici. Possiamo diventare paranoici e pensare che tutti ci guardino e ci giudichino.

Non è necessario pensare a cosa pensano gli altri di me?

Ecco perché distinguiamo tra l’ “io” convenzionale e il falso “io”. Il falso “io” è come le labbra di gallina. L’ “io” convenzionale è come il becco del pollo. Ma immaginiamo che l’ “io” convenzionale esista come un falso “io”; immaginiamo che ci siano delle labbra su questo pollo. Il falso “me” è come questo controllore nella testa, crederci è come immaginare il rossetto sul becco di una gallina. Ci diciamo “Devo essere così e devo essere così”.

Convenzionalmente, è importante ciò che gli altri pensano di noi. Come parte dell’etica buddhista ci asteniamo dal ferire gli altri perché teniamo in considerazione ciò che pensano, ciò che sperimentano, il modo in cui le nostre azioni si riflettono su di loro e così via. È importante, ha a che fare con l’ “io” convenzionale. Ma se confondiamo l’ “io” convenzionale con quello falso basiamo tutto il nostro senso di autostima su ciò che pensa l’altra persona. Ad esempio, qualcuno non ci approva e ora pensiamo di essere buoni a nulla, scende la nostra autostima e sorgono problemi psicologici. C’è una bella differenza tra i due. L’ “io” convenzionale è un po’ impersonale, se riceve critiche può imparare da esse – sempre sulla base dell’ “io” convenzionale. Se pensiamo in termini di falso “io”, prendiamo le loro critiche sul personale “Pensano che io sia una persona cattiva, che non vada bene! Non mi amano più”. C’è una grande differenza.

Ora stiamo parlando di un “io” convenzionale tra le varie cose che esistono. Ma nel Buddhismo c’è anatman, nessun sé, il che significa che non esiste assolutamente alcun “io”, nemmeno un “io” convenzionale. Come arriviamo a sostenere che, tra le altre cose esistenti, esiste un “io” convenzionale?

Questo è il malinteso più comune degli insegnamenti buddhisti sul non sé o sull’anatman. Ciò che stiamo negando è il falso “io”, non quello convenzionale. Non neghiamo che il pollo abbia un becco, neghiamo che abbia le labbra.

Breve riassunto dell’ “io” convenzionale e dei cinque aggregati

Abbiamo parlato dei cinque aggregati, i fattori della nostra esperienza, che è uno schema di classificazione di tutti i fenomeni non statici. Tutti i fenomeni non statici possono essere inclusi in cinque sacchi, i cinque aggregati, che sono solo uno schema di classificazione e non esistono concretamente da qualche parte nel cielo o trovabili nelle nostre teste. Ma uno o più oggetti di ciascuna delle cinque borse comporranno ogni momento della nostra esperienza. In ogni momento siamo su qualche canale – vedere, udire, pensare, ecc. – e distinguiamo qualche oggetto in quel campo; abbiamo a che fare con qualcosa – una vista, un suono, ecc. – e proviamo un certo livello di felicità o infelicità al riguardo. Poi abbiamo tutto il resto: ci sono delle emozioni coinvolte, un certo livello di attenzione, un po’ di interesse e tutto questo genere di cose. Anche in questo sacco di tutto il resto c’è l’ “io” convenzionale, che è un fenomeno imputato sulla base degli aggregati in continuo cambiamento di ogni momento “Sto sperimentando questo, sto vedendo questo, sto facendo questo...”.

Etichettatura mentale con categorie e designazione con parole

Le abitudini e l’ “io” convenzionale esistono effettivamente ma poiché, come il movimento, dipendono da una base di imputazione in costante cambiamento, non possiamo individuarli o conoscerli da soli. Quindi cosa sono realmente e come possiamo stabilire che esistano? In termini di etichettatura mentale con categorie e designazione con parole e nomi. Dovrei aggiungere che imputazione, etichettatura mentale e designazione sono tutte la stessa parola in sanscrito e tibetano. Per questo motivo a volte sono usati in modo intercambiabile nelle nostre lingue; ma trovo utile differenziare i tre usi del termine originale con tre espressioni diverse.

Consideriamo ancora una volta le abitudini. Abbiamo molti tipi di comportamenti ripetitivi: non solo fumiamo ripetutamente, possiamo anche fare colazione ripetutamente a una certa ora, leggere le notizie mentre mangiamo, prendere la stessa strada per andare al lavoro e così via. Sulla base di ciascuno di questi tipi di comportamento ripetitivo esiste, come fenomeno imputato, un’abitudine ad agire in quel modo. Ma cosa stabilisce che esiste una cosa, un fenomeno chiamato “abitudine”? 

Bene, c’è una categoria “abitudine” che usiamo nel pensiero concettuale e che etichettiamo mentalmente su ciascuno di questi tipi di comportamento ripetitivo, e c’è la categoria specifica “abitudine di fumare” che allo stesso modo etichettiamo mentalmente su casi individuali di fumo. Ci sono anche le parole “abitudine” e “abitudine di fumare” - con cui designiamo le categorie “abitudine” e “abitudine di fumare”. Per estensione, designiamo tutti i tipi di comportamenti ripetitivi anche con la parola “abitudine” e il fumare ripetitivo con “abitudine di fumare”. Queste sono convenzioni su cui siamo tutti d’accordo.

Allora, come possiamo stabilire che esiste un fenomeno chiamato abitudine? O più semplicemente cos’è un’abitudine? Analizziamolo in termini di designazione con le parole, in particolare le parole “abitudine di fumare”. Un’abitudine non è una parola, non è il suono delle parole “abitudine di fumare” che sono la designazione. L’abitudine al fumo non è nemmeno una delle azioni individuali del fumo. Queste azioni individuali costituiscono la base per la designazione di un’abitudine. Ma tutti sarebbero d’accordo sul fatto che, oggettivamente, abbiamo l’abitudine di fumare, nonostante il fatto che questa non sia costituita da queste parole e non sia alcuna azione individuale o insieme di azioni. Ma le parole “abitudine di fumare” si riferiscono a qualcosa sulla base di quelle azioni individuali. Si riferiscono all’abitudine reale, ma non possiamo indicarla come se fosse riscontrabile nelle parole o nelle azioni. Quindi un’abitudine è un po’ come un’illusione: non è qualcosa di concreto. È proprio ciò a cui si riferisce la parola “abitudine” sulla base di ogni momento mutevole di tipi simili di azioni ripetitive.

Ciò che dimostra l’esistenza dell’abitudine di fumare è, quindi, semplicemente il fatto che le parole “abitudine di fumare” designate sulla base del fumare ripetitivo si riferiscono a qualcosa che è concordato per convenzione e non contraddetto dalla cognizione valida. Inoltre, l’abitudine di fumare produce degli effetti: provoca ulteriori casi di fumo. Quindi, se dobbiamo dire cos’è un’abitudine, è semplicemente ciò a cui si riferisce la parola “abitudine” sulla base delle azioni ripetitive del fumo.

Applichiamo ora questa comprensione al “me” convenzionale. Abbiamo la parola “me”. Potrebbe essere ulteriormente designato con un nome, come “Alex”, ma chiamiamolo semplicemente “me”. Allora, chi sono io? Non sono la parola “me”, io non sono una parola. A cosa applichiamo la parola?  A una sequenza individuale di momenti di esperienza di qualcosa, in cui l’esperienza è composta da componenti dei cinque aggregati. C’è una sequenza di momenti in cui camminiamo, parliamo, vediamo e facciamo cose. Questa è la base per la designazione “me”. Da notare che la base deve essere appropriata e valida. Non stiamo attribuendo la parola “me” a qualcosa di completamente strano, non chiameremo “io” un razzo diretto sulla luna.

A cosa si riferisce la parola “me”? La parola si riferisce al “me” convenzionale. Ma chi o cosa è questo “me?” È qualcosa che non può essere individuato, è semplicemente ciò a cui si riferisce la parola “me” sulla base di una sequenza individuale di cinque aggregati di esperienza in continua evoluzione. Sembra che sia un piccolo controllore nella nostra testa, ma non lo è; è proprio ciò a cui si riferisce una parola sulla base di questa sequenza individuale di momenti di esperienza soggettiva di qualcosa. Quel “me” convenzionale è come un’illusione, non è la stessa cosa di un’illusione. È come un’illusione perché sembra concreto ma non lo è.

Ora, quando diciamo che l’esistenza di qualcosa è stabilita in termini di etichettatura mentale o di designazione con parole e nomi, non stiamo dicendo che qualcosa è creato da etichettatura o designazione mentale. Il bambino non esiste solo se vedo questa piccola creatura e penso o dico “piccolo”. Sia che etichettiamo attivamente questa creatura con la categoria “bambino” o la designiamo con la parola “bambino” non fa differenza. Etichettarlo o designarlo come un bambino non crea un bambino. Non è che quando nessuno lo etichetta attivamente allora non esiste.

Il bambino esiste, non lo mettiamo in dubbio. Ma cos’è un bambino e cosa stabilisce che questa piccola creatura esiste come bambino? Ciò che stabilisce la sua esistenza come bambino è che l’etichetta mentale e la designazione “bambino” applicate a una base valida per etichettarne uno, si riferiscono in realtà a qualcosa che non contraddice la convenzione o la cognizione valida. Questo è ciò che significa quando diciamo che esiste come “bambino” o come “bambina Maria” sulla base dell’etichettatura mentale. Esiste anche come “colazione” per la zanzara. La zanzara non deve necessariamente conoscere la parola “colazione”, semplicemente vede la bambina Maria come qualcosa da cui succhiare un po’ di sangue.

Il vuoto come assenza

Questo ci porta alla “vacuità”, shunyata in sanscrito, che la maggior parte delle persone chiama “vuoto”. Scusate ma il mio background è quello di traduttore e trovo che la maggior parte dei malintesi sul Buddhismo in Occidente siano dovuti ai termini di traduzione che danno idee sbagliate. “Vuoto” implica che ci sia qualcosa di trovabile presente, come un bicchiere, ma è vuoto: non ha niente dentro, è un bicchiere vuoto. Questo non è il significato secondo la visione Prasangika-ghelug. La vacuità è semplicemente la negazione di qualcosa di impossibile e non afferma l’esistenza di alcunchè, come l’esistenza di un bicchiere vuoto. Quindi, anche se “vacuità” potrebbe non essere la traduzione migliore, è più accurata di “vuoto” per una discussione prasangika. Qui non stiamo parlando del nulla; il significato della parola shunyata è molto più vicino ad “assenza” e, più specificamente, è l’assenza di modi impossibili di esistere. In sanscrito, shunyata è anche la parola per “zero”.

Innanzitutto esiste un’assenza? Sì, esiste. Possiamo vederla? Sì, possiamo vedere che non c’è alcun elefante in questa stanza, possiamo tutti vedere molto chiaramente l’assenza di un elefante. Con la vacuità, tuttavia, non ci riferiamo all’assenza di qualcosa che potrebbe esistere, come se potesse esserci un elefante nella stanza. Stiamo parlando dell’assenza di qualcosa che non esiste affatto. Possiamo anche vedere che non c’è alcun elefante rosa nella stanza, non esiste affatto. Non è mai esistito e mai esisterà. Non è che l’elefante rosa era qui, è andato nell’altra stanza e potrebbe tornare! Non è questo tipo di assenza temporanea ma è un’assenza totale, completa, come l’assenza di un elefante rosa. Non è mai stato nella stanza.

La vacuità si riferisce all’assenza di qualcosa di totalmente impossibile che non esiste affatto e non potrà mai esistere. Il concetto mentale o la fantasia con cui immaginiamo un elefante rosa esiste, però, e può farci paura. Potremmo avere paura che ci sia un elefante rosa nella stanza o un mostro. Ciò che manca è ciò a cui si riferisce la fantasia: qualcosa di reale, un vero elefante rosa o un vero mostro. Possiamo averne una falsa idea, ma non si riferisce ad alcunchè di reale: non esistono veri elefanti rosa o veri mostri.

Ma qui non stiamo parlando solo dell’assenza di qualcosa di impossibile, come un elefante rosa, ma dell’assenza di un modo impossibile di esistere. Con la vacuità non affermiamo che non ci siano mostri in questa stanza ma che la stanza non è infestata da un mostro: stiamo parlando di come esiste la stanza. Non è mai esistita con un mostro. Naturalmente, se il bambino crede che la cameretta sia infestata da un mostro, sarà molto spaventato e non riuscirà ad addormentarsi. Ma questo malinteso e la paura che lo accompagna non si riferiscono alla realtà della camera da letto. Quando accendiamo la luce possiamo mostrare al bambino che la stanza non esiste in questo modo.

Quando parliamo di vacuità, quindi, ci riferiamo a un’assenza di modi impossibili di esistere. È prolisso, ma è di questo che parla la vacuità.

C’è l’ “io” convenzionale – che esiste: è ciò a cui si riferisce la parola “io” sulla base dei fattori aggregati in continua evoluzione che compongono una sequenza individuale di esperienza delle cose momento per momento. Tuttavia noi proiettiamo o sovrapponiamo all’ “io” convenzionale l’idea sbagliata che esso esista come un falso “io”, il piccolo controllore nelle nostre teste, il che è impossibile. Questo malinteso non si riferisce a qualcosa di reale, pensiamo che questo controllore nelle nostre teste sia il vero “me”, il vero “io”. Ma non è vero perché non esiste un piccolo controllore seduto nelle nostre teste.

Ad esempio, diciamo qualcosa a qualcuno, quella persona si arrabbia e abbiamo uno scambio di parole forti. Le nostre parole originali, la reazione dell’altra persona e lo scambio verbale che ne è seguito – tutto ciò costituisce la base per etichettare la categoria “io”. Abbiamo sperimentato tutto questo. La descrizione valida di questo incidente in termini di “io” convenzionale sarebbe “Ho detto qualcosa e l’altra persona ha risposto con rabbia, e poi ci siamo scambiati parole accese”. Questo è davvero tutto quello che è successo.

Tuttavia, credendo e proiettando il falso “io” sull’ “io” convenzionale che ha partecipato a questo incidente, pensiamo “Sono un vero idiota! L’ho fatto di nuovo! Dico sempre la cosa sbagliata! Sono un tale idiota! Sono un buono a nulla!”. Ciò che manca è che questo “io” idiota sia effettivamente reale. Abbiamo il concetto di un “io” idiota e non buono – quel concetto esiste. Ma ciò a cui si riferisce quel concetto – un “io” che in realtà esiste come un vero idiota – è assente; non esiste una cosa del genere. Noi però immaginiamo che l’ “io” convenzionale esista come questo falso “io”: questo è un modo impossibile di esistere. Possiamo, convenzionalmente, dire qualcosa di stupido, ma nessuno può esistere come totalmente stupido e nient’altro.

Adesso si sta davvero allontanando da questa cosa vecchia e sconcertante che si dice nel Buddhismo, secondo cui non esiste affatto un “io”.

Il Buddhismo non dice questo. Non lo dice mai da nessuna parte.

Ma questo è ciò che sentiamo e leggiamo da generazioni. Il “me” è ciò che gli indù dicono di avere, questo vero “me” che chiamano “atman” e che i buddhisti negano.

Mi dispiace, ma penso che ci sia qualche malinteso qui. Il Buddhismo nega l’atman affermato dalle varie scuole dell’Induismo, ma non nega che esista un “io” convenzionale. Ciò è molto chiaro nei testi buddhisti. L’ “io” o “persona” convenzionale, pudgala in sanscrito, non esiste come atman, come “anima”, ma le persone esistono. Dobbiamo capire cosa ciò significa.

Per prima cosa dobbiamo avere un’idea generale di ciò che è assente e poi, una volta che smettiamo di proiettarlo, vediamo cosa resta. Poi ci rendiamo conto che, beh, non è proprio così e allora dobbiamo sbarazzarci di qualcos’altro. Lo facciamo più volte con diversi livelli di comprensione. In questo modo arriviamo a comprendere più precisamente come l’ “io” che non deve essere confutato sia come un’illusione. Tutti i buddhisti affermano che l’ “io” convenzionale è come un’illusione, non dicono che non esiste. Quando dicono “no sé” si riferiscono al falso “sé”.

 L’ “io” convenzionale che esiste dipende e viene influenzato da ciò che accade e cambia continuamente. È come un’illusione perché sembra concreto ma non lo è affatto. Ma poiché esiste qualcosa come l’ “io” convenzionale, possiamo validamente riferirci a una sequenza individuale di esperienza soggettiva delle cose come “la mia vita”. E poiché esiste qualcosa come l’ “io” convenzionale, sperimentiamo gli effetti delle nostre azioni. Se ciò non fosse vero, non ci sarebbero causa ed effetto e non importerebbe ciò che facciamo. Tutti gli insegnamenti buddhisti sull’etica e sul karma sarebbero senza senso e non è certamente così.

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