Hinayana e Mahayana a confronto

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I termini Hinayana (Veicolo minore, o Piccolo veicolo) e Mahayana (Veicolo maggiore, o Grande veicolo) hanno origine nei Prajnaparamita Sutra (I sutra sulla consapevolezza discriminante di vasta portataI sutra della perfezione della saggezza). Formano una coppia di parole piuttosto dispregiativa, che esagera il Mahayana e abbassa l’Hinayana. Poiché però i termini che si potrebbero utilizzare in alternativa a questi hanno molti altri limiti, qui userò quelli più standard.

[Vedi: I termini Hinayana e Mahayana]

L’Hinayana comprende diciotto scuole. Le più importanti, per il nostro scopo, sono il Sarvastivada e il Theravada. Il Theravada è oggi presente in Sri Lanka e nel Sud-est asiatico. Il Sarvastivada era diffuso nell’India settentrionale quando i tibetani iniziarono a viaggiare in quelle aree e il Buddhismo cominciò ad essere trapiantato in Tibet.

C’erano due principali divisioni del Sarvastivada, in base alle loro differenze filosofiche: Vaibhashika e Sautrantika. I sistemi di principi Hinayana studiati nelle università monastiche indiane come Nalanda e, successivamente, dai mahayanisti tibetani, discendono da queste due scuole. Il lignaggio dei voti monastici seguito in Tibet proviene da un’altra suddivisione del Sarvastivada: il Mulasarvastivada.

I Buddha e gli arhat

C’è una differenza piuttosto significativa tra le presentazioni Hinayana e Mahayana degli arhat e dei Buddha. Entrambe concordano sul fatto che gli arhat, o esseri liberati, sono più limitati di quanto lo siano i Buddha, o esseri illuminati. Il Mahayana formula questa differenza in termini di due insiemi di oscurazioni: quelle emotive, che impediscono la liberazione, e quelle cognitive, che impediscono l’onniscienza. Gli arhat sono liberi solo dal primo insieme, mentre i Buddha sono liberi da entrambi. Questa divisione non si trova nell’Hinayana: è una formulazione puramente Mahayana.

Per ottenere la liberazione o l’illuminazione, l’Hinayana e il Mahayana affermano che è necessaria la cognizione non concettuale della mancanza di un’impossibile “anima”. Tale mancanza è spesso chiamata “mancanza di sé”: anatma in sanscrito – la principale lingua indiana delle scritture del Sarvastivada e del Mahayana – e anatta in pali – il linguaggio delle scritture del Theravada. Le scuole Hinayana affermano tale mancanza di un’impossibile “anima” soltanto con riferimento alle persone, e non a tutti i fenomeni. Le persone non possiedono un’“anima” – un atman – che non è influenzata da nulla, priva di parti, separabile da un corpo e da una mente, e che può essere conosciuta da sola. Una siffatta “anima” è impossibile. Mediante la semplice consapevolezza che non esiste qualcosa come questo tipo di “anima” in relazione alle persone, possiamo diventare arhat o Buddha, in base alla quantità di forza positiva – il cosiddetto “merito” – che creiamo. Sviluppando la finalità illuminante della bodhicitta, i Buddha hanno creato molta più forza positiva degli arhat.

Il Mahayana afferma che i Buddha comprendono la mancanza di un’impossibile “anima” con riferimento a tutti i fenomeni, oltre che alle persone. Tale mancanza è chiamata “vacuità”. Le varie scuole indiane del Mahayana sostengono posizioni differenti circa la comprensione della vacuità dei fenomeni anche da parte degli arhat. All’interno del Mahayana, il Madhyamaka Prasangika afferma che anche gli arhat possiedono tale comprensione. Tuttavia questo punto, in riferimento all’affermazione Prasangika, nelle quattro tradizioni tibetane è spiegato in modi diversi. Alcune sostengono che la vacuità dei fenomeni compresa dagli arhat sia diversa da quella compresa dai Buddha; altre affermano che le due vacuità sono uguali. Alcune dichiarano che l’ambito dei fenomeni cui si applica la vacuità dei fenomeni è più limitato per gli arhat di quanto lo sia per i Buddha; altre affermano che l’ambito è lo stesso. Qui però non è necessario addentrarci in tutti questi dettagli.

Altri punti sulle figure dei Buddha e degli arhat

Le asserzioni dell’Hinayana e del Mahayana in riferimento agli arhat e ai Buddha differiscono in molti altri modi. La scuola Theravada, ad esempio, sostiene che tra uno shravaka (o “uditore”), che ambisce alla liberazione di un arhat, e un bodhisattva, che ambisce all’illuminazione di un Buddha, una delle differenze è la seguente: gli shravaka studiano con insegnanti buddhisti, i bodhisattva no. Il Buddha storico (Shakyamuni), per esempio, non ha studiato con un altro Buddha. Ha studiato soltanto con insegnanti non buddhisti, finendo poi per scartare i loro metodi. Proprio in considerazione del fatto che la comprensione e il conseguimento del Buddha non sono derivati dall’affidamento a un maestro buddhista, la scuola Theravada afferma che la saggezza di un Buddha supera quella di un arhat.

Inoltre, i bodhisattva si adoperano per diventare insegnanti buddhisti universali; gli shravaka non lo fanno – sebbene ovviamente, in quanto arhat, insegnino ai discepoli. Secondo la scuola Theravada, tuttavia, i Buddha superano gli arhat nell’avere maggiore abilità nei metodi per condurre gli altri alla liberazione, e nell’ampiezza della conduzione dell’attività di insegnamento. I Buddha superano anche gli arhat nella loro onniscienza. I Buddha sono in grado di sapere ogni cosa prestando attenzione al problema rilevante come desiderano. Ma per quanto riguarda conoscere il futuro, ci sono alcuni limiti poiché il Buddha non accettò un futuro fisso, e per quanto riguarda il passato, i Buddha ricordano attraverso la prospettiva del loro passato.

Secondo la scuola Vaibhashika dell'Hinayana, i Buddha sono totalmente onniscienti del passato, presente e futuro, ma tuttavia conoscono solo una cosa alla volta. Secondo il Mahayana, l’onniscienza implica la conoscenza simultanea di tutto. E ciò consegue dalla visione del Mahayana, secondo cui tutto è interconnesso e interdipendente: non possiamo parlare di una sola informazione, del tutto separata dal resto.

L’Hinayana sostiene che il Buddha storico abbia raggiunto l’illuminazione durante la sua vita e che, come un arhat, il suo continuum mentale sia terminato con la morte. Pertanto, secondo l’Hinayana, i Buddha insegnano soltanto durante ciò che rimane loro della vita in cui ottengono l’illuminazione. Non diffondono emanazioni di sé stessi in innumerevoli sistemi di mondi, continuando a insegnare per sempre – come invece afferma il Mahayana. Soltanto il Mahayana sostiene che il Buddha storico si sia illuminato in una vita precedente, molti eoni addietro, grazie allo studio con insegnanti buddhisti. Sotto l’albero della bodhi avrebbe dunque semplicemente dato una dimostrazione dell’illuminazione – una delle dodici azioni illuminate di un Buddha. I precursori di questa descrizione di un Buddha si trovano nella scuola Mahasanghika dell’Hinayana, un’altra delle diciotto scuole Hinayana, ma non si trovano né nel Sarvastivada né nel Theravada.

Per quanto riguarda i Buddha, un’altra importante differenza è la seguente: soltanto il Mahayana afferma l’esistenza dei tre corpora, o corpi, di un Buddha – Nirmanakaya, Sambhogakaya e Dharmakaya. L’Hinayana non la sostiene. Il concetto di “Buddha” è quindi significativamente diverso nell’Hinayana e nel Mahayana.

Le menti-sentiero che conducono alla liberazione e all’illuminazione

L’Hinayana e il Mahayana affermano che gli stadi del progresso verso lo stato purificato, o “bodhi”, di un arhat o di un Buddha comportano lo sviluppo di cinque livelli di mente-sentiero – i cosiddetti “cinque sentieri”. Essi sono i seguenti: una mente-sentiero che accumula, o sentiero dell’accumulazione; una mente-sentiero che si applica, o sentiero della preparazione; una mente-sentiero che vede, o sentiero della visione; una mente-sentiero che si abitua, o sentiero della meditazione; un sentiero che non richiede ulteriore addestramento, o sentiero del non-più-apprendimento. Quando gli shravaka e i bodhisattva raggiungono una mente-sentiero che vede, entrambi diventano degli arya, ossia esseri altamente realizzati. Entrambi hanno una cognizione non concettuale dei sedici aspetti delle quattro nobili verità.

L’Hinayana e il Mahayana concordano sul fatto che una mente-sentiero che vede libera gli arya shravaka e gli arya bodhisattva dalle emozioni disturbanti aventi una base dottrinale, mentre una mente-sentiero che si abitua li libera dalle emozioni disturbanti che sorgono spontaneamente. Le prime sono basate sull’apprendimento dell’insieme delle affermazioni di una delle scuole indiane non buddhiste, mentre le seconde sorgono spontaneamente in tutti, compresi gli animali. L’elenco delle emozioni disturbanti di cui gli arya shravaka e gli arya bodhisattva si liberano appartiene a una più ampia lista di fattori mentali. Ognuna delle scuole Hinayana ha una sua enumerazione di fattori mentali, e il Mahayana ne afferma un’altra ancora. Molti dei fattori mentali sono definiti in modo diverso in ciascun elenco.

L’Hinayana e il Mahayana concordano sul fatto che il procedere attraverso le cinque menti-sentiero comporta la pratica dei trentasette fattori che conducono a uno stato purificato. Uno “stato purificato”, o “bodhi”, si riferisce allo stato di arhat o di Buddha. Questi trentasette fattori includono i quattro piazzamenti ravvicinati della presenza mentale, gli otto rami di una mente-sentiero arya (il nobile ottuplice sentiero), e così via. Sono molto importanti. Nell’anuttarayoga tantra i trentasette fattori sono rappresentati dalle trentaquattro braccia di Yamantaka, cui si aggiungono il suo corpo, la sua parola, e la sua mente; sono rappresentati anche dalle dakini nel mandala del corpo di Vajrayogini. I trentasette fattori costituiscono un insieme uniforme di pratiche; spesso i dettagli di ciascuna di esse, tuttavia, differiscono tra l’Hinayana e il Mahayana.

Secondo l’Hinayana e il Mahayana, il modello che include le figure di colui che è entrato nella corrente, di colui che torna una volta, di colui che non ritorna, e dell’arhat si riferisce agli stadi del sentiero di un arya shravaka, e non a quello di un arya bodhisattva. Così, coloro che sono entrati nella corrente hanno una cognizione non concettuale dei sedici aspetti delle quattro nobili verità, inclusa la cognizione non concettuale della mancanza di un’impossibile “anima” delle persone. Non dovremmo pensare che colui che è entrato nella corrente sia al livello di un principiante – è meglio diffidare, quindi, di chi affermasse di aver raggiunto lo stato di colui che è entrato nella corrente!

L’Hinayana non fornisce una spiegazione esauriente delle menti-sentiero del bodhisattva. Il Mahayana, tuttavia, spiega che il percorso di un arya bodhisattva verso l’illuminazione implica il progresso attraverso lo sviluppo di dieci livelli di mente-bhumi, ed essi non appartengono al sentiero degli shravaka.

L’Hinayana e il Mahayana concordano sul fatto che il sentiero del bodhisattva verso l’illuminazione richieda più tempo, per essere percorso, rispetto a quello dello shravaka verso lo stato di arhat. Soltanto il Mahayana, tuttavia, parla dell’accumulazione delle due reti che creano l’illuminazione – le due raccolte – per tre immensi eoni. L’espressione “immensi”, solitamente tradotta come “incalcolabili”, indica un numero finito che tuttavia non saremmo in grado di calcolare. Gli shravaka, invece, possono raggiungere lo stato di arhat in tre vite. Nella prima, uno shravaka diventa colui che è entrato nella corrente; nella seconda vita, diventa colui che torna una volta; nella terza vita, diventa colui che non ritorna, raggiunge la liberazione, e diventa un arhat. Per molte persone questa prospettiva è alquanto allettante.

L’affermazione che gli arhat siano egoisti è, per così dire, una propaganda dei bodhisattva, tesa fondamentalmente a indicare un estremo che è da evitare. I sutra testimoniano che Buddha chiese ai suoi sessanta discepoli arhat di insegnare; se fossero stati veramente egoisti, non avrebbero accettato di farlo. Gli arhat, tuttavia, hanno la possibilità di aiutare gli altri in misura più limitata di quanto possano fare i Buddha. Entrambi, in ogni caso, possono aiutare soltanto chi ha il karma di ricevere il loro aiuto.

I bodhisattva

È importante sapere che le scuole Hinayana affermano che, prima di diventare un Buddha, si segue il sentiero del bodhisattva. L’Hinayana e il Mahayana hanno alcune versioni dei racconti Jataka in cui si descrivono le vite precedenti di Buddha Shakyamuni, quando era un bodhisattva. A partire dal re Siri Sanghabodhi, nel III secolo d.C., persino molti sovrani dello Sri Lanka si sono definiti “bodhisattva”. Ovviamente la questione non è del tutto semplice da dirimere, perché all’epoca in Sri Lanka il Mahayana era presente, in una certa misura: è difficile stabilire se il concetto di “re bodhisattva” fosse preesistente a un’influenza Mahayana, ma in ogni caso, di fatto, è parte della storia. Un aneddoto ancora più sorprendente è il seguente: nel V secolo d.C. gli anziani della capitale dello Sri Lanka, Anuradhapura, dichiararono che Buddhaghosa, un grande maestro di Abhidharma Theravada, fosse un’incarnazione del bodhisattva Maitreya.

Il Mahayana afferma che in questo “eone fortunato” esistono mille Buddha che daranno inizio alle religioni universali, e sostiene che in altre epoche del mondo ci sono stati, e ci saranno, molti altri Buddha. Il Mahayana afferma anche che tutti possono diventare dei Buddha, perché tutti possiedono i fattori della natura di Buddha che permettono tale conseguimento. L’Hinayana non affronta il tema della natura di Buddha; tuttavia, il Theravada menziona centinaia di Buddha del passato. Un sutta Theravada offre persino un elenco di ventisette Buddha, con i loro rispettivi nomi; erano tutti dei bodhisattva, prima di diventare dei Buddha. Il Theravada afferma che ci saranno innumerevoli Buddha anche in futuro – incluso Maitreya, che è il prossimo – e che chiunque può diventare un Buddha, se pratica i dieci atteggiamenti lungimiranti.

I dieci atteggiamenti lungimiranti

Il Mahayana afferma che i dieci atteggiamenti lungimiranti sono praticati solo dai bodhisattva, e non dagli shravaka. Questo perché il Mahayana definisce un “atteggiamento lungimirante”, o “perfezione”, come un atteggiamento che è sostenuto dalla forza di una finalità della bodhicitta.

Secondo il Theravada, tuttavia, fintanto che i dieci atteggiamenti sono sostenuti dalla forza della rinuncia, ossia la determinazione a essere liberi, non è necessaria bodhicitta perché la loro pratica sia lungimirante e agisca come causa per la liberazione. Quindi, secondo il Theravada, sia i bodhisattva che gli shravaka praticano i dieci atteggiamenti lungimiranti. Oltre ai diversi obiettivi motivanti che soggiacciono a essi, un’altra principale differenza nella pratica dei dieci atteggiamenti da parte di un bodhisattva e di uno shravaka è il suo grado di intensità. Così, ciascuno dei dieci atteggiamenti lungimiranti ha tre stadi, o gradi: uno ordinario, uno intermedio e uno supremo. Ad esempio, la pratica di generosità più elevata consiste nell’offrire il proprio corpo per nutrire una tigre affamata – l’azione che Buddha ha compiuto in una vita precedente, quando era un bodhisattva.

Anche l’elenco dei dieci atteggiamenti lungimiranti differisce leggermente tra il Theravada e il Mahayana. La lista Mahayana è la seguente:

  • Generosità
  • Autodisciplina etica
  • Pazienza
  • Perseveranza
  • Stabilità mentale (concentrazione)
  • Consapevolezza discriminante (saggezza)
  • Mezzi abili
  • Preghiera d’aspirazione
  • Rafforzamento
  • Profonda consapevolezza.

La lista Theravada omette i seguenti atteggiamenti: stabilità mentale, mezzi abili, preghiera d’aspirazione, rafforzamento e profonda consapevolezza. Aggiunge, al loro posto, i seguenti:

  • Rinuncia
  • Fedeltà alla propria parola
  • Risoluzione
  • Amore
  • Equanimità.

I quattro atteggiamenti incommensurabili

Sia l’Hinayana che il Mahayana insegnano la pratica dei quattro atteggiamenti incommensurabili di: amore, compassione, gioia ed equanimità. Entrambi i veicoli definiscono l’amore come il desiderio che gli altri possiedano la felicità e le cause della felicità, e la compassione come il desiderio che siano liberi dalla sofferenza e dalle cause della sofferenza. L’Hinayana, tuttavia, non sviluppa questi atteggiamenti incommensurabili attraverso un percorso del ragionamento – pensando, ad esempio, che tutti gli esseri sono stati nostre madri, e così via. Inizia invece con il dirigere l’amore verso chi già amiamo, e quindi con l’estenderlo, a tappe, a uno spettro di altri esseri via via sempre più ampio.

Le definizioni di gioia incommensurabile ed equanimità sono diverse nell’Hinayana e nel Mahayana. Nell’Hinayana, la gioia incommensurabile si riferisce al rallegrarsi per la felicità degli altri, senza alcuna invidia e desiderando che essa aumenti. Nel Mahayana, la gioia incommensurabile è il desiderio che gli altri godano della gioia dell’illuminazione, che è senza fine.

L’equanimità è lo stato mentale che è privo di attaccamento, repulsione e indifferenza. Nel Theravada, l’equanimità è diretta verso il risultato del nostro amore, della nostra compassione e della nostra gioia. L’esito dei nostri tentativi di aiutare gli altri dipende in realtà dal loro karma e dai loro sforzi – anche se, come nel caso del Mahayana, il Theravada accetta la possibilità di un trasferimento di forza positiva, o “merito”, agli altri. Auguriamo loro di essere felici e liberi dalla sofferenza, ma abbiamo equanimità rispetto a ciò che effettivamente accade, perché sappiamo che dovranno svolgere il loro lavoro da sé. Nel Mahayana, l’equanimità incommensurabile implica il desiderare che tutti gli altri siano liberi da attaccamento, repulsione e indifferenza, perché tali emozioni e atteggiamenti disturbanti li portano a soffrire.

Sebbene il raggiungimento dello stato liberato di un arhat richieda lo sviluppo di amore e compassione, non implica un impegno eccezionale o una finalità della bodhicitta. L’impegno eccezionale è lo stato mentale che è pienamente deciso ad assumersi la responsabilità di contribuire a condurre tutti alla liberazione e all’illuminazione. La finalità della bodhicitta è lo stato mentale necessario per poter raggiungere noi stessi l’illuminazione, al fine di raggiungere l’obiettivo di quell’impegno eccezionale. Dato che l’Hinayana include soltanto un limitato approfondimento del sentiero del bodhisattva, non spiega questi due atteggiamenti. Il Mahayana delinea invece, in modo molto dettagliato, le pratiche di meditazione volte a svilupparli.

L’Hinayana, quindi, sottolinea lo sviluppo dei quattro atteggiamenti incommensurabili come un modo per superare in noi stessi le emozioni disturbanti a essi antagoniste. L’amore è l’antagonista della malevolenza; ci libera temporaneamente da pensieri di inimicizia, aggressività o irritazione, e ansia o paura. La compassione è l’antagonista di un atteggiamento crudele o dannoso. La gioia – o il rallegrarci – è l’antagonista della gelosia, e l’equanimità è l’antagonista delle aspettative, della preoccupazione o della delusione, e dell’indifferenza. Inoltre, nel Theravada sviluppiamo questi quattro atteggiamenti innanzitutto verso noi stessi, prima di indirizzarli verso gli altri. Nel Mahayana l’enfasi è su ciò che gli altri provano, anziché essere su ciò che noi proviamo per loro.

Le due verità

Sebbene l’Hinayana non sostenga la mancanza di un’impossibile “anima” dei fenomeni, o vacuità, non per questo non esamina la natura di tutti i fenomeni, in generale. L’Hinayana svolge questa trattazione mediante la sua presentazione delle due verità riguardanti tutti i fenomeni. La premessa per la comprensione della vacuità dei fenomeni sta nella comprensione delle due verità. Nel Mahayana, le due verità sono due fatti riguardanti uno stesso fenomeno. Nell’Hinayana, le due verità sono due serie di fenomeni. Esistono veri fenomeni che sono superficiali, o convenzionali, e veri fenomeni che sono i più profondi, o ultimi.

All’interno del Sarvastivada, il Vaibhashika afferma che i veri fenomeni superficiali sono quegli oggetti fisici e quei fenomeni mentali che perdono la loro identità convenzionale quando sono analizzati nelle loro parti. Per esempio, quando analizziamo la nostra mano nei suoi atomi, o una catena di pensieri in ognuno dei suoi momenti, non vediamo più nessuno degli atomi come la nostra mano, o nessuno dei momenti come la catena di pensieri. I veri fenomeni più profondi sono cose di cui, quando sottoposte ad analisi, possiamo ancora riconoscere l’identità convenzionale. Il Vaibhashika afferma che tutti gli atomi che costituiscono gli oggetti fisici, e tutti i più piccoli momenti di cognizione, sono privi di parti; sono, alla fin fine, le cose più piccole. Per quanto le analizziamo, mantengono la loro identità. È importante renderci conto che quelli che vediamo sono i fenomeni superficialmente veri, ma che, al livello più profondo, le cose sono costituite di atomi e momenti. Possiamo così vedere che tutto ciò conduce a una comprensione del livello superficiale come a qualcosa che è simile a un’illusione.

Secondo il Sautrantika, i veri fenomeni superficiali sono entità metafisiche: le nostre proiezioni sugli oggetti. I veri fenomeni più profondi, invece, sono le cose oggettive in sé stesse. Qui iniziamo a capire che le nostre proiezioni sono come un’illusione. Se ce ne liberiamo, vediamo oggettivamente quello che c’è. Le nostre proiezioni sono come un’illusione.

Secondo il Theravada, i veri fenomeni superficiali sono fenomeni imputati. E ciò si riferisce alle persone e agli oggetti fisici, sia all’interno che all’esterno del corpo. I veri fenomeni più profondi sono ciò su cui questi sono imputati. Il corpo e gli oggetti fisici sono imputati sugli elementi e sui campi sensoriali che percepiamo. Che cos’è un’arancia? È la vista, l’odore, il gusto, la sensazione fisica? Un’arancia è ciò che è imputato su tutto ciò. Allo stesso modo, una persona è ciò che può essere imputato sui fattori aggregati del corpo e della mente. I sei tipi di coscienza primaria e i fattori mentali sono i veri fenomeni più profondi, perché una persona è etichettata o imputata su di essi.

Sebbene nessuna delle scuole Hinayana parli della vacuità di tutti i fenomeni, esse affermano che, per ottenere la liberazione, è importante comprendere non concettualmente i veri fenomeni più profondi. Qui dunque il sapore che la questione assume è molto simile a quello della trattazione Mahayana.

Il Theravada ha anche una spiegazione del karma molto diversa, che non si trova nelle scuole Sarvastivada o nel Mahayana – ora, però, non ci addentreremo in questo soggetto.

In sintesi

Con questa introduzione possiamo cominciare ad apprezzare come le scuole Hinayana del Theravada e del Sarvastivada racchiudano veramente, in sé stesse, il pieno sapore degli insegnamenti buddhisti. Questo può aiutarci a evitare di commettere l’errore di abbandonare il Dharma, affermando che alcuni insegnamenti del Buddha non sono insegnamenti buddhisti. Quando comprendiamo correttamente le diverse scuole, dal loro punto di vista, sviluppiamo un grande rispetto per tutti gli insegnamenti del Buddha. E questo è molto importante.

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