I tour d’insegnamento in giro per il mondo
Poco dopo la morte di Serkong Rinpoche, cominciai ad essere invitato a dare insegnamenti in vari centri di Dharma che avevo visitato con lui. Gli inviti che ricevetti provenivano anche da altri centri dell’Europa occidentale, Nord America, Australasia e Sudest asiatico. La comunità tibetana che avevamo visitato a Lindsay, in Canada, mi invitò pure. Mi chiesero di parlare di Dharma ai loro bambini, siccome il modo tradizionale dei Geshe non funzionava con loro.
Nel corso dei molti anni che viaggiai insegnando in giro per il mondo, mi spostavo quasi sempre da solo, e li consideravo ritiri di bodhichitta. Quando incontravo ostacoli e blocchi mentali nella traduzione o la scrittura di un libro a Dharamsala, sapevo che per sciogliere questi blocchi avevo bisogno di accumulare più forza positiva, il cosiddetto “merito”. Offrire il dono del Dharma agli altri era il modo perfetto per farlo. Nella mia esperienza personale, questo modo di agire funziona, e ho continuato a farlo per tutta la mia vita.
Una volta scelsi di provare a viaggiare con un assistente, e quindi invitai il mio vicino indiano, Rajinder Dogra, ad accompagnarmi. Alla fine, tuttavia, decisi che era meglio viaggiare da solo. Rajinder insegnava geografia al villaggio dei bambini tibetani a Dharamsala bassa, e viveva in un capannone fatiscente nel giardino sotto la mia baracca. Siccome condividevano un rubinetto comunale per l’acqua, diventammo amici. La sua baracca aveva infiltrazioni e c’erano molti spifferi tra i muri; quindi, a volte, durante le tempeste invernali, stava con me per riscaldarsi davanti alla stufa elettrica. Quando andò a lavorare per due anni a Bangkok, in Tailandia, io stavo da lui per fuggire dalle settimane invernali più fredde di Dharamsala. A quei tempi avevo un cane, Tsultrim. Quando non ero a casa, Tsultrim stava dalla famiglia di Renu, la fidanzata di Rajinder. Renu era una maestra di scuola. Imparai molto sulla società dei villaggi indiani passando molto tempo libero con gli amici di Renu e Rajinder e le loro famiglie.
Nel corso dei vari anni in cui insegnavo in centri di Dharma in giro per il mondo, informavo sempre Sua Santità su come stessero andando. Di conseguenza, Sua Santità mi inviò ai monasteri di Ganden, Drepung, e Sera nel sud dell’India per insegnare ai monaci che desideravano diventare maestri e traduttori in occidente. Gli spiegai cosa aspettarsi e come prepararsi. Mi fu anche chiesto di offrire un seminario sui metodi di traduzione a giovani tibetani che aspiravano a diventare traduttori di Dharma. Accettai volentieri e lo tenni a Delhi.
Cominciare ad insegnare nei paesi comunisti
All’iniziazione di Kalachakra offerta da Sua Santità nel 1985 a Rikon in Svizzera, dove mi fu chiesto di offrire incontri esplicativi ogni giorno, fui avvicinato da un rifugiato ceco. Mi disse che c’erano molte persone in Cecoslovacchia interessate al Buddhismo ma che non avevano accesso agli insegnamenti. Ero disposto ad incontrarli? Serkong Rinpoche era sempre andato ad insegnare in luoghi remoti dove nessun altro voleva andare, come viaggiare su uno yak fino al confine indo-tibetano nello Spiti per insegnare ai soldati tibetani dell’esercito indiano. Volendo seguire il suo esempio, accettai di andare, nonostante il potenziale pericolo di essere un americano che esercita attività “religiose” illegali dietro la cortina di ferro.
Qualche mese dopo intrapresi questo primo viaggio; ebbe molto successo, e si sparse la voce negli altri paesi dell’Europa orientale che ero disposto ad andare e insegnare clandestinamente. Fui invitato in fretta e, l’anno seguente, andai in quasi tutti i paesi comunisti. Fu sempre rischioso. Mi ricordo di quando attraversai a piedi il confine ceco-polacco, fidandomi che le persone che mi avevano invitato mi avrebbero preso lungo la strada. Per evitare sospetti, cambiavamo i luoghi dei nostri incontri ogni giorno, e a volte avevamo bottiglie di birra accanto a noi e pretendevamo di giocare a carte in caso si presentasse la polizia.
L’unico posto in cui ebbi problemi fu qualche anno dopo a Cuba. La situazione alimentare era terribile a quel tempo. In alcuni dei nostri incontri, avevano solo crackers e maionese per cena. Dopo la mia seconda visita, quando stavo facendo il check-in all’aeroporto per tornare in Canada (agli americani non era consentito di andare a Cuba e non c’erano voli dall’America), due grandi poliziotti che facevano paura mi presero e mi interrogarono. Una delle persone che aveva partecipato ai nostri incontri era un informatore ed era stata premiata con un’abbondante razione di cibo. I poliziotti avevano i nomi di tutti coloro che avevano partecipato ai nostri incontri, e persino la registrazione di una delle sessioni. Era abbastanza terribile che quello che facevo era illegale, ma ancora peggio perché lo facevo da americano. Dopo avermi terrorizzato e avermi proibito per sempre di tornare a Cuba, mi scortarono all'aereo proprio quando stava per partire
Non appena atterrai a Montreal, contattai l’Ufficio Privato a Dharamsala chiedendogli di informare Sua Santità affinché pregasse per i miei studenti. Fortunatamente nessuno fu arrestato. L’anno seguente, quando mi trovavo a Città del Messico, uno dei cubani che era stato ai miei insegnamenti entrò nel centro di Dharma dove stavo insegnando. Fu molto imbarazzante siccome era ovvio che era stato l’informatore, ma nessuno di noi disse nulla. Era un artista, e per questo era stato pure premiato con il permesso di esibire le sue opere in Messico.
Stabilire i primi contatti per Sua Santità e i tibetani
Ritornai a Dharamsala alla fine del mio ampio tour in Europa orientale del 1987. Un giorno, mentre riflettevo su tutte le mie esperienze mentre viaggiavo, mi venne un’idea. Mi ricordai di quando Serkong Rinpoche stabilì il primo contatto per Sua Santità con Papa Giovanni Paolo II, e pensai che potesse essere utile fare qualcosa di simile. Con il mio dottorato ad Harvard, potevo essere invitato a dare lezioni in università del mondo comunista e forse in altri paesi non occidentali, come l’America latina e l’Africa. In questo modo, potevo stabilire i primi contatti per Sua Santità non solo con accademici, ma forse anche con i leader politici e religiosi di quei paesi. In quanto rifugiati, i tibetani non avevano passaporto, solo documenti di viaggio come rifugiati indiani. Per ottenere un visto dovunque, avevano bisogno di un invito, e non conoscevano nessuno negli altri paesi. Inoltre sapevo che i tibetani avevano bisogno del sostegno di questi paesi alle Nazioni Unite.
Nel corso degli anni successivi, viaggiai molto in tutto il mondo per creare contatti per Sua Santità. Diedi insegnamenti su vari argomenti buddhisti e sulla cultura tibetana in tutto il mondo comunista, e poi in tutta l’America latina, i paesi anglofoni dell’Africa meridionale e orientale, il Medioriente e, dopo lo smembramento dell’URSS, in gran parte delle ex repubbliche sovietiche europee e dell’Asia centrale – circa settanta paesi in totale. Durante questi tour, continuai a dare insegnamenti in centri di Dharma e occasionalmente in università in paesi occidentali e nel Sudest asiatico. Molte istituzioni e ricchi benefattori, dopo aver appreso quello che stavo facendo, offrirono il necessario sostegno finanziario.
Mi occupai da solo dell’organizzazione di tutti questi tour, utilizzando il libro ABC degli orari di volo all’agenzia di viaggi di Dharamsala. Questo era molto prima dell’avvento delle prenotazioni al computer. Solitamente compravo un biglietto andata/ritorno a prezzo pieno da Delhi a Santiago in Cile, che mi consentiva voli con tutte le compagnie aeree e scali illimitati, e avrei aggiunto il 15% di miglia extra. L’unica difficoltà era che non potevo fermarmi in posti dove il prezzo per il viaggio andata/ritorno da Delhi a quella destinazione era più caro che da Delhi a Santiago. Così finalizzavo l’itinerario e prenotavo fino a trenta scali. Come primo scalo andavo sempre a Praga in un’agenzia di viaggio per riemettere il biglietto, aggiungendo gli scali che non ero riuscito a includere nella prenotazione originaria. Siccome il biglietto doveva essere riscritto a mano, era sempre troppo lavoro per la persona dell’agenzia di guardare le tariffe da Delhi per ogni scalo aggiuntivo, e quindi includevano tutte. Così ero in grado di fermarmi in tutti i posti che volevo.
Il tour d’insegnamento più lungo che feci durò quindici mesi, non stop, andando solitamente in due o tre città ogni settimana e alloggiando quasi sempre con persone del posto nelle loro case. Sviluppai una grande flessibilità per adattarmi alle loro usanze, al clima, e al cibo di ogni posto, dalla Tasmania all’Islanda, dalla Siberia a Tahiti, dallo Zimbabwe alla Bolivia, eccetera. La mia routine di meditazione ogni mattina, a prescindere da dove fossi, mi offrì stabilità mentre viaggiavo a questo ritmo vertiginoso. C’era sempre uno spazio familiare dove andare nella mia pratica mattutina.
Le persone che incontrai in quei viaggi, a mia insaputa, avevano le giuste connessioni, e fecero in modo che potessi incontrare gli eminenti leader spirituali dei loro paesi. Così fui in grado di stabilire un primo contatto per Sua Santità con il capo della chiesa ortodossa orientale, il Patriarca Bartolomeo I di Costantinopoli. Viveva in un palazzo in una piccola isola al largo di Istanbul e aveva appena ricevuto l’incarico. Fui il primo buddhista che incontrò. Era molto informale, e mi disse che a breve avrebbe incontrato una delegazione buddhista giapponese. Mi chiese cosa potesse leggere sul Buddhismo per essere preparato, e gli raccomandai uno dei libri di Sua Santità.
Continuai dando l’avvio a un dialogo tra musulmani e buddhisti per Sua Santità. Pensando al retaggio nomadico condiviso tra le popolazioni musulmane e buddhiste dell’Asia centrale e agli sviluppi futuri di questa regione geopolitica, mi incontrai con vari accademici dando lezioni non solo in Uzbekistan, Kyrgyzstan e Kazakhstan, ma anche in Egitto, Giordania, e Turchia. Gli studenti che incontravo mi dicevano di avere tanta sete di conoscenza del mondo esterno, e una chiara indicazione di questo fu quando circa trecento di loro parteciparono alla mia lezione all’Università del Cairo. È ironico che, essendo io ebreo, mi trovassi a insegnare il Buddismo a un pubblico musulmano.
Incontrai anche leader religiosi delle tradizioni indigene del Sudafrica, della Bolivia, e del Brasile. Ci fu un incontro persino con il capo spirituale degli Zulu in una capanna a Bophuthatswana, una delle dieci terre per i sudafricani neri durante il periodo dell’apartheid. Era un uomo enorme dall’aspetto regale, ed era stato un artista. Mi disse che una banda di teppisti gli aveva rotto entrambi i pollici per non farlo dipingere più, e l’avevano bloccato in una gomma cosparsa di benzina, pronti per bruciarlo vivo. Incredibilmente la benzina non prese fuoco, e riuscì a scappare.
Rigidamente seduto in una sedia di ferro dall’aspetto non molto confortevole, mi parlò del mito Zulu secondo cui, in tempi antichi, viaggiatori dello spazio cosmico erano venuti per insegnare la scienza dei calendari. Voleva sapere se i tibetani avessero delle conoscenze simili. Gli spiegai un racconto analogo proveniente dagli insegnamenti del Kalachakra, come mi disse una volta Serkong Rinpoche. Era interessato ad esplorare ulteriormente quest’argomento.
Non tutti gli incontri andarono bene. A La Paz, in Bolivia, il leader indiano Aymara mi parlò della loro celebrazione del solstizio d’estate, e voleva invitare Sua Santità. Ma siccome il rituale prevedeva la placenta di un lama, Dharamsala diplomaticamente rifiutò l’invito. In modo simile, quando il prete Candomblé che incontrai a Rio de Janeiro mi parlò della loro pratica dei sacrifici animali, non suggerii nemmeno un incontro.
Dopo ogni tour, riferivo tutto a Sua Santità presentando dei report dettagliati al suo Ufficio Privato e al Dipartimento dell’Informazione e degli Affari Internazionali spiegando la storia, i costumi, e le credenze religiose di ciascun paese che avevo visitato. Ad esempio, in un possibile incontro con il capo spirituale Zulu, sarebbe stato considerato poco educato guardarsi in faccia a vicenda. Viaggiare in tutti questi posti mi diede anche l’opportunità di perseguire la mia aspirazione da bambino di ottenere una conoscenza universale dei modi di pensare della gente.
Alla fine, Sua Santità fu in grado di visitare molti di questi paesi, e poco dopo, i suoi rappresentanti cominciarono a creare Uffici del Tibet in queste varie regioni. Al momento esistono tredici uffici del genere. Un po’ come le ambasciate, gestiscono le relazioni bilaterali con i paesi nella loro regione e anche con l’Unione Europea e le Nazioni Unite.
L’interesse in una visita del Dalai Lama crebbe notevolmente dopo che gli venne conferito il premio Nobel per la pace nel 1989. Di conseguenza, le persone che avevo conosciuto in tutto il mondo organizzarono incontri per me con ministri e altri alti ufficiali di governo nei loro paesi. Grazie a questi incontri fui in grado di organizzare visite per Sua Santità in Cecoslovacchia, Bulgaria, e Ungheria, dove servii come collegamento e interprete. Ho anche aiutato l’organizzazione delle sue visite nei paesi baltici e in America Latina, ma non lo accompagnai in questi viaggi.
L’evento più indimenticabile durante tutti questi viaggi fu tradurre per Sua Santità quando insegnò al Presidente Vaclav Havel i fondamenti della meditazione per aiutare lui e il suo staff ad affrontare lo stress. Questo accadde solo un mese dopo la caduta del comunismo. Con Havel e il suo staff in tuta, si sedettero tutti su dei cuscini per terra, incluso Sua Santità. Durante la visita, quando Sua Santità apprese che la più vecchia sinagoga in Europa si trovava a Praga, espresse un grande interesse per visitarla. Quando andammo, era in corso la preghiera del sabato mattina. Quando Sua Santità mi chiese di spiegare le preghiere, fui molto grato per la mia formazione scolastica ebraica.
L’uso della medicina tibetana per il trattamento dei pazienti di Chernobyl
Il paese che visitai più frequentemente era l’URSS e, poi, dopo il suo dissolvimento, la Federazione Russa. Cominciando nel 1987 fino al periodo del Covid nel 2020, la visitai una o due volte l’anno. Sebbene avessi imparato velocemente i caratteri cirillici e molte parole russe, non imparai mai la lingua. Molte persone, tuttavia, pensano che io sappia il russo per via del mio nome che sembra russo, e al fatto che avevo revisionato la traduzione inglese dal russo dell’opera di Nikolai Kuleshov, Il documento russo sul Tibet: le pagine sconosciute nella storia dell’indipendenza del Tibet. Con un po’ d’ingegno, fui in grado di farlo grazie a quello che avevo appreso nel seminario di ricerca sinologica ad Harvard. Quando trovavo un brano che non aveva molto senso in inglese, c’erano sufficienti parole affini in russo da essere sempre in grado di orientarmi con il testo originale. Poi, usando un dizionario russo, riuscii a identificare se i traduttori avevano scelto delle traduzioni errate quando una parola aveva molti significati. Usai lo stesso metodo per controllare delle traduzioni discutibili dal sanscrito.
A Leningrado nel 1989, offrii il primo discorso pubblico sul Buddhismo che fu mai dato nell’URSS, e nessuno fu arrestato dopo. Andrey Terentyev, l’accademico buddhista russo organizzatore dell’evento, lo descrisse come un punto di svolta importante nella storia del Buddhismo nell’URSS. La voce si diffuse, e così i buddhisti sovietici non sentirono più che fosse pericoloso incontrarsi apertamente in gruppi. Vari gruppi cominciarono a fare domanda per la registrazione ufficiale. Di conseguenza, nel 1990, grazie alle connessioni di Terentyev, l’ufficio di Mosca del Comitato Centrale Buddhista dei buddhisti dell’URSS mi invitò per una serie di discorsi pubblici sul Buddhismo nella capitale. Sebbene il comitato fosse sotto la sorveglianza del KGB, volevano affermare la loro indipendenza. Di nuovo, non ci furono problemi.
Il comitato mi fece viaggiare con Terentyev nelle tre repubbliche tradizionalmente buddhiste dell’URSS, la Buriazia e la Tuva in Siberia e la Calmucchia vicino il Mar Caspio, e in Mongolia. Questi viaggi mi avrebbero dato l’opportunità di conoscere la situazione attuale del Buddhismo in tutte queste regioni – che erano state quasi del tutto distrutte sotto Stalin – e informare Sua Santità per valutare cosa avrebbe potuto fare per ravvivare il Buddhismo in queste regioni. Mentre mi trovavo a Tuva e in Calmucchia, offrii le prime lezioni pubbliche sul Buddhismo sin dai tempi della repressione.
Il progetto più grande su cui ho lavorato nell’URSS fu con il Ministero Sovietico della Salute. Consisteva nell’organizzare e coordinare l’uso della medicina tibetana per curare oltre un milione di vittime del disastro nucleare di Chernobyl. Natalie Lukyanova, la direttrice del Centro di Medicina Tradizionale del ministero, ebbe un incontro con me durante la mia visita del 1990 e mi chiese di rivolgermi all’Istituto Astromedico Tibetano a Dharamsala per ricevere aiuto. Nessun altro sistema di medicina aveva funzionato fino a quel momento. Nello spirito della perestroika, organizzò una serie di cinque lezioni aperte sulla medicina tibetana e il Buddhismo al ministero stesso.
Qualche mese dopo, tornai con il medico personale di Sua Santità, il dott. Tenzin Choedrak, per condurre una sperimentazione clinica su un gruppo di pazienti. Ebbe molto successo. Siccome il numero di pazienti potenziali era così grande, avevamo bisogno di trovare gli ingredienti erbacei delle medicine nelle montagne Altai della Siberia, costruire una fabbrica per produrre le medicine, e fondare una scuola di medicina per addestrare un numero sufficiente di dottori. Boris Yeltsin, a quel tempo presidente del Soviet Supremo (il parlamento) della Russia, stava dietro al progetto, offrendoci tutte le risorse e le strutture, mentre Lukyanova ed io organizzano tutto. I nostri dottori trattarono persino i membri del Soviet Supremo, che stavano soffrendo molto a causa dell’estremo stress provocato dai cambiamenti radicali dello scenario politico.
Purtroppo, dopo la dissoluzione della Russia alla fine del 1991, il progetto fu abbandonato. Il disastro di Chernobyl aveva colpito le popolazioni della Federazione Russa, dell’Ucraina e della Bielorussia, ma questi tre paesi non volevano cooperare tra di loro. Ognuno di loro voleva il suo progetto, e questo era impossibile. Nonostante questo passo indietro, l’esperienza di organizzare un progetto così enorme mi offrì la formazione e la fiducia per organizzare un altro progetto enorme, quello degli Archivi Berzin e di Study Buddhism.
Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, continuai a sostenere la ripresa del Buddhismo in quelle regioni. Ad esempio, quando arrivò a Dharamsala un primo gruppo di adolescenti dalla Calmucchia – i quali avrebbero frequentato il monastero di Drepung Gomang nel sud dell’India per diventare monaci e poter poi insegnare in Calmucchia – mi presi cura di loro. Per qualche mese prima della loro partenza per Gomang, si riunivano nella mia capanna molte volte a settimana, e io gli davo consigli sulla loro vita futura. Non erano mai stati via da casa, tutto quello che vedevano attorno gli era estraneo e non avevano alcuna idea di cosa gli aspettasse. Alcuni avevano solo dodici anni, e avevano bisogno di una rassicurazione paterna che tutto sarebbe andato bene, e fui felice di aiutarli.
Un leader africano Sufi in visita a Dharamsala
Nel corso degli anni, Sua Santità mi chiese di fare delle “Missioni impossibili” per lui. Questo ha incluso anche invitare un leader Sufi africano con cui potesse confrontare i metodi per sviluppare la compassione, organizzare in Mongolia la pubblicazione delle prime traduzioni di insegnamenti buddhisti nella lingua colloquiale moderna, e preparare un incontro con accademici del Buddhismo all’università di Pechino per parlare di Buddhismo. Sua Santità vide che ero in grado di soddisfare le sue richieste, perché alla fine fu semplice portare a termine questi tre compiti.
Nel mio successivo tour d’insegnamento, incontrai un diplomatico tedesco che lavorava per l’Africa e gli parlai del desiderio di Sua Santità. “Che coincidenza” disse, e poi rispose che era amico del dott. Tirmiziou Diallo – il leader ereditario religioso Sufi della Guinea, in Africa occidentale – che a quel tempo era professore alla Free University a Berlino, in Germania. Contattai Diallo e gli parlai del desiderio di Sua Santità. Mi rispose che sarebbe stato un onore per lui incontrare Sua Santità. Stava pianificando un viaggio in India, e aveva qualche giorno libero prima di cominciare un trattamento spa ayurvedico. I giorni in cui sarebbe stato a Delhi coincidevano con il mio ritorno in India. Qualche mese dopo, lo incontrai a Delhi, e lo accompagnai a Dharamsala per la sua udienza privata. Vestito con un elegante abito bianco, questo grande leader spirituale africano si commosse alla presenza di Sua Santità, e cominciò a piangere. Senza chiedere al suo attendente come farebbe normalmente, Sua Santità personalmente andò nella sua anticamera e prese un fazzoletto, che offrì al maestro Sufi per asciugare le lacrime. Diallo offrì a Sua Santità un tradizionale copricapo musulmano. Sua Santità lo indossò senza esitazione e lo tenne per tutta la durata dell'udienza.
Sua Santità aprì il dialogo spiegando che se sia i buddhisti che i musulmani fossero flessibili nel loro modo di pensare, sarebbe possibile un dialogo aperto e fertile. L’incontro fu molto commovente ed emozionante. Sua Santità fece molte domande sulla tradizione meditativa dei Sufi, specialmente riguardo i lignaggi dell’Africa occidentale che sottolineano la pratica dell’amore, la compassione, e il servizio. I due uomini avevano molte cose in comune. Sia Sua Santità che Diallo si presero l’impegno di continuare il dialogo islamico-buddhista in futuro.
Preparazione dei libri in mongolo colloquiale sul Buddhismo
Per quanto riguarda la missione in Mongolia, per prepararmi ottenni un libro di testo della Germania orientale per imparare il mongolo, perché volevo studiarlo sin dai miei primi giorni ad Harvard. Cercai di impararlo da questo libro, ma anche se riuscii a comprendere facilmente la grammatica, non mi ricordavo le parole. Non c’erano parole affini alle lingue che avevo già studiato e, sebbene questa fosse la stessa situazione in cui mi ero trovato quando imparai il cinese e il tibetano da giovane, questo ora era un grande ostacolo poiché avevo più di cinquant’anni. Decisi che non era il caso di continuare. Nel corso degli anni, appresi alcuni termini di Dharma in mongolo e questo fu sufficiente.
Sua Santità aveva chiesto a Richard Gere, l’attore e benefattore della causa tibetana, di finanziare questo progetto per la Mongolia. Gere, che aveva partecipato a vari miei discorsi di Dharma in passato, mi contattò offrendomi il supporto finanziario per coordinare il progetto. Una volta arrivato in Mongolia, incontrai Kushok Bakula Rinpoche – l’ambasciatore indiano – che accettò di raccogliere e pubblicare alcuni dei suoi insegnamenti. Il suo assistente, Sonam Wangchuk, organizzò il tutto e fummo in grado di completare con successo il progetto.
Insegnare alle università di Pechino
Per incontrare professori di Pechino, Thurman mi nominò come ricercatore all’Istituto Americano di Studi Buddhisti della Columbia University – ne era il presidente – in modo tale che avessi le credenziali giuste per le autorità cinesi. L’Ufficio Privato di Sua Santità poi suggerì di contattare Sander Tideman, che a quel tempo era il responsabile della filiale di Pechino della banca olandese ABN. Divenne in seguito un ricercatore associato alla Erasmus University. Grazie alle sue connessioni, fu in grado di organizzare incontri con accademici buddhisti dell’università di Pechino. Alla fine erano molto interessati al tantra, che gli spiegai in modo accademico. Io invece gli chiesi di condividere la loro ricerca sull’adattamento mancese del Buddhismo tibetano. Grazie a questi scambi, Sua Santità comprese il sincero interesse nel Buddhismo tibetano tra gli accademici buddhisti in Cina.
L’aiuto nelle conferenze e negli incontri
Oltre a svolgere missioni che Sua Santità mi aveva chiesto esplicitamente di fare, organizzai altri progetti su mia iniziativa, e uno di questi si concentrò sul far conoscere a Sua Santità persone il cui lavoro poteva interessargli. Ad esempio, nel 1985, quando ero in Svizzera per l’iniziazione di Kalachakra di Sua Santità, fui in grado di organizzare un’udienza per Boszormenyi-Nagy che era in viaggio per offrire insegnamenti, con Catherine come interprete. Sua Santità non aveva mai incontrato un terapeuta familiare, e pensai che siccome il punto centrale della terapia contestuale era l’etica relazionale, sarebbe stato particolarmente interessato a conoscerlo.
Durante l’udienza, a cui partecipò anche Catherine, Sua Santità fece una domanda sulla differenza tra l’etica buddhista e l’etica relazionale. La risposta fu che mentre l’etica buddhista viene definita mediante una serie di valori prestabiliti, l’etica relazionale si basa sulla reciprocità della cura e su una definizione relazionale dell’equità. Questo significa che il grado di equità o sfruttamento che avviene in una relazione deve essere definito attraverso un dialogo in cui tutti i partecipanti hanno bisogno di definire cosa voglia dire “equità” in relazione o in opposizione a cosa sia un’ingiustizia; ognuno inoltre deve mostrare la disponibilità a rispettare il punto di vista dell’altro, nel senso che non è meno valido del loro. Nella relazione genitore-figlio, nel contesto dell’etica relazionale, è responsabilità dei genitori proteggere i figli; inoltre devono astenersi dallo sfruttarli.
Questo andava bene per Sua Santità, ma ancora non capiva la differenza tra l’etica buddhista e l’etica relazionale; secondo lui i genitori, specialmente le madri, sono sempre gentili e accudenti verso i loro figli. Fu necessario spiegargli che questo non è sempre così, e che in certe famiglie, i bambini possono persino essere abusati sessualmente dai loro genitori. Sua Santità era così scioccato dall’idea dell’incesto che fu difficile per lui ricominciare una conversazione. Invece proseguì facendo domande sulla vita di Boszormenyi-Nagy, e quando scoprì che era finito negli Stati Uniti come rifugiato politico dall’Ungheria comunista, gli sorrise e lo prese per mano, dicendo: “Siamo uguali”. Così l’incontro si concluse. Mi resi conto di quanto fosse difficile tradurre il lavoro di professionisti occidentali nel mondo in cui viveva Sua Santità.
Nel 1987, conoscendo l’interesse di Sua Santità nella scienza e nella mente, organizzai un’udienza per il mio vecchio compagno di stanza di Princeton, Michael Goldstein, a quel tempo un eminente neurologo pediatrico. Venne con la moglie e i tre figli piccoli, e tutti si unirono all’incontro con Sua Santità. Usando un modello plastico del cervello, spiegò a Sua Santità le funzioni di ogni parte. Non avevo alcuna idea che i primi dialoghi con gli scienziati (che hanno posto le basi per le conferenze Mind & Life, “Mente e Vita”) sarebbero avvenuti solo qualche mese dopo.
Nel 1983, Sua Santità partecipò ad una conferenza sulla coscienza dove incontrò Francisco Varela, un biologo e neuroscienziato nato in Cile che aveva molta influenza sulle scienze cognitive, e R. Adam Engle, un imprenditore sociale americano. Conoscendo l’interesse di Sua Santità nella scienza, Engle si offrì per organizzare e finanziare un dialogo per lui con gruppi di altri scienziati. I primi dialoghi del Mind & Life, l’antesignano dell’Istituto Mind & Life, avvennero a Dharamsala nell’autunno del 1987 con sei scienziati, incluso Varela. Ebbi pure io la grande fortuna di partecipare a questo storico incontro, nonché a molti altri, come osservatore. Nelle serate dopo gli incontri, durante le vivaci discussioni a cena, offrivo poi il contesto buddhista agli scienziati quando era necessario. Ho svolto un ruolo simile per gli incontri di Sua Santità con i leader ebrei nel 1990.
Siccome vivevo a Dharamsala, tra un tour e l’altro all’estero, avevo l’opportunità di partecipare a vari incontri. Nel 1993, presi parte alla prima conferenza della Rete degli Insegnanti Buddhisti Occidentali con Sua Santità. Uno degli argomenti principali fu la discussione degli abusi sessuali da parte di maestri buddhisti nei confronti di studenti dei centri di Dharma occidentali. Il consiglio di Sua Santità fu di rendere pubblici questi scandali se i maestri non cambiavano i loro comportamenti quando gli veniva posto il problema. Il risultato di questo dialogo fu che Stephen Batchelor e io scrivemmo insieme una Lettera Aperta contenente linee guida per maestri di Dharma, che fu pubblicata al termine della conferenza.
In una delle sessioni emerse pure l’argomento della bassa autostima e dell’odio di sé tra gli occidentali. Come nel caso dell’incesto, Sua Santità non aveva mai ascoltato cose del genere, e chiese a ciascuno di noi nella stanza se provasse tali sentimenti negativi; tutti noi confessammo di averli provati. Come accadde per l’incesto, Sua Santità ne fu scioccato, perché non l’aveva mai sentito prima.
Documentare la situazione dei mongoli in Cina
Nel 1994 feci un grande tour nella Mongolia interna, la Manciuria del Sud, e le regioni dei mongoli Dzungar a nord dello Xinjiang, vicino la catena montuosa dell’Altai. I Dzungar sono connessi ai calmucchi, e un professore calmucco che avevo incontrato in Calmucchia stabilì alcuni contatti per me. Sua Santità riceveva molte informazioni sulla situazione del Buddhismo nelle regioni tibetane della Cina, ma non aveva molte informazioni sulla situazione del Buddhismo tibetano tra i vari gruppi mongoli. Volevo dargli queste informazioni, e anche altre sulla situazione del Buddhismo e dei buddhisti in generale in Cina confrontandola con la situazione dei musulmani. Per questo visitai anche la terra natìa dei musulmani Hui nel Gansu e le istituzioni uigure musulmane ad Urumchi, nello Xinjang. La conclusione fu che a quel tempo, i mongoli avevano molto meno accesso agli insegnamenti buddhisti rispetto ai tibetani, e i buddhisti avevano molte più restrizioni dei musulmani. Molti dei monasteri buddhisti che visitammo nella Mongolia interna sembravano come istituti geriatrici – non incontrammo nessun mongolo giovane in nessun posto.
Intrapresi questo lungo viaggio, che comprendeva il Tibet centrale, l’Amdo, le repubbliche islamiche dell’Asia centrale, la Mongolia e la Buriazia, con Ernesto Noriega, un antropologo peruviano specializzato nell’aiutare i popoli indigeni a preservare le loro tradizioni, e Igor Berhin, un traduttore ucraino del russo e del cinese. Noriega risiedeva a Dharamsala a quel tempo, e stava lavorando a un progetto per documentare e preservare l’architettura tradizionale tibetana, e per insegnarla agli studenti tibetani interessati. Si unì al viaggio per fotografare le caratteristiche e i dettagli architettonici dei monasteri che visitavamo. Berhin era stato un mio traduttore a Donetsk in Ucraina, che avevo visitato molte volte subito dopo la dissoluzione dell’URSS. Per quasi tutto il tempo in cui fummo in Cina, visitò il suo maestro di arti marziali nella Manciuria.
Non era molto piacevole viaggiare in Cina a quei tempi. Durante i lunghi tragitti in treno, il cibo principale che vendevano in stazione erano salsicce d’asino. Mangiammo sempre noodle istantanei [spaghetti molto comuni in Cina e in Asia in generale, N.d.T.], che si trovavano dovunque. Una volta, quando eravamo nella Mongolia interna, Ernesto ed io noleggiammo un taxi per andare a vedere un monastero nel deserto del Gobi. Ci eravamo messi d’accordo sul prezzo prima di partire, ma a metà strada, nel bel mezzo del nulla, l’autista cinese si fermò e chiese il doppio del prezzo pattuito. La mia tendenza era di evitare conflitti, e avrei accettato questa richiesta, ma Ernesto non voleva mollare. Dopo un’accesa discussione con l’autista, che non voleva cedere, Ernesto uscì fuori dal taxi, e io lo seguii imbarazzato. Fortunatamente fummo in grado di fare l’autostop per il resto del viaggio, e non rimanemmo bloccati come era mio timore.
Mentre ci trovavamo nell’Amdo, ebbi un’esperienza indimenticabile nel monastero di Gonlung (dGon-lung) nella regione mongola Monguor vicino lo Xining. Il monastero era un famoso centro di formazione della scuola Gelug. Era la sede di molti lama eminenti, che comprendeva i lignaggi dei rinpoche Changkya (lCang-skya), Jamyang zhepa (‘Jam-dbyangs bzhad-pa), e Tuken (The’u-kvan). Gli edifici e il paesaggio mi erano molto familiari, come se avessi vissuto lì in una vita precedente.
Per soddisfare il mio interesse di lunga data sull’Asia centrale, visitammo anche i siti principali lungo la via della seta nello Xinjiang e attraverso le vecchie repubbliche sovietiche dell’Asia centrale dove un tempo fioriva il Buddhismo. Vedere la collocazione geografica di queste città-oasi rese le loro storie più vive per me. In Khotan ebbi un’esperienza simile a quella di Gonlung. Il Khotan giace ai piedi delle maestose montagne Kunlun, che scendono drammaticamente dall’altopiano tibetano ai confini del deserto del Taklamakan, che si trova sotto al livello del mare. Non c’era nessuno il giorno in cui andai a visitare le rovine. Noriega non si sentiva bene e rimase in albergo, e l’autista cinese del taxi rimase in macchina. Mentre vagavo da solo tra le rovine, mi sentii stranamente e totalmente a casa.
Lo Xinjiang a quel tempo manteneva ancora molti elementi tradizionali. Il Khotan aveva un mercato locale molto colorito dove i contadini e i pastori scendevano dalle montagne con i loro abiti tradizionali per vendere i loro prodotti. Dal Khotan prendemmo un minibus notturno per Kashgar. Quando arrivammo all’alba alla periferia della città, c’era molto traffico per via degli asini che trasportavano i prodotti locali a un mercato.
Il nostro viaggio non fu privo di pericoli. Nel Gansu, andammo nel distretto dove vivevano i Yugur gialli. Erano dei popoli turchi che, come i mongoli, avevano adottato il Buddhismo tibetano. A nostra insaputa, l’area era vietata agli stranieri, perché era vicina al centro spaziale cinese. Quando le autorità locali si accorsero della nostra presenza, la polizia ci venne a prendere e, dopo aver ricevuto un forte avvertimento, ci scortarono alla stazione degli autobus e ci mandarono via.
Documentare le politiche post-coloniali in Africa
Dopo un breve soggiorno a Dharamsala per offrire un resoconto della nostra avventura cinese, partii per un grande tour dell’Africa, per insegnare e incontrare accademici nelle università dei paesi che parlavano inglese a sud e ad est del continente. Scoprii che nella gran parte di questi paesi imperversava l’AIDS. Ad esempio in Uganda, le persone che mi ospitarono mi dissero che una famiglia media aveva dieci o più figli. Ma poi, a causa di questa epidemia, genitori e figli cominciarono a morire. Quando si riempirono i cimiteri, i morti iniziarono ad essere seppelliti nei giardini delle famiglie. I nonni poi si prendevano cura dei nipoti sopravvissuti, ma con molte dozzine di nipoti da accudire e a cui dare da mangiare, erano disperati e avevano bisogno di aiuto. Sfortunatamente, a differenza dei missionari cristiani, non ero in grado di offrire sostegni finanziari per costruire orfanotrofi e alleviare la loro sofferenza.
Con gli accademici africani che incontrai durante questo tour, mi concentrai sull’apprendere da loro le azioni intraprese dai loro paesi – e la loro efficacia – per ristabilirsi come nazione nel periodo post-coloniale. L’esperienza di ogni paese era diversa, cosa che avevo anche notato in tutte le ex-repubbliche sovietiche da me visitate dopo la dissoluzione dell’URSS. Feci un’analisi che presentai a Sua Santità sulle lezioni che si potevano apprendere dalle esperienze africane ed ex-sovietiche per progettare un periodo post-coloniale in Tibet.
Avviare un dialogo tra buddhisti e musulmani
La mia strategia per avviare un dialogo tra buddhisti e musulmani con gli storici islamici – incontrati insegnando nelle università dell’Asia centrale e del Medioriente – fu di chiedergli quali fossero i racconti musulmani dell’interazione con i buddhisti nell’Asia centrale e nel subcontinente indiano. Menzionai il fatto che le storie britanniche presentavano i primi conquistatori musulmani semplicemente come fanatici religiosi che volevano distruggere il Buddhismo. L’impero britannico voleva dimostrare quanto fosse benevolente il loro dominio dell’India rispetto ai primi invasori musulmani, e ai Moghul che seguirono. Le storie dinastiche cinesi presentavano un quadro altrettanto distorto. La mia ipotesi era che, sebbene ci siano stati sempre fanatici religiosi e violenti, la causa principale delle conquiste era economica, com’è solitamente il caso per tutte le invasioni. Qui il punto principale era il controllo della via della seta e del commercio in India per poter riscuotere le tasse. Gli accademici islamici corroborarono la mia ipotesi esprimendo un’enorme gratitudine per il mio approccio più equilibrato.
Il risultato di queste discussioni è stato l’articolo pubblicato su StudyBuddhism dal titolo “L’interazione storica tra le culture islamiche e buddhiste prima dell’impero mongolo”. Per arricchire queste discussioni, ho esaminato la letteratura secondaria sull’argomento disponibile nelle biblioteche negli anni ’90 che ho visitato in giro per il mondo. La biblioteca principale che ho consultato è stata la biblioteca Widener ad Harvard – dove ho messo in pratica le mie competenze nella ricerca apprese durante gli studi postlaurea – e che poi avevo affinato con il progetto di ricerca sulla cultura cinese, che ha richiesto l’esame di varie pile di libri. Nel corso degli anni ho scritto molte ampie note su più di mille libri e articoli – in varie lingue – sulla storia e le religioni dell’Asia centrale. Fanno parte del materiale che in seguito ho chiamato “Gli Archivi Berzin”.
La scrittura di libri e la preparazione di manoscritti
Durante le pause tra i tour, in questo periodo pieno di viaggi intensi, dal 1984 al 1997, scrissi anche vari libri per la pubblicazione e preparai i manoscritti per molti altri. Grazie alla mia esperienza d’insegnare e incontrare studenti in vari centri di Dharma nel mondo, notai molti argomenti che non erano stati ben compresi. Quello più urgente era la relazione con un maestro spirituale. Mettendo in pratica la lezione che mi aveva offerto il professor Kaufman a Princeton, lessi varie fonti primarie sull’argomento da tutte e quattro le tradizioni tibetane e scrissi l’opera Il rapporto con il maestro spirituale [Ubaldini editore, Roma, N.d.T], rititolato nella seconda edizione Maestro saggio, studente saggio: approcci tibetani per una relazione sana [in inglese, N.d.T.].
Un altro problema era che molti studenti di lunga data non progredivano più nella loro pratica. Potevano recitare una sadhana tantrica ogni giorno, ma sembrava non sapessero come applicare il Dharma nei problemi emotivi della vita quotidiana, ad esempio nelle loro relazioni personali. Le strutture concettuali del Dharma e della psicologia occidentali erano troppo differenti. Ad esempio, non ci sono termini di Dharma per insicurezza, bassa autostima, insensibilità, ipersensibilità, e così via. Non c’è neanche una parola per le emozioni.
Seguendo la mia aspirazione di fare da ponte tra le culture, e avendo avuto l’esperienza di spiegare strutture concettuali nuove a Sua Santità, scrissi il libro Sviluppare una sensibilità equilibrata [Ubaldini editore, Roma, N.d.T.] per far fronte a questo bisogno. Il libro presenta un approccio strutturato per sviluppare una sensibilità equilibrata verso i sentimenti nostri e degli altri, e nei riguardi del nostro comportamento sugli altri e su noi stessi. Offre un ampio programma di formazione con ventidue esercizi. Un’altra motivazione per sviluppare questo programma era di lavorare sulla mia insensibilità verso gli altri.
Durante questi viaggi continuai anche a perseguire il mio interesse di una vita ad avere una conoscenza universale dei modi di pensare. Ad esempio mi incontrai molte volte a Zollikon, in Svizzera, con la psicologa Dora Kalff, una discepola personale di Carl Jung e fondatrice della terapia del gioco della sabbia. Oltre a spiegarmi il suo lavoro, mi insegnò il sistema medievale della numerologia che aveva imparato da Jung. Lo utilizzava, assieme all’astrologia, per avere un’idea iniziale di come approcciarsi a pazienti non comunicativi. Questo mi offrì una prospettiva diversa su come vedere gli insegnamenti astrologici e il sistema simile alla numerologia del “sorgere dalle vocali” che si trovano nel Kalachakra. Erano strumenti per poter combattere la battaglia interna contro le forze “barbariche” delle emozioni distruttive e degli stati mentali.
La morte di mia madre
Nel corso di questi viaggi, la mia famiglia fu colpita da una tragedia. Mia madre a poco a poco mostrò i segni dell’Alzheimer. Era in pensione e viveva in una comunità per anziani in Florida. Quando la visitai nel 1991 mentre ero in tour in America, si mise a riscaldare sul fuoco un contenitore di latte fatto di cartone, e quindi mi resi conto che era troppo pericoloso per lei continuare a vivere da sola. La accompagnai a casa di mia sorella nella Carolina del nord per una cena del Ringraziamento e, con il suo consenso, decidemmo di spostarla in una casa di riposo, dove deteriorò velocemente. Dopo poco tempo non fu più in grado di mettere insieme qualche parola e non riuscì più a coricarsi da sola. La sua salute generale era buona, e quindi sopravvisse per altri quattro anni fino alla sua morte nel 1995.
Mi trovavo in Costa Rica quando morì, ma nessuno sapeva come raggiungermi. La mia prossima tappa sarebbe stata Caracas, in Venezuela, dove rimasi per un po’ di tempo con i miei vecchi amici di Dharamsala, Roberto ed Elayne Slimak, un ricca coppia che faceva affari nel paese. Mia sorella conosceva il suo numero e riuscì a raggiungermi. Volai nel New Jersey in tempo per poter gettare le sue ceneri nelle grandi cascate del fiume Passaic a Paterson, la nostra città natale. Era uno dei posti preferiti di mia madre. Avevo un calendario d’insegnamenti e biglietti aerei per il resto del mio tour in America Latina, e dovevo tornare a Caracas subito dopo, e quindi non fui in grado di unirmi a mia sorella per gettare alcune ceneri sulla tomba di mio padre, né di unirmi al resto della famiglia per il lutto.
Quello che mi aiutò a tornare al mio tour fu il ricordo di quando morì la madre di Sua Santità nel 1981. Accadde durante un insegnamento che stava offrendo a Bodh Gaya con me come traduttore. Sua Santità condivise la notizia della sua morte con il pubblico, e durante il resto della sessione, recitammo tutti il mantra “Om mani padme hum” per lei. Ma poi, come atto di rispetto per tutte le persone che erano arrivate da lontano per ascoltare gli insegnamenti, Sua Santità ricominciò il giorno dopo. E così feci anche io.