Il contesto
Le sei scuole filosofiche classiche indiane rappresentavano i principali avversari dei buddhisti nei dibattiti dell'epoca. Tra queste scuole, quelle che erano più rilevanti o che si facevano sentire di più, in termini delle scuole con cui i buddhisti interagivano nei dibattiti, erano le scuole Nyaya e Samkhya. In realtà, ciascuna di queste sono due scuole:
- Ci sono le scuole Samkhya e Yoga, la cui differenza principale è che la scuola dello Yoga asserisce un essere supremo, Ishvara, mentre quella Samkhya no.
- La scuola Nyaya, associata alla Vaisheshika, è spesso conosciuta come la scuola Nyaya-Vaisheshika perché le due hanno molto in comune. Ci sono alcune differenze, tuttavia. La Nyaya enfatizza molto di più la logica.
Come rappresentanti di queste due posizioni, parleremo delle scuole Samkhya e Nyaya, e la domanda veramente è, qual è lo scopo di conoscerle se stiamo studiando il Buddhismo? Lo scopo è di acquisire certezza sulle affermazioni filosofiche buddhiste e di avere fiducia della loro validità. Acquisiamo questa confidenza impiegando un metodo seguito dalle cosiddette “tradizioni di Dharma” dell’India, che includono tutte le scuole buddhiste, le scuole giainiste, e, per mancanza di una parola migliore, le scuole induiste, che si riferiscono alle scuole non buddhiste e non giainiste. Questo è un metodo conosciuto con il nome sanscrito purva paksha, che significa “l’altro lato”.
Il metodo purva paksha è, ogni volta che facciamo un’affermazione, di sollevare qualunque obiezione che potrebbe emergere al riguardo – e questo dunque è l’altro lato – e poi di rispondere a tali obiezioni. Fu usato in molti testi scritti dai maestri di Nalanda in India, e poi fu adottato anche in Tibet. Lì fu applicato al dialogo tra le varie tradizioni tibetane che si svilupparono e anche tra maestri differenti nella stessa tradizione tibetana. Si trova in quasi tutti i trattati filosofici scritti in Tibet e in Mongolia.
Come metodo didattico, è meglio utilizzato nel dibattito, sia che lo usiamo in dibattito con i seguaci di un’altra scuola della filosofia indiana, con una tradizione differente del Buddhismo tibetano, oppure con i membri delle nostre comunità monastiche. Potrebbe anche essere usato in dibattito con i sistemi non indiani di pensiero, come quelli della filosofia occidentale o cinese. Sebbene tradizionalmente questo metodo sia stato studiato e applicato in un ambiente monastico, può essere introdotto anche in sistemi secolari, come ad esempio nelle scuole. È anche molto utile adoperarlo nelle nostre meditazioni analitiche concentrandoci su qualche affermazione degli insegnamenti di Dharma, criticandole e poi cercando di scovarne i difetti presentando una posizione alternativa, e poi rispondendo alle critiche, confutando l’altra posizione e chiarendo la nostra affermazione. Questo è il metodo purva paksha – esaminare un insegnamento dall’altro lato.
Ogni volta che impariamo qualcosa nel Dharma, abbiamo bisogno di chiederci, “Quali sarebbero le obiezioni a questo?”. È molto importante poter rispondere a tutte queste obiezioni in modo tale da avere non solo una comprensione accurata di qualunque punto degli insegnamenti, ma anche di essere certi riguardo al loro significato e fiduciosi che corrisponda alla realtà. Questo è fondamentale per poter meditare correttamente ed efficacemente su ogni aspetto degli insegnamenti di Dharma. Se puntiamo a sviluppare una concentrazione esclusiva, assorbita, su qualunque aspetto degli insegnamenti, come il non sé, o uno stato mentale come il bodhichitta, la nostra identificazione del nostro oggetto centrale deve essere assolutamente accurata e decisiva. Non deve esserci nessuna indecisione vacillante al riguardo: “È così?”, “Non ne sono sicuro”, “Ho qualche dubbio al riguardo”. Non può essere così approssimativa. Deve essere precisa, accurata, e decisiva.
Il motivo di studiare queste diverse scuole
Lo scopo, allora, di sollevare tutte queste obiezioni purva paksha e di studiare le varie tipologie di scuole non buddhiste e, all’interno del Buddhismo, i vari sistemi di principi buddhisti è di ottenere un oggetto di meditazione molto chiaro e decisivo in modo tale da poter andare sempre più in profondità e raggiungere le realizzazioni necessarie per ottenere la liberazione e l’illuminazione. Questo è lo scopo. Lo scopo non è quello di avere una sorta di club di dibattito in cui ci coinvolgiamo in argomentazioni legali o qualcosa del genere.
Ovviamente, potremmo introdurre gli elementi economici e sociali che contribuivano a questi classici dibattiti tenuti in India nelle università monastiche come Nalanda. Secondo alcuni accademici – e penso che stiano introducendo un punto importante qui – questi dibattiti erano l’equivalente degli incontri di calcio tra varie squadre. I monasteri erano abbastanza grandi, e avevano bisogno del patrocinio reale per nutrire i monaci e prendersi cura di tutte le spese. La scuola vincente di questi dibattiti otteneva il patrocinio del re; era una competizione, in un certo senso. E dunque, c’era un altro aspetto in questi dibattiti, come ho detto, un aspetto socioeconomico. Ciononostante, il metodo purva paksha di esaminare l’altro lato di qualunque affermazione che facciamo è molto importante a un livello pratico di meditazione.
Ora, riguardo queste due scuole, la Samkhya e la Nyaya, non penso sia necessario esaminare tutte le affermazioni perché non credo che vogliate una lezione come in una classe di religioni comparate all’università. Al contrario, ho pensato di concentrarmi su un solo argomento. Questo argomento è davvero fondamentale, è l’argomento dell’atman, del sé. È proprio fondamentale per comprendere correttamente ciò di cui abbiamo bisogno per ottenere la liberazione e l’illuminazione.
Le caratteristiche comuni di tutte le tradizioni del Dharma
Penso inoltre che sia davvero necessario comprendere come tutte queste tradizioni indiane – che sia quella buddhista, giainista, o come ho detto, per mancanza di una parola migliore, quella induista – trattano tutte gli stessi argomenti. Possono essere chiamate “le tradizioni del Dharma”. È analogo alle nostre “tradizioni di Abramo”, il termine utilizzato nello studio delle religioni comparate per il Giudaismo, la Cristianità, e l’Islam. Le tradizioni di Abramo parlano tutte degli stessi argomenti – Dio, la creazione, il giudizio, e così via – questa è la base comune di queste religioni. In maniera simile, le tradizioni del Dharma, che sono molto diverse da quelle di Abramo, condividono anche molte tematiche.
Tutte le tradizioni del Dharma parlano della rinascita, eccetto una, quella degli Charvaka, che non accettano la rinascita. Tutte le altre dicono che la rinascita avviene sotto l’influenza del karma. Chiamano questa rinascita “samsara”. Sebbene ciascuna tradizione di Dharma possa spiegare il karma in modo differente, tutte concordano che il karma si genera a causa dell’ignoranza, principalmente riguardo a come noi in quanto persone, in quanto “sé”, esistiamo.
La parola sanscrita che tutte queste scuole, incluse quelle buddhiste, usano per un sé è “atman”. Alcune scuole potrebbero anche parlare dell’ignoranza riguardo a come esistono tutti i fenomeni, ma l’ignoranza che genera la rinascita riguarda principalmente come noi esistiamo, e tutte puntano alla liberazione dalla rinascita, sebbene differiscano nella spiegazione di cosa sia la liberazione. Inoltre, tutte hanno la pratica della disciplina etica e un metodo in tre fasi di ascoltare, pensare e meditare. Le pratiche di meditazione per ottenere lo shamatha e la vipashyana sono anche comuni a tutte queste tradizioni, e dunque non sono specifiche del Buddhismo. Tutto questo è in comune.
Inoltre, tutte puntano ad ottenere la saggezza. Non mi piace molto il termine “saggezza”; più accuratamente, si tratta di consapevolezza discriminante – la consapevolezza che distingue tra ciò che è realtà e ciò che non lo è, tra come le cose esistono effettivamente e cosa è solo una proiezione della fantasia. Questa discriminazione e comprensione porterà alla liberazione. Questo è comune a tutte le tradizioni di Dharma. Ciò in cui differiscono sono i dettagli di come tutto questo funzioni, cosa abbiamo davvero bisogno di comprendere, e così via. Questa è una variabile che abbiamo bisogno di comprendere all’interno del contesto sociale indiano delle caste e così via. Comunque, in questa discussione, non voglio addentrarmi troppo in quella direzione.
Negli insegnamenti buddhisti, quando puntiamo alla liberazione dal samsara, “samsara” significa rinascita che si ripete in modo incontrollabile – e dunque la rinascita sotto l’influenza dell’inconsapevolezza di come noi come persone, come “sé”, come “atman” esistiamo. Questa inconsapevolezza riguarda sostanzialmente il non sapere come esiste l’atman. Dharmakirti, tuttavia, afferma che questa inconsapevolezza significa essere confusi, conoscere al contrario, un modo errato, di come esiste il sé. Tuttavia, se vediamo i testi di Vasubandhu e Asanga, il punto è che semplicemente non sappiamo. Ecco perché non mi piace la parola “ignoranza”, perché non è che siamo stupidi; semplicemente non sappiamo. Questa è anche l’affermazione che abbiamo nelle altre scuole indiane – pure per loro, l’inconsapevolezza vuol dire che semplicemente non sappiamo – non è affatto ovvio, non è chiaro come esistiamo.
Afferrarsi a un sé impossibile di una persona
Per ottenere la liberazione, dobbiamo sbarazzarci del nostro non sapere come esistiamo. Per sbarazzarci del non sapere e, specificatamente, del sapere al contrario, abbiamo bisogno di sbarazzarci di ciò che può essere tradotto come “afferrarsi a un atman delle persone”. La connotazione è di “afferrarsi a un atman impossibile delle persone”. Ma la traduzione “atman impossibile delle persone” è fuorviante perché non significa che ci sono persone, dei “sé”, che non possiedono qualche atman impossibile che non esiste affatto; possiedono, al contrario, un atman che è possibile e che esiste. Se questo fosse il caso, ci sarebbero due cose separate – un sé e un atman. Non è questo ciò che dice il Buddhismo. L’espressione significa “un atman impossibile che è una persona”. Quando traduciamo in questo modo, allora possiamo anche comprendere il termine connesso “afferrarsi a un atman impossibile dei fenomeni”, che significa “afferrarsi a un atman impossibile che è un fenomeno”.
Ma allora come tradurre la parola “atman”? La gran parte dei traduttori la traducono con “sé”, e dunque abbiamo i termini “assenza di sé delle persone” e “assenza di sé dei fenomeni”, che è gergo comune per molte persone. Ho spesso tradotto “atman” come “identità”, e così otteniamo delle espressioni effettivamente strane come “assenza di identità delle persone” e “assenza di identità dei fenomeni”. Alcune persone, io incluso, a volte traducono “atman” come “anima”. Ma anche questo è problematico perché “anima” ha così tante interpretazioni differenti nelle tradizioni di Abramo, e dire che le persone non hanno un’anima può dare facilmente un’impressione sbagliata. Inoltre, dire che le persone non hanno un’anima impossibile implica che in effetti hanno un’anima. In molti sensi, potrebbe essere meglio lasciare la parola non tradotta semplicemente come “atman”.
Un altro punto è che le scuole tibetane non-gelug comprendono “afferrarsi a un atman impossibile che è una persona” nel senso di afferrarsi a qualcosa che fondamentalmente non esiste, perché tutti i fenomeni convenzionali sono costrutti concettuali. I gelugpa lo comprendono nel senso di afferrarsi a una persona che esiste come un atman impossibile. Queste due comprensioni sono piuttosto differenti. Ma qui parliamo soltanto della comprensione gelug e lasciamo il termine nel suo uso più comune come “afferrarsi a un sé delle persone” o “afferrarsi a un sé impossibile delle persone”.
Il termine “afferrarsi”, qui, è un’altra parola molto difficile da tradurre perché implica due aspetti. Significa letteralmente “prendere” nel senso di prendere qualcosa come un oggetto di cognizione. Un aspetto è che la nostra mente genera un’apparenza di un modo impossibile di esistere – in questo caso, un modo impossibile di esistere del sé – prendendolo come il nostro oggetto di cognizione. Questo è un aspetto dell’afferrarsi. L’altro aspetto è, quando prendiamo questa apparenza come il nostro oggetto di cognizione, considerare che corrisponda alla realtà, quando non è così. Ma, con la considerazione errata, crediamo che corrisponda alla realtà.
Questo è il problema. Se possiamo sbarazzarci di non sapere che questa apparenza di come esistiamo sia ingannevole, e anche di credere che sia corretta e corrisponda alla realtà – sbarazzarci di tutto ciò in modo tale che questa credenza non sorga mai più – allora avremo ottenuto la liberazione. Quando non crediamo in questa apparenza ingannevole, non abbiamo le emozioni disturbanti di cercare di difendere e sostenere un sé del genere, come in: “Devo avere ragione” e “Tutti devono prestare attenzione a me”, tutto questo genere di cose. Tuttavia, per diventare illuminati, dobbiamo fare in modo che la mente smetta di proiettare queste apparenze ingannevoli, questo primo aspetto dell’afferrarsi. Come ho detto, “afferrarsi” è una parola terribilmente difficile da tradurre perché ha questi due aspetti.
Il sé impossibile basato sulla dottrina e il sé impossibile che sorge automaticamente
In ogni caso, abbiamo questo afferrarsi a un sé impossibile: ciò significa che le nostre menti generano un’apparenza di questo falso sé, e noi crediamo che questo sia chi siamo veramente, che ciò corrisponda alla realtà. Ci sono due livelli di questa credenza errata. La prima è una credenza errata basata sulla dottrina, il che significa che abbiamo dovuto imparare – in questo caso, da una di queste scuole indiane non buddhiste – cosa sia questo sé – ovvero che è un atman – e quali siano le sue caratteristiche e come esiste. Poi, in base a ciò che abbiamo imparato – e dunque si basa su qualche dottrina – ci crediamo. Potremmo immaginare qualcosa di simile in occidente. Ci viene insegnato qualche dogma dalla chiesa riguardante l’anima, ci crediamo, e poi questo diventa il modo in cui pensiamo a noi stessi.
Questa credenza basata sulla dottrina è qualcosa che non sorge in modo automatico. Gli animali non manifestano questa credenza nelle loro vite, sebbene il Buddhismo affermi che rimanga in uno stato inconscio dalle vite passate. Questa è un’altra discussione, ma in questa vita, dovremmo aver ricevuto insegnamenti sull’atman, e questi insegnamenti dovrebbero essere stati specificatamente sulle affermazioni di una di queste scuole indiane non buddhiste. È molto specifico.
Ora subentra il purva paksha. Supponete di ribattere, “Non ho mai studiato queste scuole indiane. Non ne ho mai sentito parlare, quindi come posso avere questo tipo di afferrarsi basato sulla dottrina?”. Questa è una domanda rilevante, perché i testi affermano molto chiaramente che per ottenere un percorso mentale del vedere (un sentiero del vedere) abbiamo bisogno di sbarazzarci dell’afferrarsi, basato sulla dottrina, a un sé impossibile delle persone. Otteniamo un percorso mentale simile e diventiamo un arya conseguendo una cognizione non concettuale delle quattro nobili verità, che include la cognizione non concettuale per cui non esiste questo atman basato sulla dottrina.
Dunque, è ragionevole controbattere, “Non ho mai studiato questo, e quindi come posso liberarmene?”. La risposta che viene data è: “A causa della mente senza inizio, abbiamo avuto rinascite senza che ci sia un inizio. Pertanto, in qualche vita precedente ci hanno insegnato queste false dottrine e abbiamo creduto che fossero vere. Inconsciamente, quella credenza falsa è ancora presente”. Che sia una risposta soddisfacente o meno, ne possiamo discutere. In ogni caso, questa è la risposta che viene data.
In aggiunta a questo afferrarsi basato sulla dottrina, c’è anche l’afferrarsi, che sorge automaticamente, a un sé impossibile di una persona. La tradizione Gelug definisce tale sé impossibile come uno che è conoscibile in modo autosufficiente – uno che può essere conosciuto in sé e per sé senza una base per il sé, come ad esempio la vista del corpo, che viene conosciuto per primo e poi simultaneamente. Le tradizioni tibetane non-gelug definiscono questo sé impossibile come uno che è conosciuto dualisticamente, come se il sé e la mente che lo conosce esistessero indipendentemente l’uno dall’altro. Nuovamente, atteniamoci all’affermazione della tradizione Gelug.
Cosa significa un sé conoscibile in modo autosufficiente? Un esempio comune è: “Voglio che qualcuno ami ‘me’ per quello che sono, non per il mio corpo, o la mia ricchezza; voglio che ami ‘me’ per quello che sono”. È come se qualcuno potesse amare un “io” separato dal suo corpo, la sua personalità, il suo nome, o qualunque cosa. “Io conosco Arnie”. Beh, come possiamo conoscere Arnie? C’è una base per conoscere Arnie. Sappiamo il suo nome. Conosciamo il suo aspetto. Non possiamo conoscere una persona senza sapere qualcosa riguardo a lui o lei come una base. Immaginare che noi come persone, come atman, esistiamo in questo modo, vuol dire afferrarsi a un sé impossibile che sorge automaticamente. Anche gli animali hanno questo. Tutti ce l’hanno. Questo “io” è il sé impossibile e sottile, e ci vuole molto più tempo per sbarazzarsi di questo. È solo quando eliminiamo la credenza in questo che otteniamo la liberazione.
Ma ora parliamo di questo sé impossibile basato sulla dottrina, che è qualcosa che avremmo dovuto imparare in questa vita o in qualche vita precedente, da una di queste scuole indiane non buddhiste.
L’affermazione buddhista del non sé non è nichilista
Un’altra cosa che è molto importante da capire prima di procedere è che quando parliamo di un sé, una persona, un atman, il Buddhismo sta solo confutando un sé impossibile, un sé che esiste in un modo impossibile. Il Buddhismo non sta dicendo che le persone non esistono. Questo è l’estremo nichilista. Convenzionalmente ci sono le persone – tutti i sistemi di principi buddhisti indiani e anche le interpretazioni gelug e non gelug concordano tra di loro. È solo che il sé convenzionale non esiste nei modi impossibili che queste scuole indiane non buddhiste affermano, ed è questo ciò che stiamo confutando.
La scuola Gelug sottolinea come sia molto importante riconoscere e differenziare il sé che non deve essere confutato dal sé che deve essere confutato. Ciò che non deve essere confutato è il fatto che sono seduto qui, e vi sto parlando. Voi siete seduti lì, e mi state parlando. Non è che nessuno vi stia parlando, o che sono qui a parlare con nessuno. Non è così. Ovviamente, noi esistiamo. Un maestro Zen ci colpirebbe con un bastone per dimostrarci che esistiamo. Questo non si fa nel Buddhismo tibetano, ma è un metodo molto efficace per convincerci che effettivamente esistiamo.
Dunque, esistiamo, ma il problema è che abbiamo queste idee matte su come esistiamo. Si basano sul credere che ci sia un piccolo “io” seduto nella nostra testa che è l’autore della voce che sta parlando tutto il tempo, che giudica e decide cosa dovremmo fare ora, e si preoccupa: “Piacerò alle persone? Sono abbastanza bravo? Non sono bravo abbastanza”. Questo “io” è ovviamente un’illusione. Ed è questo il guastafeste perché, quando ci identifichiamo con esso, diventiamo aggressivi, diventiamo avidi, vogliamo sempre avere ragione – questo genere di cose. Questo è il tipo di “io” che abbiamo bisogno di confutare.
Per confutarlo, abbiamo bisogno di avere un’idea chiara di cosa dobbiamo confutare. Tutto nel Buddhismo deve essere abbastanza preciso, e se è preciso, allora la nostra comprensione sarà precisa. Quando la nostra comprensione è precisa, allora, come ho già detto, abbiamo un oggetto efficace per la meditazione. Ciò su cui ci stiamo concentrando non può essere vago; se è vago, le nostre menti non saranno affilate e lucide, e qualunque meditazione che facciamo sarà inefficace.
Essere in grado di identificare precisamente ciò che si sta confutando è il motivo per cui studiamo questi sistemi di principi non buddhisti. Questo perché ciascuno di essi presenta una spiegazione alternativa delle caratteristiche del sé che stiamo trattando – ad esempio qual è la relazione tra il sé e la mente e il sé conosce qualcosa? Tali scuole sfidano le posizioni buddhiste su questi temi e dunque abbiamo bisogno di differenziare la comprensione buddhista dalla loro e dobbiamo accertarci quale sia quella corretta.
Quando studiamo questi sistemi indiani non buddhisti, penso sia molto importante non studiarli con l’atteggiamento arrogante di: “Queste persone ignoranti del medioevo pensavano così”, come se fossimo un antropologo che studia dei pensieri primitivi. Questi sistemi non buddhisti erano molto sofisticati, e i maestri che proponevano queste dottrine non erano affatto stupidi. Abbiamo bisogno di esaminare noi stessi, “Ho qualcosa di simile? Ho questo tipo di pensiero?”, e non trattare questo in modo molto superficiale – dicendo ad esempio, “Beh, ovviamente non credo a queste cose” – ma davvero analizzare e andare sempre più in profondità in questo modo di pensare.
Non dobbiamo acquistare tutto il pacchetto di queste filosofie non buddhiste per esaminare le loro posizioni in noi stessi. Il modo per avvicinarsi a questo materiale è dal punto di vista di: “Quanto è pratico? Come mi aiuterà nella mia vita? Come mi aiuterà nella mia meditazione?”. Altrimenti, potremmo studiare religioni comparate all’università, ma questo non è il Buddhismo.
Quello che ho pensato – e spero non crei troppa confusione – sia di esaminare vari punti riguardo al sé, all’atman, e di vedere ciò che dice la scuola Samkhya, la Nyaya, e ciò che dice il Buddhismo. Poi guarderemo dentro noi stessi per vedere se pensiamo in modo simile alle affermazioni della scuola Samkhya o Nyaya.
Le tre caratteristiche del sé basato sulla dottrina
In generale, il sé basato sulla dottrina che viene confutato è uno che possiede tre caratteristiche:
Statico
Potremmo sentire la parola “permanente” che si riferisce a questa caratteristica. Questa traduzione del termine può essere fuorviante perché “permanente” ha due significati piuttosto differenti, almeno in inglese.
- “Permanente” può significare eterno. Il Buddhismo afferma che il sé è eterno; non ha nessun inizio e nessuna fine. Questo non è il problema.
- L’altro significato di “permanente” è che non cambia, e questo è il significato inteso qui. Non è influenzato da nulla e, pertanto, non cambia. Non fa nulla, non influenza nient’altro.
“Statico” è la parola che uso per questo significato: un “io” statico, non influenzato da nulla.
Senza parti
La seconda caratteristica è “uno”. Beh, cosa significa “uno” in questo contesto? Significa senza parti, il sé non ha parti. Tutto il resto ha parti. Alcune scuole buddhiste affermano atomi senza parti e cose del genere. Non entriamo in questo. In generale, ogni cosa ha parti, ma questo “io” sostenuto da tali scuole non ha nessuna parte. È un monolite.
Alcune scuole sostengono che le sue dimensioni siano pari all’universo, come ad esempio nel pensiero Vedanta, che è la filosofia utilizzata nella gran parte delle moderne scuole induiste. Allora abbiamo questo “atman è Brahma”, e “uno con l’universo” – dunque senza parti in quel senso e tutte le parti sono un’illusione. Oppure il sé è solo una piccolissima monade, come una scintilla di vita o qualcosa del genere, e in quanto tale, non ha nessuna parte. Ecco cosa significa “uno” in questo contesto.
Indipendente
La terza caratteristica è che il sé, l’atman, può esistere in modo totalmente indipendente da ogni aggregato – in altre parole, indipendente da un corpo o una mente – quando raggiunge la liberazione. Questa caratteristica non si riferisce a ciò che va da una vita all’altra. Alcune scuole, come la Nyaya ad esempio, dicono che l’atman sia ciò che si reincarna. Per la Samkhya non è così, loro propongono una spiegazione leggermente differente. Qui “indipendente” significa quando il sé raggiunge la liberazione.
Inoltre, questo atman statico e monolitico, o un sé che può esistere indipendentemente da un corpo e una mente quando raggiunge la liberazione, possiede tre caratteristiche aggiuntive quando è associato a un corpo e una mente:
- È il possessore di quel corpo e mente. In un certo senso, li possiede.
- Vive all’interno di essi, come un loro abitante.
- Fa uso di loro e li controlla. È come se ci fosse un piccolo “io” seduto nella testa che riceve le informazioni dallo schermo degli occhi e dagli altoparlanti delle orecchie e che poi preme i bottoni per controllare il corpo e fargli fare ciò che questo “io” decide.
Vivendo dentro il corpo e la mente come loro abitante, possessore e controllore, questo sé pensa, “Questi sono miei – il mio corpo, la mia mente, la mia personalità, i miei pensieri”. Questo è l’atman, l’io che il Buddhismo confuta.
Ciò che il Buddismo ha in comune con queste scuole indiane non-buddhiste, tuttavia, è l’affermazione che il sé – secondo il Buddhismo, il sé convenzionale, non il falso sé – è immateriale ed eterno. Non è qualche tipo di sostanza materiale. Continua da una vita all’altra, e non ha inizio né fine.
Esaminiamo ora qualche altra caratteristica dell’atman, del sé, e come la Samkhya, la Nyaya, e il Buddhismo li considerano. Partiamo con la relazione tra il sé, la mente, e la coscienza. Come fa il sé a conoscere qualunque cosa?
L’affermazione Samkhya secondo cui il sé sia mera coscienza passiva
La Samkhya afferma che l’atman, il sé, sia coscienza passiva. È passiva, mai attiva, nel senso che, per natura, non è in grado di conoscere nessun oggetto. È semplicemente coscienza.
Abbiamo bisogno di esaminare, “Penso in questo modo?”. Diciamo, ad esempio, che seguiamo la scuola Nyingma, dove apprendiamo che il rigpa è “consapevolezza pura”. È immateriale e dunque non ha un inizio e una fine. È questo ciò che pensiamo sia “io”? È così che cominciamo a lavorare con queste affermazioni non buddhiste con il metodo purva paksha.
Essendo consapevolezza pura, è il rigpa semplicemente una coscienza passiva che non ha nessun oggetto? Beh, sentiamo dire che il rigpa è non duale. Cosa significa? Significa che non c’è nessun oggetto? Quando sentiamo parlare dei termini “oggetto” e “soggetto”, questi non sono proprio ciò a cui si riferiscono i termini tibetani. “Soggetto” in inglese [e in italiano, N.d.T.] significa una persona, mentre in tibetano significa letteralmente “un possessore di un oggetto” e si riferisce alla coscienza, una mente. E poi questi termini vengono utilizzati nell’espressione “soggetto/oggetto non duali”. Cosa significa? Significa che non c’è nessun oggetto, che il rigpa è semplicemente consapevolezza pura, come la coscienza passiva che per la Samkhya è l’atman? Beh, certamente non è così.
“Non duale” in questo contesto significa che un oggetto di cognizione e una mente o coscienza che lo conosce come il suo oggetto cognitivo non esistono come due cose esistenti in modo indipendente. Non possiedono un’esistenza veramente stabilita, o stabilita in sé e per sé, con alti muri attorno ad essi, come cose indipendenti e non connesse tra di loro. Ovviamente, la mente e i suoi oggetti non esistono in questo modo. Se fosse così, non potrebbero interagire; non potremmo conoscere nulla. Ma solo perché la mente e il suo oggetto non sono totalmente differenti e senza connessione, non sono nemmeno identici. Non è che ci sia solo il rigpa, la consapevolezza pura, senza nessun oggetto, e quello sia “io”. Il Buddhismo non dice che quello sia “io”. L’affermazione buddhista sul rigpa, la consapevolezza pura, allora, non è la posizione Samkhya di un atman o sé che è solo coscienza passiva e che, per natura, non ha nessun oggetto.
L’affermazione Nyaya secondo cui il sé non ha per sua natura consapevolezza
Il Buddhismo afferma che il sé e la mente non siano identici. Allora abbiamo bisogno di considerare l’affermazione purva paksha della scuola Nyaya su questo punto. La Nyaya dice che l’atman per sua natura non ha la proprietà della consapevolezza – nessuna coscienza, nessuna consapevolezza. Cosa vuol dire? Come possiamo connetterci a questo? Pensiamo che ci sia un “io” e poi che ci sia una mente, che ha la proprietà della consapevolezza, e che questo “io” usi il cervello per avere una mente e conoscere cose? Questo “io” ha anche consapevolezza? Qual è la relazione tra “io” e la mente? Queste sono le domande a cui dobbiamo essere in grado di rispondere quando analizziamo la posizione Nyaya.
L’affermazione buddhista tra il sé e la consapevolezza
La Samkhya afferma che il sé sia solo coscienza passiva senza nessun oggetto; la Nyaya dice che il sé non ha nessuna consapevolezza. Il Buddhismo non va in nessuno di questi due estremi. Ciò che il Buddhismo dice è che il sé – e ora stiamo parlando del sé che non deve essere confutato –conosce effettivamente oggetti.
Questo è un punto interessante. Potremmo non esserne troppo consapevoli, ma quando parliamo di cosa abbia oggetti, cosa conosca oggetti, non possiamo dire che solo la nostra coscienza visiva veda la forma visibile di qualcosa. Perché se diciamo che solo la coscienza visiva la vede e noi non la vediamo, questo non ha alcun senso. Ciononostante, il sé, l’atman per come è accettato nel Buddhismo, non è un modo di conoscere qualcosa. La coscienza, la mente, è un modo di conoscere qualcosa – conoscere qualcosa con un tipo di coscienza. Sebbene non sia un modo di conoscere qualcosa, ciononostante il sé è consapevole delle cose – noi conosciamo cose.
Questo non è facile da comprendere, ma possiamo vedere come ciò eviti i due estremi. Un estremo è la posizione Samkhya per cui il sé sia mera coscienza passiva, ma non sia un modo in realtà di conoscere nulla perché non ha né cognizione né è consapevole di qualcosa. L’altro estremo è la posizione Nyaya per cui il sé non è consapevolezza passiva e quindi non è un modo di conoscere qualcosa e non è consapevole di nulla. Anche secondo il Buddhismo il sé non è un modo di avere cognizione di qualcosa, ma non è nemmeno solo coscienza passiva; è consapevole delle cose. È, in un certo senso, come una via di mezzo che evita questi due estremi. Abbiamo bisogno di riflettere su questo.
Come il sé è consapevole delle cose secondo il Buddhismo
Secondo la visione Buddhista, come è il sé consapevole delle cose, come conosce le cose?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo comprendere innanzitutto che tipo di fenomeno sia il sé. Ci sono tre tipi di fenomeni non statici – fenomeni che cambiano di momento in momento:
- Il primo sono le forme di fenomeni fisici: viste, suoni, odori, sapori, sensazioni fisiche, e i sensori fisici associati a ciascuno di essi, come le cellule fotosensibili degli occhi. Ci sono anche forme sottili che possono soltanto essere conosciute dalla coscienza mentale, come le viste e i suoni che appaiono nei sogni.
- Poi, ci sono modi di essere consapevoli di qualcosa – è così che solitamente traduco i termini per questi. Qui intendiamo modi di conoscere attivamente qualcosa, se possiamo fare quella distinzione tra il conoscere attivamente qualcosa e semplicemente essere consapevoli di qualcosa. Sia la cognizione sia la consapevolezza sono sempre di qualcosa. Non possiamo semplicemente avere questo estremo Samkhya di solo un modo di essere passivamente consapevoli – consapevoli di cosa? “Consapevolezza” può solo sorgere in base al fatto che ci sia qualcosa di cui è consapevole. I modi di conoscere qualcosa includono la coscienza degli occhi, la coscienza delle orecchie, la coscienza mentale, la rabbia, attaccamento, amore, concentrazione, presenza mentale, l’essere felici di qualcosa, l’essere infelici di qualcosa, e così via. Tutti questi sono modi di avere cognizione di qualcosa. Abbiamo cognizione di qualcosa se ad esempio ci arrabbiamo con essa.
- La terza tipologia sono cose che cambiano da un momento all’altro che non sono le prime due. Un esempio facile è la vecchiaia. La vecchiaia non è una forma di un fenomeno fisico, né è un modo di essere consapevoli di qualcosa. Ma ciononostante cambia di momento in momento.
Il sé è in questa terza tipologia di fenomeno non statico. Cambia da un momento all’altro e non è un modo di avere cognizione di qualcosa o una forma di fenomeno fisico. Come tale è un fenomeno d’imputazione. Un fenomeno d’imputazione è uno che non può esistere o essere conosciuto indipendentemente da una base. Ad esempio, la vecchiaia non può esistere o essere conosciuta indipendentemente dalla sua base – qual è l’età di... In maniera simile, una persona, un sé, non può esistere o essere conosciuto indipendentemente dalla sua base. La base per l’imputazione del sé è un continuum individuale di aggregati – il corpo, la mente, e così via. Alcuni sistemi indiani di principi buddhisti sono ancora più specifici di questo. Il Sautrantika e lo Svatantrika, ad esempio, affermano che, siccome la coscienza mentale è presente in ogni momento, il sé sia un fenomeno d’imputazione sulla base della coscienza mentale e che il sé non possa esistere o essere conosciuto indipendentemente dalla coscienza mentale.
Questi due sistemi di principi vanno oltre e dicono che la caratteristica distintiva del sé si trovi dal lato della coscienza mentale. In altre parole, la coscienza mentale ha la caratteristica distintiva sia della coscienza mentale sia del sé. Questo ha senso. La gran parte di noi automaticamente si identifica con le nostre menti, vero? Probabilmente ciò avviene a causa della voce nelle nostre teste che parla tutto il tempo – pensiamo che questo sia “io”.
Dunque, siccome la base dell’imputazione del sé, la coscienza mentale, conosce attivamente le cose, il sé è consapevole di ciò che la coscienza mentale conosce. Altrimenti, è difficile spiegare come il sé conosca qualunque cosa. E se il sé non conosce nulla, allora cadiamo nell’estremo Nyaya per cui il sé non ha consapevolezza. Poi allora come potremmo mai dire di sapere qualunque cosa o vedere qualunque cosa? Questo contraddice il buon senso, contraddice la nostra esperienza – la nostra esperienza valida – del mondo. Ma poiché il sé è un fenomeno d’imputazione sulla base della coscienza mentale, non è qualche entità separata che meramente osserva ciò che la coscienza mentale conosce.
Sebbene il Buddhismo, come rappresentato da questi due sistemi di principi, asserisca che il sé è consapevole delle cose perché la sua base d’imputazione, la coscienza mentale, conosce cose e ha la caratteristica distintiva del sé, ciò non rende il sé un modo di avere cognizione di qualcosa. Il sé non è identico alla coscienza mentale. Se lo fosse, allora cadremmo nell’estremo Samkhya, per cui il sé è consapevolezza passiva – eccetto che dovremmo concedere che proprio come la coscienza mentale ha sempre un oggetto, così ce l’ha pure il sé.
Dobbiamo esaminare attentamente: è questo ciò con cui ci identifichiamo – che siamo la nostra mente? Come ho detto, la gran parte di noi effettivamente si identifica con questo, è ciò che pensiamo. Pensiamo e crediamo che ci sia una coscienza che abbia una consapevolezza di sé di essere “io”, che pensa a sé stessa in termini di “io”, ed è questo che passa da una vita all’altra. Non è questo ciò che dice il Buddhismo. È vicino a quello che affermano i Samkhya. Dunque, cominciamo a vedere l’importanza di studiare questo materiale purva paksha, di lavorare così? Non è antropologia o religioni comparate. Ha a che fare con quello che crediamo nella vita reale.
Poi, abbiamo bisogno di analizzare quali sono le conseguenze di pensare in questi modi purva paksha. Se ci identifichiamo con la nostra mente, e allora? Che tipo di confusione, che tipo di problemi, emergono da questo? Cosa dire quando ci becchiamo l’Alzheimer o abbiamo demenza senile? Lo ricordo molto bene: mia mamma aveva l’Alzheimer. Non riconosceva più nessuno. Non sapeva nemmeno coricarsi quando la mettevi a letto. Non sapeva come indossare i suoi occhiali. Non sapeva nulla. Siccome vederla così era davvero difficile, mia sorella diceva, “Lei non è più nostra madre”. Ma davvero non è più nostra madre? Non ha più la sua mente e quindi ora è un nessuno? Non ha senso. Beh, chi è nostra madre? Chi è la persona? Se ci identifichiamo soltanto con la nostra mente, ci sono delle conseguenze.
A volte diciamo, “Sto perdendo la testa”, “Ero fuori di testa. Non ero me stesso”. Diciamo o pensiamo cose del genere, ma cosa significano? “Non ero sano di mente”. Ci sono così tante espressioni strane che abbiamo, che non sono solo espressioni, in realtà non sono soltanto il modo in cui pensiamo, ci sentiamo anche così. È qualcosa su cui riflettere. Potremmo passare tutta la serata solo su una di queste espressioni strane. C’è tutta una lista.
Continuiamo, o vogliamo prenderci un momento per riflettere su questo?
È l’io consapevolezza passiva o è la stessa cosa della mente? Oppure l’io è qualcosa che non è consapevole di nulla e non conosce nulla, e quindi è totalmente separato dalla mente? Se fosse così, allora non conosceremmo nulla. Solo la nostra mente conosce, e non è neanche la nostra mente; quindi, noi chi siamo?
Un essere realizzato ha coscienza?
Ma un essere realizzato non ha coscienza.
Se stai pensando a un Buddha che ha solo il rigpa, la consapevolezza pura, e non la coscienza ordinaria, allora OK. Un Buddha non ha la coscienza ordinaria. Ciononostante, un Buddha conosce cose. Un Buddha ha l’onniscienza. Questa è una delle qualità principali di un Buddha. Un Buddha conosce ogni cosa.
Un Buddha ha una mente?
Certamente un Buddha ha una mente. Ci sono tre livelli di modi di essere consapevoli delle cose, e dunque un Buddha possiede solo il modo più puro e sottile di essere consapevole delle cose. Nella scuola Nyingma lo chiamiamo “rigpa, consapevolezza pura”. Nelle altre tradizioni tantriche tibetane, la chiamiamo “mente di chiara luce”. Non significa che un Buddha non conosca nulla. Ovviamente un Buddha conosce cose. Un Buddha è onnisciente e prova compassione per tutti gli esseri senzienti. La compassione è un modo di conoscere cose. Tuttavia, un Buddha non possiede questi livelli mentali più grossolani che noi abbiamo, come ad esempio il livello concettuale. Il rigpa onnisciente di un Buddha o mente di chiara luce onnisciente non conosce le cose in quel modo.
Cosa si sta migliorando quando pratichiamo il Dharma?
Se pratichiamo il Dharma, cosa si sta migliorando?
Diremmo che stiamo migliorando sia il continuum mentale sia per estensione il sé, la persona, “io” – che è un’imputazione sulla base di quel continuum mentale.
Il continuum mentale, composto di non solo coscienza mentale ma dei cinque aggregati, continua da un momento all’altro senza inizio e senza fine. Continua anche nella Buddhità – il punto finale del suo miglioramento, per così dire. Grazie a tale continuum mentale come una base per l’imputazione, c’è un sé, “io”. Se consideriamo l’io in ciascun momento, in ciascun momento gli aggregati che sono la sua base per l’imputazione cambiano e quindi, in un certo senso, il sé anche cambia.
Il sé è un fenomeno non statico. Quando pensiamo a tutti questi momenti di “io”, lo facciamo concettualmente attraverso la categoria di “io”, mentalmente etichettata sulla base di tutti questi “io” come la sua base per l’etichettatura. Tramite questa categoria “io”, ciascun momento di “io” può fungere da base di designazione della parola “io”. Ma il sé, “io”, non è una parola “io”. È ciò a cui la parola si riferisce, ovvero “io”.
Penso che dovrei offrirvi il mio esempio classico. L’esempio classico è un film. Parliamo di un film, ad esempio di Guerre Stellari. C’è ciascun momento del film, da un momento all’altro, da un momento all’altro. Ora, Guerre Stellari non è il titolo “Guerre Stellari”. Questo è solo un nome, non è il film. Questo è il nome del film, e Guerre Stellari non è solo un momento del film. Tuttavia, sulla base di tutti i momenti del film, il titolo che gli diamo, Guerre Stellari, si riferisce al film Guerre Stellari.
Tutto il film Guerre Stellari avviene in un momento del film? No. C’è un film Guerre Stellari? Sì. Abbiamo visto il film Guerre Stellari? Sì. Cosa abbiamo visto? Abbiamo visto solo un momento alla volta. Quando abbiamo visto il secondo momento, il primo momento non era più presente. Cosa abbiamo visto?
Il sé, “io”, è simile a questo. È ciò a cui la parola “io” si riferisce sulla base di ogni momento della nostra esperienza. Ciascun momento dell’esperienza, senza nessun inizio e nessuna fine, incluso quando saremo un Buddha, è formato dai cinque aggregati, cinque fattori aggregati di esperienza, che sono solo uno schema di classificazione. Non sono cinque scatole che esistono lassù in cielo. In ciascun momento, ci sono uno o più oggetti da ciascuno di questi cinque gruppi aggregati, e ciascuno degli oggetti in ciascun aggregato cambia a velocità diverse. Dunque, non c’è nulla di statico e costante, proprio come nel film non c’è nulla di costante – non stiamo parlando della pellicola di plastica del film. Sebbene non ci sia nulla di costante, tuttavia c’è ancora un film, e al film può essere attribuito il nome “Guerre Stellari”. Nel nostro caso, il nome “io”. Abbiamo un nome differente in ogni vita, un nome personale. Questo è irrilevante. Sono “io” per tutto il continuum senza inizio e senza fine; è individuale. Guerre Stellari, nel mezzo, non cambia nel film “Rosemary’s Baby” o qualche altra cosa. Rimane un film, individuale.
Uno degli aggregati che è sempre lì è qualche livello di coscienza, di sapere, sia che stiamo parlando a un livello grossolano solo della coscienza sensoriale, a un livello sottile di pensiero concettuale e sogno, oppure al livello più sottile del rigpa o chiara luce. C’è sempre questo. Siccome tale mente più sottile ha sempre un oggetto, possiamo dire che il sé sa, “io” so, perché il sé è un’imputazione sul continuum mentale come sua base.
Qual è la differenza tra il sé e la mente?
In che modo il sé è diverso dalla mente?
Come ho detto, la mente è un modo di conoscere le cose, e il sé è qualcosa che non è né un modo di conoscere qualcosa né una forma di un fenomeno fisico. La mente non è una cosa. Pensiamo che la mente sia il cervello o cose del genere. Non è così. La mente si riferisce all’attività mentale come descritta da un punto di vista soggettivo ed esperienziale, e tale attività continua di momento in momento. Questa attività ha tre aspetti:
- Il sorgere di un ologramma mentale – la parola per questo è “chiarezza”. Chiarezza non significa che qualcosa sia a fuoco. Significa semplicemente che qualcosa sta sorgendo, sta diventando chiara, che nuovamente non significa che sia a fuoco. C’è sempre un ologramma mentale che sorge. Il punto di vista occidentale è che i fotoni colpiscono la retina dell’occhio, innescando degli impulsi neuro-elettrici e chimici, che in qualche modo vengono trasformati in ciò che possiamo descrivere solo come un ologramma mentale – ciò che conosciamo quando vediamo qualcosa. Questo è un aspetto dell’attività.
- Un altro modo di descrivere questa stessa attività è che si tratta di un impegno cognitivo. Il sorgere di un ologramma mentale si riferisce a conoscere, avere cognizione, di qualcosa. Se è un ologramma visivo di un’immagine, questo è vedere. Se è un ologramma audio di un suono, è sentire. “Ologramma mentale” non significa necessariamente visivo o persino sensoriale. L’ologramma potrebbe essere un pensiero – ovvero pensare. Potrebbe anche essere un’emozione. È questo ciò che significa conoscere, avere cognizione, di qualcosa: è l’attività mentale del sorgere di un ologramma mentale di qualcosa, che equivale a dire un impegno cognitivo con qualcosa. Questi primi due aspetti sono solo due modi differenti di descrivere la stessa attività mentale da un punto di vista soggettivo. Non contraddice la descrizione oggettiva della stessa attività in termini del cervello, neuroni, onde cerebrali, ormoni, e così via.
- La terza parola è “solo questo” oppure “meramente questo”: ciò significa che non c’è nessun “io” separato che stia osservando o controllando questa attività mentale. Inoltre, non c’è nessuna mente separata come una macchina che tale “io” stia operando e mettendo in moto. C’è solo questa attività mentale, che cambia di momento in momento mentre il suo oggetto cambia di momento in momento. “Io” è un fenomeno d’imputazione sulla base di tale attività mentale; il suo marchio distintivo è localizzato dal lato di tale attività mentale, ma questo “io” non è identico a quell’attività mentale. Né l’io è qualcosa che ha la sua caratteristica distintiva localizzata dal suo lato e pertanto potrebbe esistere totalmente separato da tale attività mentale o qualunque base e non essere consapevole di nulla. La prima posizione è quella Samkhya, e l’altra è la Nyaya.
Ci sono alcune differenze significative, tuttavia, riguardo a come la mente conosca le cose e come il sé sia consapevole delle cose. L’attività mentale – ciò che chiamiamo “mente” – conosce le cose dando origine a un ologramma mentale di un oggetto, che è un altro modo di descrivere un impegno cognitivo con quell’oggetto. Il sé, “io”, d’altro canto, conosce le cose semplicemente nel senso di essere consapevole delle cose soltanto impegnandosi cognitivamente con esse. Il sé non dà origine a ologrammi mentali, solo modi di conoscere danno origine a tali ologrammi. Questa è una grande differenza.
Un’altra differenza sorge per ciò che è conosciuta come “consapevolezza subliminale”. Quando dormiamo, ad esempio, soltanto la coscienza delle orecchie sente il ticchettio dell’orologio della sveglia, noi non ne siamo consapevoli. Il sé non sente veramente il suono del ticchettio. Ne ha solamente una consapevolezza subliminale – forse ciò che in occidente chiameremmo “consapevolezza inconscia” di esso. Ma quando suona la sveglia, la consapevolezza delle orecchie la sente, e anche noi la sentiamo. Dunque, l’attività mentale, la mente, è sempre manifesta, mentre la consapevolezza del sé degli oggetti è a volte solo subliminale. Questa è un’altra differenza tra la mente e il sé secondo le spiegazioni buddhiste.