Confrontiamo ora le spiegazioni buddhiste, Samkhya, e Nyaya sulle varie caratteristiche dell’atman, il sé.
Asserzioni sulla cognizione
Asserzioni Samkhya sulla cognizione
La scuola Samkhya afferma che – e questo è molto interessante perché assomiglia alla nostra posizione scientifica occidentale – la cognizione delle cose è un fenomeno puramente fisico, come se implicasse solamente il cervello e le onde cerebrali. Secondo la scuola Samkhya, c’è una facoltà fisica del sentire che entra nel corpo grossolano con la rinascita e, in un certo senso, attiva ciò che in occidente chiameremmo il cervello e il sistema nervoso. La cognizione è l’attività fisica del cervello e del sistema nervoso e ora funzionano per conoscere le cose perché sono state attivate da questa sottile facoltà fisica del sentire.
Dimorando nel corpo, l’atman entra in contatto con questa facoltà fisica del sentire. Sebbene abbia la qualità della consapevolezza, l’atman è incapace di conoscere nulla da solo e quindi, per ignoranza, si identifica con questa facoltà fisica del sentire e la usa per conoscere cose. Ma la cognizione degli oggetti è tuttavia un fenomeno puramente fisico.
Come ho suggerito, questa spiegazione Samkhya della cognizione come un fenomeno puramente fisico assomiglia un po’ alla spiegazione scientifica occidentale della cognizione. La scienza cognitiva riduce ogni cosa al funzionamento di parti differenti del cervello, sia che parlino di onde celebrali, impulsi neuro-elettrici, o altro.
Come possiamo connetterci a questa descrizione scientifica dell’attività mentale? Possiamo ridurre la cognizione meramente a questo o quest’altro tipo di onda cerebrale, prodotta da parti differenti del cervello, e questo è tutto? Qual è la relazione di “io” con questo? Cosa siamo noi se è questo ciò che vuol dire conoscere? Pensiamo di essere identici a quest’attività mentale? Persino la scuola Samkhya dice che sebbene solitamente pensiamo in questo modo, ciò non è corretto. Siamo noi quelli che controlliamo tale attività, quelli che la fanno avvenire? Oppure l’io è semplicemente un osservatore passivo di questa attività fisica del cervello? Questo “io” conosce nulla? C’è una componente soggettiva della cognizione oppure è solo meccanica come il funzionamento di un computer?
E così che analizziamo e lavoriamo con questa sfida purva paksha della posizione Samkhya. Possiamo notare come le domande che solleva non siano affatto semplici. Tuttavia, come praticanti buddhisti che vivono nel XXI secolo, dobbiamo interagire con la scienza. Non possiamo negare la scienza. Guardate tutti gli incontri che ha Sua Santità il Dalai Lama con gli scienziati, in cui dice, “Il Buddhismo e la scienza vanno bene insieme”. Se c’è qualunque cosa che la scienza possa provare la quale confuta un’affermazione del Buddhismo, come ad esempio l’affermazione nell’abhidharma secondo cui la terra è quadrata e piatta, allora elimineremo tale affermazione dal Buddhismo”.
Dunque, è così che si conoscono le cose secondo la scuola Samkhya. In quanto atman, abbiamo una consapevolezza passiva che da sola non conosce nulla. Veniamo a conoscenza delle cose soltanto dimorando in un corpo e associandoci alla sua facoltà fisica del sentire, come un cervello e le onde cerebrali.
Asserzioni Nyaya sulla cognizione
La scuola Nyaya dice che l’atman, che è privo di consapevolezza e non conosce nulla, ha cognizione delle cose mediante la sua associazione con particelle sottili di consapevolezza, ma per sua natura non ha la proprietà della coscienza. Qui si parla di piccole particelle sottili, qualunque esse possano essere. C’è una piccola particella sottile chiamata “consapevolezza”.
La filosofia Nyaya è molto interessante. Rende ogni cosa in entità concrete conoscibili – fenomeni di base, qualità, attività, e relazioni. Penso sempre a questo sistema in termini di due palline e un bastoncino che le connette. Abbiamo certamente questo modo di dire riguardo la “nostra relazione”. Vi è mai capitato? “Non stai entrando in contatto con la nostra relazione”. “Come entri in contatto con la nostra relazione?”. Come se la relazione fosse una cosa concreta che connette un tu concreto e un io concreto, e poi in un certo senso c’è un altro “io” separato da questo che dovrebbe connettersi a questa cosa che è la nostra relazione. Questo è davvero strano, se ci riflettiamo sopra. Questa è la scuola Nyaya, la posizione Nyaya.
Il Buddhismo afferma che se esistesse questo “io”, l’atman, che è inconsapevole di ogni cosa ed è una piccola particella separata di consapevolezza, allora questo “io” è come un cieco: come potrebbe mai l’atman connettersi a questa piccola particella di consapevolezza per conoscere le cose? È come un cieco con il bastone. Mediante il bastone, il cieco sa che c’è un gradino. È così che il sé conosce cose – si connette in un certo modo ad una particella mentale o al cervello – se pensiamo sia un po’ difficile accettare le particelle mentali? Molto interessante, vero? Qual è la connessione, allora, tra “io” e il cervello, e come si arriva a tale connessione? Ci avete mai riflettuto?
Queste sono le obiezioni dal lato del Buddhismo, il purva paksha, l’altro lato. Stiamo parlando del sé nel Buddhismo e stiamo confutando un sé impossibile, e poi entra in gioco questo piccolo purva paksha. L’avversario, un avversario Samkhya o Nyaya nel dibattito, ci sfida e dice: “Beh, che dire del cervello? Che dire delle onde cerebrali?”. Allora dobbiamo spiegare il cervello e le onde cerebrali in termini di “io”. Come conosciamo qualunque cosa? Se è solo il cervello che conosce le cose, come fa il cervello a conoscere cose? Mettetelo in una bottiglia. Non sa nulla. Come viene attivato? C’è qualche piccola particella mentale che viene introdotta, iniettata, e ora il cervello funziona? Oppure iniettiamo un “io” con la proprietà della coscienza, e ora il cervello funziona? Questo “io” che inseriamo nel cervello, è questo “io” una coscienza? Oppure questo “io” è qualcosa che non ha coscienza, e quindi lo iniettiamo nel cervello, che improvvisamente conosce cose perché ha questa linfa vitale connessa ad esso?
Queste domande purva paksha sorgono da queste posizioni Samkhya e Nyaya. Ci fanno riflettere su problemi del genere. Come conosciamo qualunque cosa?
Asserzioni buddhiste sulla cognizione
Come ho detto prima, il Buddhismo afferma che l’atman, il sé che non deve essere confutato, è consapevole delle cose nel senso che è un fenomeno d’imputazione sulla base della coscienza. È semplicemente così, e non c’è nessuna contraddizione nell’avere il cervello e onde cerebrali eccetera come controparte fisica della cognizione. Il Buddhismo descrive il fenomeno dell’attività mentale – secondo la definizione buddhista – semplicemente come il sorgere di un ologramma mentale e di un impegno cognitivo. Questi sono due modi soggettivi di descrivere lo stesso evento, la cognizione di qualcosa. Possiamo anche descrivere lo stesso evento oggettivamente in termini di materia ed energia coinvolte nel processo, e quindi onde cerebrali e la base per esse: il cervello, un sistema nervoso, e così via. Non c’è nessun problema in questo. È solo un’altra parte di tutto l’insieme, ma non riduciamo tutto il processo della cognizione solo al cervello, né lo riduciamo semplicemente a questo “io” che compie tale processo.
Affermazioni sulla rinascita
Il punto successivo: L’atman è associato alla rinascita sotto l’influenza dell’inconsapevolezza della sua vera natura. Tutti e tre i sistemi affermano questo – i Samkhya, i Nyaya, e i buddhisti. Patiamo la rinascita perché siamo inconsapevoli; non sappiamo come esistiamo, oppure lo sappiamo in un modo errato.
La scuola Samkhya afferma che l’atman in sé e per sé non rinasce. Dice che è il corpo sottile a rinascere – l’Induismo, ad esempio l’Advaitya Vedanta, che si è sviluppata in seguito, afferma qualcosa di simile. Secondo la Samkhya, il corpo sottile è composto da una facoltà fisica del sentire, una facoltà fisica per la consapevolezza di sé, una facoltà fisica per una mente, cinque facoltà fisiche per la percezione sensoriale, cinque facoltà fisiche per le azioni, e cinque elementi sottili di mere informazioni sensoriali. Dunque, in un certo senso, il corpo sottile è composto da elementi sottili e varie facoltà fisiche che in qualche modo attivano gli elementi fisici grossolani del corpo in cui dimora quando rinasce. Alla morte, il corpo fisico grossolano della rinascita si disintegra, ma queste facoltà fisiche per la cognizione e gli elementi sottili continuano ed entrano in un nuovo corpo grossolano. L’atman è statico e quindi non fa nulla. Semplicemente si associa a questo corpo sottile in ogni vita e, per ignoranza, si identifica con la sua facoltà fisica del sentire, ma è il pacchetto del corpo sottile che continua.
Questo assomiglia un po’ alla spiegazione buddhista della rinascita nella classe più elevata del tantra, vero? Secondo il tantra generale dell’anuttarayoga, ciò che continua da una vita all’altra è il pacchetto della mente più sottile di chiara luce e l’energia-vento più sottile come suo supporto fisico. Il Kalachakra aggiunge la parola più sottile e l’energia-goccia più sottile, che contiene tracce degli elementi sottili. Alla rinascita, questo pacchetto si connette con gli elementi grossolani di uno sperma e di un ovulo, se la rinascita è come un essere umano o un animale, e poi questi elementi più grossolani fungono da base per l’attività mentale, che in modo corrispondente diventa più grossolana.
Beh, stiamo andando verso l’estremo della scuola Samkhya qui, tale per cui questo pacchetto più sottile è l’equivalente buddhista del corpo più sottile affermato dai Samkhya, ed è questo che continua da una vita all’altra, e l’io è una cosa statica che in qualche modo si associa a tale pacchetto? È così che riflettiamo sulla rinascita quando sentiamo parlare di questo pacchetto della mente più sottile e dell’energia-vento più sottile che continua da una vita all’altra – specialmente se stiamo pensando a questo pacchetto in termini di natura di Buddha? Stiamo pensando che questo pacchetto che continua da una vita all’altra sia “io”? Se la risposta è no, cos’è l’io in relazione a tutto questo? Queste sono le domande purva paksha che vengono sollevate dalla spiegazione dell’anuttarayoga tantra.
La differenza tra la posizione buddhista e quelle non buddhiste è che l’atman, il sé che non deve essere confutato, non è identico a questo pacchetto, né è un fenomeno statico, che sia con o senza coscienza, che semplicemente si attacca a questo pacchetto, ma che è un’entità totalmente separata da esso. Al contrario, il sé, l’atman che non deve essere confutato, è un fenomeno d’imputazione sulla base di questo pacchetto e poi, durante ciascuna rinascita, un fenomeno d’imputazione sulla base degli aggregati che si sviluppano in quella rinascita. Anche quando si è liberati o illuminati, è ancora un fenomeno d’imputazione sulla base di questo pacchetto.
La confutazione buddhista delle tre caratteristiche distintive del sé basato sulla dottrina
Che dire delle tre caratteristiche distintive dell’atman che vengono confutate nel contesto dell’afferrarsi basato sulla dottrina per un atman impossibile, un sé o anima impossibile – statica, senza parti, ed esistente in modo indipendente da un corpo e una mente quando raggiunge la liberazione? Quali sono le posizioni Samkhya e Nyaya su questo e la confutazione buddhista di queste ultime?
La posizione Samkhya
La Samkhya afferma che l’atman è statico: non è influenzato da nulla, è totalmente passivo. Essendo statico e pertanto passivo, non può fare nulla e non può conoscere nulla, siccome fare qualcosa o conoscere qualcosa implica che è non statico e che cambia di momento in momento. L’atman è solo questa consapevolezza passiva e statica che non ha nessun oggetto. Non è consapevole di nulla. Ciononostante, per via della sua associazione con questa facoltà fisica del sentire, e poiché questa facoltà fisica attiva gli elementi grossolani del cervello per generare onde cerebrali di felicità e infelicità, che sorgono come risultato dei potenziali karmici, la scuola Samkhya afferma che l’atman, il sé, sperimenta i risultati del karma. La Samkhya risolve l’evidente contraddizione con l’atman, il sé statico che però sperimenta i risultati del karma, spiegando che questa esperienza di felicità e infelicità come risultato del karma è solo un’illusione.
Che dire riguardo alla qualità di essere senza parti? La Samkhya parla di una materia primordiale, “prakriti”, e dice che tutta la materia fisica, che loro classificano in 24 tipologie differenti, sono “perturbazioni” – questo è il termine tecnico – della materia primordiale. La materia primordiale è formata da tre qualità costituenti – sattva, rajas e tamas – la cosiddetta “triguna”, le tre qualità, intrecciate come i fili di una corda. Questi tre si trovano anche nella medicina ayurvedica. Ci sono molti modi per definire i tre. In ogni caso, i tre possono essere disturbati e andare fuori equilibrio; i disturbi sono chiamati “perturbazioni”, e le 24 tipologie di perturbazioni sono ciò che costituiscono l’universo fisico. Questo significa che tutti i fenomeni fisici hanno parti. Al contrario l’atman, che i Samkhya chiamano “purusha”, non è formato da questi tre costituenti. È senza parti.
Poi riflettiamo: “Beh, c’è qualcosa di simile a questo nel pensiero occidentale, nella scienza?”. Si c’è. Se pensiamo in termini di particelle atomiche e subatomiche, c’è una carica positiva, negativa, e neutra. Questo accade con gli elettroni, i protoni e i neutroni, nonché con le particelle subatomiche. Tutta la materia è fatta di particelle e particelle subatomiche positive, negative, o neutre e non sono in equilibrio perché esistono varie combinazioni di queste. Le tre cariche costituenti non cambiano mai; è solo che sono in combinazioni differenti. Quando pensiamo a questa analogia, allora l’affermazione Samkhya sulla materia primordiale non è così insolita rispetto al nostro modo occidentale di pensare, vero? Se volete chiamare i tre “rajas, sattva e tamas”, va bene. Questi sono solo nomi, ma abbiamo qualcosa di simile a questo nella scienza occidentale. Non è così strano.
Il sé non è così. Il sé non è formato da particelle con carica positiva, negativa, o neutra, se vogliamo adottare un modo di pensare occidentale. È questo ciò che stiamo pensando, effettivamente, in termini di “io”? Esistono le onde cerebrali? Beh, certamente. La meccanica quantistica ci dice che qualcosa può essere sia un’onda sia una particella, e dunque persino le onde cerebrali possono avere parti positive, negative, e neutre. Ma il sé non ha questo tipo di parti – non ha una carica elettrica. Non siamo così.
Non solo l’atman, il sé, la consapevolezza passiva statica non è influenzato da nulla e non è formato dalle parti rajas, sattva e tamas, il Samkhya afferma inoltre che, quando raggiunge la liberazione, continua a esistere in modo totalmente indipendente e separato dalla materia primordiale e da tutte le sue perturbazioni, questi tre gunas, che includono onde cerebrali e fenomeni materiali. Quando raggiunge la liberazione, esiste in modo totalmente separato da questo.
Questo è l’atman, il sé con queste tre qualità, affermato dai Samkhya e confutato dal Buddhismo. Il sé statico dura per sempre senza che cambi mai, non è formato da questi tre costituenti che formano tutta la materia, e può esistere in modo totalmente separato dalla materia. È per via dell’ignoranza che si identifica con la facoltà fisica del sentire che fa parte del corpo sottile, ma non è ciò che è. Non era mai identico a questa facoltà fisica sottile; questo era un’illusione.
Beh, è questo ciò che pensiamo? È questa la nostra confusione, che a causa dell’ignoranza ci identifichiamo con questo corpo e tutte queste emozioni disturbanti, ma che questa è un’illusione e c’è un “io” totalmente separato da ciò che è solo consapevolezza? È qualcosa su cui riflettere.
La posizione Nyaya
Anche la Nyaya afferma che il sé è statico. Non è influenzato da nulla ed è privo di qualunque consapevolezza. Conosce e fa cose solo attraverso una relazione contingente. “Contingente” significa temporanea. Non è come la relazione tra l’intero e le parti, che è sempre così. “Contingente” significa che questa relazione avviene sulla base dell’ignoranza. A causa dell’influenza dell’ignoranza, questo sé, questo atman – che è statico e non sa nulla e non fa nulla – si connette, come con dei bastoncini, a una lista di nove proprietà – consapevolezza sensoriale, felicità, infelicità, desiderio di qualcosa, avversione per qualcosa, sforzo, abitudini, forza morale per la felicità, e forza immorale per l’infelicità.
Il sé, l’atman, è anche privo di parti, il che significa che non ha una qualità intrinseca di un intero e le parti. Non è come un oggetto che ha parti. Questo si riferisce alle cinque tipologie di relazioni intrinseche e invariabili, una delle quali è la relazione tra l’intero e le sue parti. Queste relazioni sono come bastoncini che connettono due palline, e quindi il sé non è connesso con bastoncini del genere a queste nove proprietà contingenti.
Inoltre, quando raggiunge la liberazione, il sé esiste in modo totalmente indipendente da queste nove proprietà. Non deve avere queste proprietà, secondo la Nyaya. Può esistere indipendentemente da esse e indipendentemente da qualunque associazione con una particella mentale o particelle materiali di un corpo. Dobbiamo semplicemente smettere di associarci a queste proprietà e particelle. Smettiamo di farlo comprendendo che non siamo obbligati a fare questa connessione, e così siamo liberi, raggiungiamo la liberazione.
È questo ciò che pensiamo? “Come otterrò la liberazione? Beh, semplicemente non mi associo più a un corpo e una mente confusi, così posso esistere indipendentemente da essi. In ogni caso, non sono veramente associato ad essi; non sono realmente ‘io’”. Potremmo pensare così. Potremmo pensare che se veramente comprendessimo questo in modo appropriato, raggiungeremmo la liberazione.
È questo ciò che il Buddhismo confuta. Con la comprensione Nyaya, non siamo ancora liberi. Pensiamo di raggiungere la liberazione, ma non è così. Abbiamo ancora cupidigia, e ancora ci arrabbiamo. “Ma ho trasceso tutto questo”. Davvero? È questo il nostro modo di pensare?
La posizione buddhista
Cosa dice il Buddhismo? Il Buddhismo dice che il sé non è statico. È non statico. Cambia sempre. Fa sempre cose e influenza sempre altre cose, anche quando raggiungiamo la liberazione e diventiamo un arhat, e anche quando diventiamo illuminati e siamo un Buddha.
Cosa fanno gli arhat? Ad esempio meditano. Non è che non fanno nulla. Non esistono in una sorta di limbo. Ci sono due tipi di arhat. Ci sono gli arhat che vivono nei campi di Buddha e sostanzialmente meditano; è questo ciò che fanno. A volte provano un tipo di beatitudine. A volte provano una certa sensazione neutra che non è né felicità né infelicità quando sono in uno stato di concentrazione dhyana super profondo. Ovviamente non soffrono, ma stanno facendo qualcosa, stanno sperimentando qualcosa, sanno qualcosa. L’altro tipo di arhat sviluppa il bodhichitta, ritorna nei nostri regni e lavora per ottenere l’illuminazione.
Anche i Buddha certamente fanno cose. Aiutano gli altri. Sono onniscienti, e quindi sanno tutto. Conoscono il nostro karma, e sanno come aiutarci al meglio per raggiungere l’illuminazione, e quindi conoscono cose.
Il Buddhismo dice che il sé ha parti. Perché ha parti? Perché è un fenomeno d’imputazione sulla base di un continuum individuale di cinque aggregati che cambiano tutto il tempo: un corpo, una mente, sentirsi felici, sentirsi infelici, e così via. Dunque, ci sono parti temporali perché, in ciascun momento, è un fenomeno d’imputazione sulla base di una rete differente di componenti dei cinque aggregati. Il sé ha anche aspetti differenti, parti differenti, nel contesto di ciascuna di queste reti di aggregati – come il sé nel contesto della vita familiare, professionale, la carriera sportiva, eccetera.
Inoltre, il sé non può mai esistere o essere conosciuto separatamente o indipendentemente dalla sua base, i cinque aggregati, anche quando raggiunge la liberazione, e anche quando raggiunge l’illuminazione. Esistono tipologie differenti di aggregati. Invece dei cinque aggregati macchiati dalla confusione ricevuti dai potenziali karmici eccetera, i Buddha hanno aggregati puri, incontaminati. Hanno ancora corpi. Che dire riguardo i Corpi della Forma, i nirmanakaya e i sambhogakaya? Hanno corpi fatti di luce molto sottile, ma questi sono ancora dei corpi. Hanno coscienza, conoscono cose. È solo al livello della consapevolezza pura, del rigpa o livello di chiara luce, che hanno coscienza. Hanno anche una beatitudine incontaminata, e quindi hanno questo tipo di sensazione pura. Hanno cinque tipologie di consapevolezza profonda: conoscono l’individualità delle cose, e sanno come aiutare. Queste fanno parte degli aggregati puri. Sia che parliamo di essi per come sono rappresentati dai cinque dhyani Buddha, o dalle cinque cosiddette saggezze dei Buddha, i cinque tipi di consapevolezza profonda – hanno questi aggregati puri. Non c’è un sé di un Buddha che esiste e può essere conosciuto separatamente da una base d’imputazione del genere.
È questo ciò che dice il Buddhismo. Il sé è non statico, cambia di momento in momento mentre fa e conosce cose. Ha parti perché è un fenomeno d’imputazione su una base che ha parti, gli aggregati – corpo, mente, eccetera. Non può mai esistere in modo indipendente da una base per l’imputazione, un corpo e una mente. Può esistere in modo indipendente da una base impura. Tuttavia, solo perché può esistere indipendentemente da una base impura non significa che può esistere indipendentemente da qualunque base – ovvero una base pura.
È qui che arriva il pericolo quando ci avviciniamo al Buddhismo. Siccome è vero che non vogliamo che il sé sia associato a un corpo che si ammalerà e invecchierà e dovrà passare attraverso l’infanzia e tutto il resto di nuovo, allora potremmo pensare, “Beh, allora sarebbe meglio non avere nessun corpo”. Non vogliamo avere una mente che è limitata e non può sapere tutto, limitata dal vedere solo quello che c’è di fronte ai nostri occhi e così via. Dunque, cosa stiamo pensando? Che potremmo liberarci da questo e poi cosa? Questo è il punto, poi cosa? Il “poi cosa” non è un grande nulla come quello che dicono i Samkhya e i Nyaya riguardo al sé quando raggiunge la liberazione. Ma potremmo pensare che sia un grande nulla una volta che raggiungiamo la liberazione come un arhat o l’illuminazione di un Buddha – ce ne andiamo in qualche nirvana trascendente. Ma non è così, e quindi dobbiamo stare attenti a questo possibile errore purva paksha.
Confutare un sé impossibile per ottenere la liberazione
Per le scuole Samkhya e Nyaya, e per il Buddhismo, la liberazione dalla sofferenza del samsara, la rinascita che si ripete in modo incontrollabile, si ottiene confutando che il sé, l’atman, esista come un sé falso, impossibile. Tutte e tre parlano di un sé impossibile che deve essere confutato. Potrebbero non avere questa espressione, ma hanno tutte questa caratteristica.
Secondo i Samkhya, per ottenere la liberazione abbiamo bisogno di comprendere che sebbene l’atman abbia la qualità della mera consapevolezza passiva, non è identico alla facoltà fisica del sentire che permette la cognizione degli oggetti e passa da una vita all’altra come parte del corpo sottile. Ma, a causa dell’ignoranza – semplicemente non sapere che questo è errato – l’atman, il sé, si identifica con questa facoltà. Pensiamo che sia “io”. Abbiamo bisogno di comprendere che questo è falso e poi, quando raggiungiamo la liberazione, continueremo ad esistere senza un corpo o una mente che conosce oggetti.
Dunque, se pensiamo di essere le nostre menti, poiché alcuni sistemi di principi buddhisti dicono che la caratteristica distintiva del sé si trovi nella sua base d’imputazione, la coscienza mentale, dobbiamo stare attenti di non cadere nella posizione Samkhya. Potremmo correre questo pericolo se pensiamo che tutto ciò che abbiamo bisogno di realizzare è che la caratteristica distintiva del sé non è situata nella coscienza mentale e poi continueremo a esistere come un sé che è indipendente da un corpo o una mente, ma che mantiene la caratteristica distintiva della consapevolezza passiva senza alcun oggetto.
Per i Nyaya, abbiamo bisogno di comprendere come l’atman, il sé, non sia per sua natura connesso alle proprietà di percezione, felicità, sofferenza, e così via, né sia per sua natura connesso a una base fisica. Le relazioni che ci connettono a queste proprietà e alla materia sono semplicemente come dei bastoncini che connettono blocchi di legno. Sono contingenti, temporanei, e non necessari. Otteniamo la liberazione quando comprendiamo che non abbiamo per natura queste relazioni che ci connettono a tali proprietà e alla materia fisica. Allora possiamo dissociarci da esse.
Ma questa non è una fuga? Non pensiamo che sia questo ciò che implica la rinuncia? “Non voglio associarmi a tutta questa spazzatura che è il samsara. Voglio uscire. Voglio semplicemente disconnettermi”. È sufficiente? Semplicemente disconnetterci? Come possiamo disconnetterci? Basta dire, “Sono disconnesso?”. Questo è l’errore. Se diciamo soltanto, “Sono disconnesso”, potremmo ancora arrabbiarci.
Nel Buddhismo, ciò che dobbiamo comprendere è che l’atman non è identico al sé impossibile. Non è la stessa cosa, né è totalmente separato dagli aggregati sui quali è un fenomeno d’imputazione. Il sé e gli aggregati sono “né uno né molti”. Avete studiato questo, ne sono sicuro, nel testo Madhyamakavatara (“Impegnarsi nella via di mezzo”). Il sé è un fenomeno d’imputazione sulla base del corpo e della mente – i cinque aggregati. Non può esistere o essere conosciuto indipendentemente dalla sua base, e quindi non è né identico alla sua base né qualcosa che è totalmente differente e non connesso alla sua base.
Asserzioni riguardo il sé liberato
Ora, che dire dell’atman liberato, il sé che non deve essere confutato? L’atman liberato continua ad esistere per sempre. Tutte dicono questo, ma come continua ad esistere?
La scuola Samkhya dice che il sé, l’atman continua come mera coscienza passiva senza nessun oggetto. Pervade l’intero universo. Non prova felicità o infelicità. Non fa nulla, ed è totalmente separato da tutti i fenomeni materiali.
Dunque, secondo la scuola Samkhya, c’è la materia primordiale e i fenomeni materiali che sono le sue perturbazioni, i quali si espandono per l’intero universo, e questo è eterno. La scienza occidentale dice pure questo quando parla di particelle, energia, radiazione o altro. Ma la Samkhya aggiunge che ci sono anche atman liberati immateriali che anche loro pervadono l’universo per sempre. Non sta dicendo che tutti diventano uno. Questa non è la filosofia Samkhya. Quest’affermazione viene fatta in qualche filosofia induista successiva, ma non nella Samkhya, che le precede. Questi atman liberati sono individuali e non un tutt’uno. Dunque, ci sono sia fenomeni materiali e atman immateriali individuali che pervadono l’intero universo. Gli atman sono semplicemente consapevolezza passiva senza nessun oggetto, mentre i fenomeni materiali da soli non hanno nessuna consapevolezza attiva.
È molto interessante, in effetti, se ci riflettiamo su. È questo ciò che vorremmo essere, solo questa consapevolezza passiva che pervade tutto l’universo ma che non sa nulla? Alcune persone potrebbero esserne attratte, ma questo è lo stato della liberazione secondo la scuola Samkhya. Non proviamo felicità o infelicità. Non proviamo nulla, non facciamo nulla o non sappiamo nulla, ma abbiamo ancora consapevolezza. Sembra un po’ come essere drogati.
La scuola Nyaya dice che il sé liberato non ha nessuna proprietà, nessuna coscienza, nulla. Non prova felicità o infelicità. Non fa nulla. È qui che abbiamo una differenza tra Nyaya e Vaisheshika:
- La Nyaya dice che il sé è della misura di una piccola particella senza parti, come una sorta di scintilla di vita o qualcosa del genere.
- La Vaisheshika dice, come la Samkhya, che il sé pervade l’intero universo ma non è associato a nessun fenomeno materiale.
Fondamentalmente, la differenza tra la Samkhya, la Nyaya e la Vaisheshika riguarda se il sé liberato pervada tutto l’universo o sia solo una piccolissima particella. Se è solo una piccola particella, non ha nessuna consapevolezza, ma se pervade l’intero universo, ha coscienza o no?
Cosa dice il Buddhismo? Il Buddhismo dice che il sé liberato conosce ancora cose. Gli arhat ancora fanno cose – continuano a meditare anche se risiedono in un campo di Buddha – e continuano a conoscere e a fare cose.
Come ho detto prima, ci sono due tipologie di arhat. Ci sono coloro che vivono solo nei campi di Buddha e non fanno nulla se non meditare. Poi, ci sono quelli che sviluppano il bodhichitta e ritornano nel nostro regno e continuano sul sentiero dei bodhisattva. Possono farlo.
Quando sentiamo parlare del cosiddetto sentiero “Hinayana”, il sentiero degli shravaka, come se fosse egoista puntare alla liberazione dell’arhat, dobbiamo comprendere che non si sta parlando del sentiero di meditazione seguito dai praticanti Hinayana. Il sentiero non è egoista. I theravadin, ad esempio, meditano tantissimo sul metta – “metta” è la parola Pali per amore. Meditano sui quattro atteggiamenti incommensurabili – amore, compassione, equanimità, e gioia. Fanno tutto questo.
Non è che il sentiero Hinayana di meditazione sia privo di amore e compassione; ha più a che fare con il loro risultato. Ciò a cui puntano è lo stato di arhat, che è semplicemente pacifico e non coinvolto attivamente in atti compassionevoli di aiuto per gli altri. È questo obiettivo che fa riferimento a noi stessi, non il sentiero. C’è molta confusione riguardo questo punto perché non è proprio chiaro in molte presentazioni, anche nei classici testi Mahayana. Penso sia necessario fare tale differenziazione; altrimenti, saremmo sleali verso le tradizioni Hinayana come il Theravada. Dimostra solo la nostra ignoranza del Theravada quando diciamo che non meditano sull’amore e la compassione. È ovvio che meditano su questo.
Come ho detto, una tipologia di arhat rimane solo nei campi di Buddha. Non sono coinvolti nell’aiutare compassionevolmente gli altri, ma sono capaci di sviluppare il bodhichitta, e possono tornare nel nostro regno, in modo tale da poter fare altre cose oltre che meditare, e provano ancora sensazioni. Riguardo al fatto se queste sensazioni siano contaminate o meno – beh, ci sono molte definizioni differenti di questi termini, quindi non entriamo in tutte queste variazioni. In ogni caso, gli arhat provano ancora la felicità o una sensazione neutra che è priva di felicità o infelicità, a seconda di quale meditazione stiano compiendo. Gli assorbimenti superiori degli dhyana non implicano felicità o infelicità; implicano una sensazione neutra che è uno stato che va oltre entrambi. Gli stati inferiori degli dhyana hanno ancora felicità. Gli arhat sperimentano una o l’altra di queste due sensazioni.
Gli arhat sono ancora associati a un corpo. Dopo che muoiono da questo corpo grossolano con cui hanno ottenuto la liberazione, allora se decidono di andare in un campo di Buddha, avranno un corpo formato da particelle sottili. Non è il più sottile, come il corpo di un Buddha. A volte è chiamato un “corpo mentale”, ma effettivamente si dice sia simile a un corpo fatto da particelle sottili, non le più sottili, ma un po’ come il corpo del sogno. È questo il tipo di corpo che hanno in un campo di Buddha.
Questo è davvero interessante. Quando raggiunge l’illuminazione, l’atman di un Buddha, il sé di un Buddha, mantiene ancora la sua individualità. Il Buddha Shakyamuni non è il Buddha Maitreya, e il Buddha Maitreya non è il Buddha Shakyamuni. Sono individui. Inoltre, le loro menti – la loro attività mentale – ciascuna pervade tutto l’universo perché un Buddha è onnisciente. Poiché l’attività mentale di un Buddha pervade tutto l’universo e poiché il vento-energia più sottile che è la base per tale attività mentale è inseparabile da essa, allora il corpo di un Buddha, che è formato dal vento-energia più sottile, pervade anche l’intero universo. Grazie a questo, un Buddha può manifestarsi in un zilione di forme dappertutto simultaneamente.
E quindi ribattiamo, “Calma, cos’è questo? Non è identica alle affermazioni Samkhya o Vaisheshika di un atman liberato che pervade tutto l’universo?”. No, non è la stessa cosa di quelle asserzioni. I sé liberati, secondo la Samkhya e la Vaisheshika, potrebbero pervadere l’intero universo, ma sono dissociati dall’universo. Sono inconsapevoli di qualunque cosa nell’universo – non fanno nulla, non interagiscono con nessuno o nessuna cosa nell’universo. La mente onnisciente di un Buddha, d’altro canto, è simultaneamente consapevole di ogni cosa e di ognuno nell’universo, e i corpi di un Buddha interagiscono con tutti gli esseri, mostrando loro il sentiero per l’illuminazione. Quindi c’è una grande differenza.
Conclusione
Questi sono alcuni degli argomenti fondamentali condivisi dal Buddhismo e i sistemi indiani non buddhisti – ma con interpretazioni differenti – che troviamo quando esaminiamo solo uno di questi argomenti discusso in tutti questi sistemi: il sé, l’atman. Ci sono altri argomenti che tutti trattano, come il karma e la causalità. C’è un creatore o no? Tutti questi argomenti vengono discussi nei testi buddhisti usando il metodo purva paksha, le obiezioni dell’altro lato.
Possiamo vedere come sia molto importante prendere sul serio le posizioni espresse da queste obiezioni, e non scartarle come se fossero le credenze di alcune persone stupide e ignoranti che vivevano molti secoli fa. Una persona brava nel dibattito – ci sono molte storie famose su di loro nei monasteri tibetani – poteva prendere la posizione di una di queste scuole indiane non buddhiste, e nessuno degli altri studenti buddhisti, i geshe o i khenpo riuscivano a sconfiggerlo. Erano così bravi ad argomentare l’altra posizione, e quindi queste posizioni non sono stupide. Il mio maestro, Serkong Rinpoche, era solito rimproverarmi dicendo che “È solo la tua arroganza che pensa che siano stupidi”. Non sono stupidi. Sono punti di vista molto intelligenti, molto coerenti.
Tutti trattano gli stessi problemi. Tutti affrontano le stesse questioni nella filosofia indiana, Buddhismo incluso, e ciascuna scuola pensa di aver trovato la soluzione. Dunque, per capire appieno il Buddhismo, abbiamo bisogno di comprenderlo nel contesto di tutti gli altri sistemi indiani di pensiero e dei dibattiti purva paksha tra queste scuole.
Ora, potremmo dire che forse i buddhisti sono arroganti quando dicono, “Beh, le vostre posizioni vi lasciano ancora la rabbia e la cupidigia, mentre la nostra posizione no”. Ma, allora, tutto quello che possiamo fare è osservare il risultato di seguire gli insegnamenti e i metodi di ciascun sistema per poterlo capire davvero.
Abbiamo bisogno di cominciare a riflettere seriamente su queste posizioni purva paksha. I dibattiti non puntano soltanto a capire chi vince in un contesto di logica. Non è questa la motivazione. Qual è il punto? Eliminare la sofferenza. Tutte queste discussioni mirano ad eliminare la sofferenza. Tutti sono interessati a questo, comprese queste scuole indiane non buddhiste; è questo il loro focus. Dobbiamo capire come raggiungere questo obiettivo. Potremmo pensare che abbiamo solo bisogno di dissociarci da tutto e andare a vivere in una caverna, entrare in stati elevati di concentrazione e pensare: “Non devo associarmi a tutti questi oggetti sensoriali del desiderio e questi pensieri disturbanti riguardo ad essi. Semplicemente me ne andrò in qualche regno trascendente nella mia meditazione”. Ma cos’è questo? Questo vuol dire entrare in uno dei regni della forma o del senza forma in meditazione. I testi dicono molto chiaramente che “Potresti rimanere in questo stato a lungo, ma infine poi ne uscirai”. Dunque, non abbiamo davvero trovato una soluzione se entriamo in un profondo stato meditativo simile a una trance; è solo una fuga temporanea.
Dobbiamo capire: “Credere in uno di questi punti di vista mi libererà non soltanto dalla sofferenza, ma dalle cause della sofferenza?”. Non possiamo semplicemente dire che le loro comprensioni eliminino l’inconsapevolezza, perché tutti definiscono quello che non sappiamo in modo differente, e quindi non possiamo dire solo questo. Dobbiamo esaminare le emozioni disturbanti: rabbia, cupidigia, attaccamento, gelosia, queste cose. Le loro comprensioni mi liberano da tali emozioni? Mi liberano dalla compulsività del karma?
Quando parliamo del karma, è molto frainteso quando viene tradotto come “azioni”. Non vuol dire azioni. E in nessuno di questi sistemi vuol dire azioni. Il problema è che la parola tibetana per karma [las] è la parola colloquiale per ‘azioni’. Pertanto, i tibetani la traducono in inglese come “azioni” perché è la parola colloquiale, ma non significa questo. Perché no? Pensate logicamente. Se le azioni fossero la causa della nostra sofferenza, allora tutto quello che dovremmo fare è smettere di fare qualunque cosa, incluso meditare, mangiare, e anche respirare e saremmo liberati. Questo è chiaramente assurdo, quindi non può essere che dobbiamo smettere di compiere azioni.
Ciò di cui parla il karma – e non voglio entrare in una grande lezione sul karma – è la compulsività del nostro comportamento. È la compulsione che ci porta a ripetere tipologie abituali di comportamento, a ripetere gli schemi comportamentali. È questa compulsione che dobbiamo eliminare, la compulsione di agire in un modo distruttivo o la compulsione di agire in modo positivo. “Devo essere bravo”. Tutta questa compulsione ad essere un perfezionista è proprio nevrotica. Quanta sofferenza c’è in questo? Pensiamo di dover essere in controllo di ogni cosa. Ad esempio, sebbene potremmo pulire in modo compulsivo, non potremo mai pulire abbastanza le nostre case e i nostri corpi. C’è un modo di dire tibetano che è meraviglioso: “Non importa quanto lavi gli escrementi, non li renderai mai puliti”. È un modo di dire fantastico. In maniera simile, dobbiamo sbarazzarci della compulsione.
Poi, abbiamo bisogno di pensare, “Se penso solo di essere separato da tutto, e non mi devo preoccupare di nulla perché sono completamente al di sopra di tutto, questo mi libererà dal mio comportamento compulsivo? Questo mi libererà dall’egoismo, dall’irritazione, eccetera?”. Tutto si riduce a questo, alla nostra pratica, al vedere quali sono i risultati. Ovviamente, la nostra pratica deve essere corretta, non dobbiamo essere negligenti. Una pratica mediocre porta a risultati mediocri. La pratica appropriata porta a risultati appropriati. È molto semplice, vero?
D’altro canto, non dovremmo pensare che seguire questi sistemi indiani non buddhisti e le loro pratiche non siano di nessun beneficio e non ci aiutino a sbarazzarci della sofferenza almeno in una certa misura. La domanda vera è, fino a che punto possono aiutare?
Abbiamo esaminato molto materiale, lo so, ma questa era la versione breve di quello che avevo preparato, volevo cercare di offrire l’essenza di questi argomenti. Se volete imparare tutti i dettagli dei sistemi Samkhya e Nyaya, potete leggerli sul mio sito web. Ci sono moltissime liste. La peculiarità della Nyaya sono davvero le liste – tutte le qualità differenti, tutte le proprietà differenti, tutti i tipi differenti di entità e così via.
La Samkhya è il sistema principale di credenze attorno a cui si struttura il Kalachakra, siccome era il sistema di pensiero non buddhista più popolare a quel tempo. Il Kalachakra è strutturato in modo tale da aiutare le persone a superare l’attaccamento a quel sistema. Le 24 braccia del Kalachakra sono le forme purificate dei 24 tipi di fenomeni materiali e così via. C’è anche una discussione di sattva, rajas e tamas nel sistema astrologico del Kalachakra. Il Kalachakra è strutturato in modo tale che i seguaci della Samkhya potessero sentirsi a proprio agio, ma poi afferma, “Guardate, c’è un modo per trasformare questo”.
Ci sono molti livelli di dialogo e interazione tra il Buddhismo e questi sistemi. Prestare attenzione alle loro posizioni purva paksha ci aiuta ad avere accuratezza e certezza riguardo le affermazioni buddhiste sugli stessi argomenti.