I nove veicoli secondo i Nyingma

Gli insegnamenti dei Sutra

Se consideriamo il tantra in generale, non è qualcosa che possa essere compreso separatamente dagli insegnamenti di base dei sutra. È interamente costruito sulle fondamenta dei sutra, e quindi deve essere praticato nel contesto degli insegnamenti di base dei sutra. Quando si tesse una stoffa o un tappeto, ci sono delle corde su cui intrecciarlo; la parola tantra deriva proprio dal termine che le indica. Queste, dunque, sono le pratiche in cui intrecciamo tra loro tutte le cose che abbiamo imparato nei sutra. Pertanto, quando ci visualizziamo nella forma di una divinità, ossia in una forma di Buddha, le braccia, i volti e le gambe rappresentano tutti i diversi punti tratti dai sutra.

Il rifugio nei tre gioielli

Tutti noi abbiamo una preziosa rinascita umana. È davvero importante apprezzarla. È qualcosa di molto, molto prezioso e di grande valore, perché è l’unica base su cui possiamo conseguire la liberazione e l’illuminazione. Non è qualcosa da dare per scontato. Come ha detto uno dei miei insegnanti, è come se fossimo in vacanza, temporaneamente, dai regni inferiori: dobbiamo stare molto attenti, altrimenti vi faremo ritorno.

La morte giungerà di sicuro – questo è certo. Non sappiamo mai quando. E a esserci di qualche aiuto saranno soltanto le misure preventive che abbiamo adottato per evitare di ritornare nei regni inferiori – cosa che certamente non vogliamo. Possiamo pensare a tutte le terribili sofferenze – a quanto sarebbe orribile essere insetti che vengono divorati vivi da altri insetti, o fantasmi, o creature infernali. Lo sappiamo tutti – e quindi ne abbiamo paura. E la paura, qui, non è quella paralizzante in cui ci sentiamo semplicemente impotenti e senza speranza, ma è una situazione in cui sappiamo che c’è un modo per evitare questa caduta: immettere una direzione sicura e positiva nella nostra vita – normalmente ciò è detto “rifugio”. È molto importante non banalizzare questo punto.

Dunque, qual è la vera fonte di tale rifugio, la fonte del modo in cui possiamo proteggerci da rinascite peggiori? Questo è il gioiello del Dharma. Che cosa vuol dire? Ci sono molti livelli differenti in cui possiamo comprendere il gioiello del Dharma. Se guardiamo al livello più profondo, si riferisce alla terza e alla quarta nobile verità.

  • La terza è il vero arresto della sofferenza e delle sue cause. E questo a che cosa si riferisce? Se pensiamo nei termini dello dzogchen, stiamo parlando del rigpa, la pura consapevolezza. È qualcosa che tutti possediamo. È individuale: non è qualcosa di collettivo cui connettersi, lassù in cielo. Si riferisce al livello più sottile e puro del nostro continuum mentale. Ed è qualcosa che è totalmente libero, per natura, da tutti gli oscuramenti – per questo è vero arresto della sofferenza e delle sue cause – e ricco, o pieno, di tutte le qualità positive. Tuttavia, come è detto in molti testi Nyingma, il rigpa, questa pura consapevolezza, ha bisogno di “riconoscere il proprio volto”; ciò significa che, sebbene ci sia tale pura consapevolezza, noi non ce ne rendiamo conto, e pertanto non possiamo realmente farne uso.
  • Quindi abbiamo la quarta nobile verità: l’acquisizione di una profonda consapevolezza che ci permetta di avere la piena realizzazione del rigpa. E così, se possiamo avere accesso a questo stato puro e non lasciare che la sofferenza e le sue cause lo offuschino (e questi due aspetti corrispondono alla prima e alla seconda nobile verità), evitiamo non solo rinascite peggiori, ma tutta l’incontrollabile ricorrenza delle rinascite. Che si tratti di stati peggiori o migliori, si tratta comunque di samsara. “Samsara” significa incontrollabile ricorrenza delle rinascite, più e più volte; è “incontrollabile” nel senso che è sotto l’influenza del karma e delle emozioni disturbanti.

Questo è dunque il gioiello del Dharma. È la direzione in cui vogliamo andare. “Voglio realizzare pienamente il rigpa che è dentro tutti noi e restare con esso”. I Buddha – il gioiello del Buddha – sono coloro che hanno pienamente raggiunto questo livello e ci hanno mostrato come conseguirlo, mostrandoci e insegnandoci come farlo da soli. E il gioiello del Sangha si riferisce all’Arya Sangha. L’Arya Sangha è costituito da coloro che hanno raggiunto questo obiettivo in parte – non pienamente, come hanno fatto i Buddha. È un punto molto importante da capire.

Quando parliamo di Buddha non stiamo parlando veramente di un personaggio storico simile a quelli delle nostre religioni bibliche. In queste, figure come Mosè, Gesù o Maometto ricevono delle rivelazioni, delle istruzioni da Dio; sono loro gli unici ad averle ricevute, quindi noi, per ottenere una qualche forma di salvezza, dobbiamo credere in loro e seguirli. Non possiamo fare quello che hanno fatto loro. Non possiamo diventare altri Mosè, Gesù o Maometto. Questa è una differenza molto importante: noi stessi possiamo diventare dei Buddha. Shakyamuni e Guru Rinpoche sono soltanto alcuni dei tanti, molti, moltissimi esseri che hanno raggiunto l’illuminazione, quindi è molto importante non trasformarli in altrettanti Mosè, Gesù o Maometto. Tutti possiamo raggiungere l’illuminazione. E loro possono mostrarci la via, possono ispirarci, possiamo chiedere la loro ispirazione, ma non si tratta di aprirci e diventare illuminati mediante la loro grazia: questo non è buddhismo. Abbiamo tutti il rigpa, tutti possediamo questa pura consapevolezza. Abbiamo tutti le basi per raggiungere l’illuminazione, tutti possediamo la cosiddetta “natura di Buddha”.

Il karma

Così, pensiamo a tutti i diversi tipi di sofferenza:

  • La sofferenza dell’infelicità e del dolore. Giusto? Si tratta principalmente dell’infelicità che potremmo vivere. Anche quando fisicamente proviamo un qualche piacere, potremmo comunque essere mentalmente infelici. E non piace a nessuno. Nessuno vuole questo: nessuno vuole essere infelice.
  • E poi abbiamo la nostra felicità ordinaria. È anch’essa qualcosa di insoddisfacente, perché non dura, non ci soddisfa mai e ne vogliamo sempre di più. Abbiamo sempre paura di perderla, quindi ci afferriamo a essa. E, se ne abbiamo troppa per troppo tempo, si trasforma in infelicità e siamo insoddisfatti – così come mangiare troppo gelato, alla fine, ci farà star male.
  • Ma la più profonda sofferenza del cui superamento si parla nel buddhismo è ancora più profonda. È la base su cui viviamo gli alti e bassi dell’infelicità e della felicità ordinaria. Ed è il samsara stesso: un’incontrollabile ricorrenza delle rinascite con corpo e mente di tipo ordinario, che sono in grado di provare l’infelicità e la felicità ordinaria.

E tutto ciò avviene a causa della fondamentale compulsività del nostro karma. Quando parliamo di karma, è molto importante capire a che cosa ci riferiamo. Non stiamo indicando il destino o qualcosa di simile. Stiamo parlando di compulsività. C’è un aspetto compulsivo nel nostro comportamento. A causa delle nostre abitudini ad agire sotto l’influenza della confusione, ci piacciono certe cose, ci piace fare alcune cose e non ce ne piacciono altre. Questo è ciò che ci viene in mente: “Vorrei urlarti contro”, “Vorrei abbracciarti”, e poi (è qui che entra in gioco il karma) c’è una certa compulsione che ci spinge a urlare o ad abbracciare qualcuno quando potrebbe essere inappropriato. E ci sembra che non sia in nostro controllo: semplicemente, in modo compulsivo e inconsapevole agiamo, parliamo o pensiamo in un certo modo.

Il karma non si riferisce all’azione stessa, anche se la parola tibetana che lo indica è il termine colloquiale usato per “azione” (las). Se il problema fosse l’azione stessa, non dovremmo fare altro se non smettere di agire – e diventeremmo degli illuminati. Ovviamente, non è questo il senso. Quello che vogliamo è che il nostro comportamento non sia compulsivo, bensì motivato dalla compassione. Ed è compulsivo perché è sotto l’influenza di emozioni disturbanti: avidità, attaccamento e desiderio, repulsione, rabbia, ingenuità, gelosia, orgoglio – tutti questi piantagrane. Tutto ciò avviene a causa della nostra inconsapevolezza circa la realtà. Non siamo consapevoli della nostra pura natura. A causa della confusione, la mente fa sì che le cose sembrino esistere in modi impossibili, e che noi sembriamo essere qualcosa di solido e separato da tutto il resto – come una piccola figura che, seduta nella nostra testa, riceve informazioni dagli occhi e dalle orecchie su una sorta di schermo e altoparlante interiori, e preme i pulsanti per far funzionare il corpo. Insomma: l’autore della voce che parla nella nostra testa, preoccupata – “Che cosa pensa di me la gente? Che cosa dovrei fare ora?”.

A causa della confusione – non conosciamo la nostra vera natura – la mente confusa crea questo tipo di apparenza circa la nostra identità, e noi crediamo che sia vera, che corrisponda alla realtà. E, a partire dalla nostra confusione, ci fa sembrare che tutto il resto esista in modi impossibili, come se fosse incapsulato nella plastica, esistente soltanto per conto proprio, – eccoci al punto – indipendentemente da cause, condizioni, concetti, prospettive relative: indipendente da qualsiasi cosa. Un problema, ad esempio (“Oh, c’è questo orribile problema”), incapsulato nella plastica come fosse un mostro, ci agita e disturba molto – “Oh, non posso affrontarlo” –; è come se questa cosa, questo problema, non provenisse da determinate cause e non potesse essere risolto applicando delle diverse misure.

Tutto ciò deriva dal non comprendere davvero il rigpa, la pura consapevolezza – dal non esserne consapevoli. Il rigpa è la fonte di tutte le apparenze. Fa parte di ciò che è noto come il “gioco della pura consapevolezza”, simile a luccichii sull’acqua o a immagini in uno specchio. Quando abbiamo quello che viene chiamato “oscuramento”, “offuscamento”, il rigpa diventa la fonte di tutte le apparenze di ciò che è impossibile – che le cose esistano incapsulate nella plastica: questo è ciò che è impossibile. Le cose non esistono in questo modo. Non c’è nessun piccolo io seduto nella nostra testa.

Il rigpa è la fonte di tutte le apparenze. E l’analogia utilizzata è quella di un gioco di luci sull’acqua. Fa parte della natura di questa pura consapevolezza.

  • Possiede tali apparenze: si stabiliscono esse stesse, spontaneamente (questo è il gergo tecnico).
  • E l’energia comunica verso l’esterno. Questo è noto come l’aspetto della compassione. Fondamentalmente, si tratta di comunicazione.
  • Ed è puro per natura. Non è mai stato contaminato dalla confusione. Non è mai contaminato, nel suo livello più profondo, dalla confusione.

Come saprete, questi sono insegnamenti dzogchen di base. Tuttavia, a causa della nostra abitudine – da tempo senza inizio – alla confusione, il rigpa si offusca, così come il cielo si annuvola: le nubi non disturbano o danneggiano la natura del cielo, ma sono lì. E, a causa delle nuvole, di questo filtro, il rigpa funziona come una fonte di tutte le apparenze che ci confondono. Giusto? Queste, però, non corrispondono alla realtà. Quando parliamo di vacuità, pertanto, parliamo di come non esista una realtà corrispondente, ossia del fatto che la realtà è completamente vuota, o manchevole, di ciò che queste apparenze sembrano essere. La nostra mente confusa può far sembrare qualcuno un mostro – per usare un semplice esempio –, ma non esiste un vero mostro che corrisponda a quanto appare. Quando parliamo di vacuità, questo è ciò che è assente. C’è qualcosa di assente.

Possiamo anche parlare della vacuità d’altro (gzhan-stong), un ulteriore tipo di vacuità che, rispetto alla pura consapevolezza, il rigpa, riguarda la sua pura natura in quanto vuota, o assente, di tutti i livelli più grossolani da cui siamo confusi.

La rinuncia

Ciò che dobbiamo sviluppare, dunque, è quella che viene chiamata “rinuncia”. È la determinazione a essere liberi. Essere liberi da che cosa? Dalla prima e dalla seconda nobile verità: la sofferenza e le sue cause. E queste a che cosa si riferiscono? Alle apparenze che ci confondono e al fatto che crediamo corrispondano alla realtà, e a tutte le emozioni disturbanti che derivano da tale credenza, quali: “Oh, ho paura” o “Oh, questo sembra così bello! Devo possederlo”, ecc. Quindi, si tratta della determinazione a essere liberi: “Devo essere libero da questo, perché è qualcosa di orribile”.

Ma non solo è orribile: è veramente noioso. Se tale rinuncia si basa sulla rabbia – “Oh, è una tale stupidaggine! Sono veramente stupido a crederci” – non funziona. D’accordo? Non funziona perché si tratta ancora di un’emozione disturbante. Quella che dobbiamo sviluppare è semplicemente una noia totale: “È così noioso! Va avanti, continua ad andare avanti, da tempo senza inizio. Ne ho abbastanza”. È questo, in realtà, lo stato emotivo che ci aiuta a sviluppare la rinuncia.

È come se fossimo nel tunnel della droga o dell’alcol e li assumessimo da molto tempo. Se volessimo uscirne perché arrabbiati con noi stessi – “Oh, sono così stupido per questo mio comportamento!”, ecc. –, anche se smettessimo, avremmo sempre paura di ricadere nel tunnel, perché in noi ci sarebbe paura mista a rabbia. Per essere davvero in grado di rinunciarvi, invece, dovremmo trovare tale comportamento veramente noioso: “È sempre la stessa cosa: ogni volta che sono ubriaco, ogni volta che sono drogato, è la stessa cosa. Che noia!”. Di qui, diremmo: “Ne ho abbastanza”. Ecco che allora avremmo uno stato mentale molto meno disturbato. Questo è un punto davvero importante.

I tre addestramenti superiori

Quindi bene, vogliamo uscire. Come usciamo? Dobbiamo liberarci del karma, di questa compulsività nel nostro comportamento. Per farlo, dobbiamo liberarci delle emozioni disturbanti che lo guidano. E, per liberarci di queste, dobbiamo liberarci della nostra inconsapevolezza o ignoranza. Per stare con la nostra consapevolezza, con la comprensione, abbiamo bisogno di concentrazione. E per essere in grado di avere concentrazione, ossia per evitare di avere torpore e che la mente vaghi ovunque, abbiamo bisogno di disciplina. E otteniamo disciplina dal comportamento etico, astenendoci dalle azioni distruttive del corpo, della parola e della mente. Innanzitutto, quindi, usiamo disciplina, concentrazione e comprensione. Poi dobbiamo liberarci del primo livello della nostra confusione, che consiste nella confusione circa il modo in cui noi stessi esistiamo, e gli altri esistono. Se riusciamo a farlo con successo, conseguiamo la liberazione, la liberazione dall’incontrollabile ricorrenza delle rinascite.

Bodhicitta

Ma per quanto riguarda tutti gli altri? Siamo completamente interconnessi con tutti gli altri, e tutti stanno soffrendo. Quindi sviluppiamo amore e compassione, riconoscendo l’interconnessione tra tutti. E ci assumiamo la responsabilità: cercheremo sicuramente di aiutarli ad andare oltre al samsara. E l’unico modo in cui possiamo farlo è diventando noi stessi illuminati. Se riusciamo a rimuovere tutto l’oscuramento dal rigpa, dalla nostra pura consapevolezza, scopriremo la capacità o qualità del rigpa di capire e conoscere tutto – in particolare, di comprendere completamente il processo causa-effetto, così da poter capire quali sono tutte le cause, qual è lo sfondo dell’attuale situazione samsarica di tutti, e quale sarebbe l’effetto di qualsiasi cosa noi insegniamo a una certa persona. Se le insegniamo qualcosa, in che modo questo influenzerà non solo lei ma tutti gli altri esseri con cui interagisce? Infatti, a meno che non riusciamo a capire le conseguenze di qualsiasi cosa insegniamo, non sappiamo veramente quale sia la cosa migliore da insegnare a ciascuna persona per aiutarla a raggiungere la liberazione e l’illuminazione. È questo ciò per cui dobbiamo lottare, il motivo per cui dobbiamo raggiungere noi stessi l’illuminazione.

Sviluppiamo quindi quella che viene chiamata “bodhicitta”. Essa si basa sull’amore e sulla compassione: l’amore è il desiderio che tutti siano felici e abbiano le cause della felicità; la compassione è il desiderio che tutti siano liberi dalla sofferenza e dalle sue cause. Bodhicitta, però, non è amore e compassione. Questo è un punto su cui spesso le persone fanno confusione: pensano che, quando meditano sulla compassione, stiano di fatto meditando su bodhicitta. Invece non è la stessa cosa. A che cosa mira bodhicitta? Su che cosa ci concentriamo, con bodhicitta? Ci concentriamo sulla nostra illuminazione individuale: non sull’illuminazione di Buddha Shakyamuni, non sull’illuminazione in generale, bensì sulla nostra illuminazione individuale, che non è ancora avvenuta ma che può avvenire sulla base della natura di Buddha, la natura pura della nostra mente. Bene. Quindi ora è questo ciò su cui ci stiamo concentrando, con due intenzioni – di conseguire la nostra illuminazione, così che sia in atto, e non qualcosa di non ancora accaduto, e di beneficiare tutti gli esseri grazie a essa.

Il tantra

Come possiamo concentrarci sulla nostra illuminazione individuale non ancora avvenuta? Dobbiamo rappresentarla mediante qualcosa. I Buddha non possiedono soltanto una mente: non si ha soltanto il Dharmakaya. Un Buddha ha anche delle sembianze fisiche e comunica (ecco, dunque, la parola). Possiamo dunque rappresentare la nostra illuminazione non ancora avvenuta con una figura visualizzata di fronte a noi, che può apparire nella forma di Buddha Shakyamuni o Guru Rinpoche – ci sono molte, molte altre forme nelle quali può apparire e che potrebbero rappresentarla –, ma ricordiamoci che non stiamo cercando di raggiungere la loro illuminazione, bensì la nostra.

Per diventare un Buddha, dobbiamo raggiungere noi stessi tale mente, tale corpo e tale parola. Ecco dove entra in gioco il tantra. Piuttosto che rappresentare la nostra illuminazione non ancora avvenuta con una figura di fronte a noi, questa entra in noi, si dissolve e noi ne assumiamo la forma: assumiamo l’aspetto di quella specifica forma di Buddha. Giusto? Potrebbe essere una delle migliaia di forme possibili: i Buddha possono apparire come qualsiasi cosa. Possiamo quindi apparire come Guru Rinpoche, Manjushri, Chenrezig: come un qualsiasi yidam. Tutte le braccia, le gambe e così via servono solo per aiutarci a tenere a mente ciò che rappresentano: ad esempio, come saprete, le sei paramita, ossia gli atteggiamenti lungimiranti (generosità, disciplina, pazienza, ecc.). Sono davvero molte le cose che possono essere rappresentate. Una volta diventati dei Buddha, dovremmo simultaneamente possederle tutte perché queste sono tutte le qualità del rigpa. Il rigpa ha tutto questo, possiede tutte queste buone qualità.

È pertanto impossibile praticare il tantra correttamente senza bodhicitta, perché la figura come la quale ci immaginiamo di apparire rappresenta la nostra illuminazione, che non è ancora avvenuta e che stiamo immaginando di avere già ora, al fine di conseguirla in modo più rapido. E immaginiamo che con i mantra la nostra parola sia come quella di un Buddha. E immaginiamo delle luci che fuoriescono verso l’esterno e arrecano beneficio a tutti gli esseri, proprio nel modo in cui un Buddha agisce (ecco le attività del Buddha). Ed è molto importante capire che questa nostra apparenza proviene dal rigpa, dalla pura consapevolezza. Nel mio attuale stato confuso, potrebbe non sembrare così: potrebbe sembrare qualcosa di solido; eppure non lo è. Se crediamo che sia veramente qualcosa di solido, non siamo migliori di un pazzo che pensa di essere Napoleone o Cleopatra.

Abbiamo quindi la rinuncia: rinunciamo all’ordinario livello di apparenza che la nostra mente crea per via della confusione. E abbiamo bodhicitta: aspiriamo all’illuminazione che non è ancora avvenuta e che è rappresentata dalla figura nelle cui sembianze appaiamo. Abbiamo inoltre la vacuità: le apparenze da cui siamo confusi non corrispondono alla realtà; un loro riferimento reale è assente, non è mai esistito. E la pura consapevolezza è priva di tutti questi livelli mentali che ci inducono in confusione. È fondamentalmente questo ciò che facciamo nel tantra.

Ora, per essere in grado di aprirci un varco in tale confusione, non soltanto dobbiamo comprendere i cosiddetti preliminari comuni che ho appena spiegato – “comuni” in quanto condivisi tra sutra e tantra –, ma dobbiamo costruire un’enorme quantità di forza positiva e, almeno provvisoriamente, eliminare una parte della forza negativa. E questo è compiuto mediante il ngondro (sngon-’gro) – le pratiche preliminari delle prostrazioni, di Vajrasattva, ecc. – e, in seguito, con un potenziamento, o iniziazione, che consiste nell’attivare e stimolare i potenziali della natura di Buddha; successivamente, ciò sarà compiuto mantenendo molto, molto rigorosamente i voti – i voti del bodhisattva e quelli tantrici – e svolgendo le varie pratiche del tantra.

I nove veicoli

Sentiamo parlare di diversi livelli di pratica del tantra. E, in generale, nella scuola Nyingma parliamo di nove veicoli. Che cosa significa “veicolo”? È un veicolo mentale; è un livello di lavoro con la mente volto a portarci da qualche parte, proprio come un veicolo. Di questi nove, i primi tre hanno a che fare con il livello di base, quello dei sutra, e poi ci sono sei livelli di tantra.

I veicoli dei sutra

Per quanto riguarda i sutra, abbiamo quelli che vengono chiamati i veicoli degli shravaka, dei pratyekabuddha e dei bodhisattva.

Il veicolo degli shravaka

Gli shravaka sono “ascoltatori” degli insegnamenti. Sono persone che hanno ascoltato direttamente il Buddha o gli insegnanti che lo hanno seguito. E mirano alla propria liberazione dall’incontrollabile ricorrenza della rinascita, il samsara. E questo è un piccolo veicolo, o un veicolo modesto – questo è il significato della parola Hinayana –, perché l’obiettivo è modesto: la loro stessa liberazione. Ovviamente gli shravaka sviluppano amore e compassione – non possiamo ottenere nulla senza amore e compassione –, quindi non dovremmo pensare che ne siano privi, e neppure che siano egoisti. Semplicemente, il loro obiettivo è piccolo: è soltanto la loro stessa liberazione. Quindi ciò che, a tal fine, devono superare è la confusione circa il modo in cui loro stessi esistono.

Il veicolo dei pratyekabuddha

I pratyekabuddha sono coloro che vivono in epoche in cui non ci sono Buddha né insegnamenti del Buddha disponibili; per praticare il sentiero buddhista, quindi, devono fare affidamento sugli istinti che portano con sé dalle vite precedenti. Non hanno insegnanti.

C’è confusione, su questo punto, perché alcune persone pensano, ora: “Oh, posso studiare senza un insegnante, posso praticare senza un insegnante, come un pratyekabuddha”. Però ora gli insegnanti sono disponibili, e lo sono anche gli insegnamenti. E anche se è possibile avere istinti provenienti dalle vite precedenti, istinti di Dharma, e quindi avere intuitivamente una certa comprensione, abbiamo comunque bisogno di insegnanti. Tale comprensione intuitiva si manifesta, di solito, con ciò che alcuni chiamano il test “ovvio!” del Dharma – quando ascoltiamo un insegnamento e diciamo: “Ovvio! È ovvio che tutto questo abbia senso”. Questa è un’indicazione del fatto che l’abbiamo già sentito prima – “Ovvio!” – e ci viene semplicemente ricordato. Non dovremmo però pensare di poter fare affidamento soltanto sulla comprensione intuitiva: sarebbe un errore. Gli insegnanti sono esempi viventi di ciò che stiamo cercando di ottenere, e pertanto sono di grande ispirazione, ed è questa che ci guida, che ci dà l’energia per adoperarci al fine di conseguire noi stessi tale condizione.

I tibetani hanno un modo di dire molto bello: “Il miglior insegnante è quello che abita tre valli più in là”. Non vediamo molto spesso l’insegnante che abita a tre valli di distanza. Affinché noi possiamo arrivare da lui, o lui possa venire da noi, ci sono grandi valichi da superare in alta montagna, e pertanto non lo incontriamo sempre; ciò implica che non ne vediamo i difetti. Lo vediamo in una situazione ottimale, e questo ci aiuta a concentrarci sempre sulle sue buone qualità e a trarne ispirazione. Quindi, se abbiamo insegnanti che vengono da noi soltanto poche volte l’anno, non lamentiamoci di questo: è utile, in realtà; se stessero qui tutto il tempo, troveremmo in loro molti difetti.

In ogni caso, i pratyekabuddha sono esseri molto coraggiosi che vivono in epoche oscure, quando non c’è nulla a disposizione. E si adoperano soltanto per la loro liberazione; anche se volessero dare insegnamenti, nessuno sarebbe ricettivo.

Il veicolo dei bodhisattva

E poi abbiamo il veicolo dei bodhisattva, coloro che si adoperano per l’illuminazione a beneficio di tutti gli esseri; qui però non si ha la pratica aggiuntiva che consiste nell’immaginarsi già nella forma di un Buddha.

I veicoli del tantra

Kriya tantra, charya tantra e yoga tantra

Ora, per quanto riguarda il tantra, abbiamo prima di tutto il kriya tantra, poi il charya tantra, e infine lo yoga tantra. Quando sentiamo parlare, nelle Nuove scuole – Kagyu, Sakya e Gelug –, di quattro classi del tantra, queste tre (kriya, charya e yoga) sono le prime tre della divisione in quattro classi. Sono sistemi di pratica del tantra in cui, di fatto, non miriamo ad attivare e ottenere l’accesso al rigpa – stiamo ancora lavorando con livelli più grossolani della mente –; tuttavia, in quanto tantra, lavoriamo immaginando noi stessi nella forma di un Buddha.

Il kriya tantra enfatizza il comportamento rituale, esteriore. Corrisponde alla nostra usuale pratica di Tara, Chenrezig e Manjushri. C’è una dieta speciale da seguire, ci sono pratiche speciali per mantenersi puliti: insomma, ci riferiamo a questo tipo di pratiche rituali.

Il charya tantra, la seconda classe, prevede la combinazione di tali rituali con una pratica più interiore.

Lo yoga tantra, poi, pone molta più enfasi sulle pratiche interiori, ma con numerosi mudra (gesti delle mani) – davvero in grande quantità – e con mandala piuttosto complessi (un mandala è un sistema di tutte le diverse divinità).

E, come per il sentiero del bodhisattva, il veicolo del bodhisattva, il risultato di [il pinnacolo di] questi tre veicoli è l’illuminazione. Quindi si tratta di liberarsi non solo degli oscuramenti riguardanti il sé – quelli che vengono chiamati “oscuramenti emotivi” –, operazione di cui noi (lo shravaka o il pratyekabuddha) abbiamo bisogno per ottenere la liberazione, ma anche di quelli che vengono chiamati gli “oscuramenti cognitivi”, che riguardano il modo in cui tutto esiste. Bene, quindi tutto ciò ci conduce all’illuminazione.

Mahayoga tantra, anuyoga tantra e atiyoga tantra

Nella classificazione delle Nuove scuole, la quarta classe del tantra, la più elevata, è chiamata “anuttarayoga tantra”, “yoga tantra supremo”. Nella scuola Nyingma, ciò che corrisponde all’anuttarayoga tantra è diviso in tre veicoli: mahayoga, anuyoga e atiyoga – un altro nome per “atiyoga” è “dzogchen”.

Nell’anuttarayoga tantra parliamo dello stadio di generazione e dello stadio completo. Il primo si ha quando lavoriamo con la nostra immaginazione per compiere tutte le visualizzazioni di noi stessi come forme di Buddha, e immaginiamo di svolgere tutte le attività a beneficio degli altri, e di avere una cognizione non concettuale della vacuità e una mente beata. Quindi, in altre parole, immaginiamo di avere una mente beata che comprende la vacuità, con un corpo che appare come una forma di Buddha, come uno yidam, e tutte le luci che si irradiano verso l’esterno e beneficiano tutti. E aspiriamo a possedere tutto ciò con una perfetta concentrazione, unendo a essa generosità, pazienza, perseveranza, disciplina e le altre qualità – amore, compassione –, tutto allo stesso tempo. Di fatto, è estremamente difficile.

Quando, con questo, otteniamo una concentrazione perfetta – ossia, una perfetta concentrazione per quattro ore di fila, senza dispersività mentale, senza torpore –, abbiamo il livello grossolano dello stadio di generazione. E poi abbiamo il livello sottile, quando possiamo perfettamente immaginare – visualizzare – il mandala completo, con tutte le figure e così via, in una minuscola goccia sulla punta del naso, per quattro ore. Non si pensi, quindi, che lo stadio di generazione sia facile: non lo è.

E poi abbiamo lo stadio completo. Alcune persone lo traducono come “completezza” o “completamento”. Non è il completamento. È “completo” nel senso del rigpa: ora tutto è completo perché noi possiamo farlo accadere realmente, e non solo nella nostra immaginazione. Adesso è tutto completo. Abbiamo tutti i materiali, tutte le realizzazioni, che ci consentiranno di far accadere quanto abbiamo immaginato.

Ora, per farlo effettivamente avvenire dobbiamo essere in grado di accedere al rigpa; ciò significa dover essere in grado di arrestare i livelli mentali più grossolani che creano le apparenze che ci confondono. Come facciamo? Nel Nuovo tantra, nelle Nuove scuole, abbiamo due modalità per farlo.

  • Un modo consiste nel lavorare con i venti sottili e l’energia – ciò che in tibetano è chiamato tsalung (rtsa-rlung). Cerchiamo di centralizzare e dissolvere tutti questi venti che si muovono all’impazzata nel corpo, all’interno dei canali; proviamo a farli dissolvere nel chakra del cuore, in modo da attivare il livello del rigpa che è sempre lì.
  • L’altro metodo consiste nel lavorare con crescenti livelli di beata consapevolezza all’interno del canale centrale. È la pratica del tummo (gtum-mo), il calore interiore. Non dovremmo pensare a questo come alla normale sessualità: è qualcosa di completamente diverso. Ha a che fare con il canale centrale.

Nel Nuovo tantra, parliamo della differenza tra il tantra madre e padre in questi termini: il tantra padre pone più enfasi e maggior dettaglio sulle pratiche dei venti, le pratiche tsalung; il tantra madre pone maggiore enfasi sugli aspetti di beatitudine.

Lo stadio completo ha al suo interno diverse fasi. Alla fine, nel Nuovo tantra, si arriva a quello che viene chiamato il livello di “chiara luce”, che è non-concettuale ed è equivalente, in un certo senso, al rigpa (con una leggera differenza, ma non abbiamo bisogno di entrare nei dettagli, ora). E poi dobbiamo ulteriormente lavorare, per poter stare con la comprensione – di chiara luce – della vacuità, unita all’apparenza reale di un Buddha. Questo è il sistema del Nuovo tantra.

Abbiamo l’equivalente di ciò nella divisione Nyingma in maha-, anu- e ati-yoga. Come Dudjom Rinpoche ha spiegato molto chiaramente, tutti e tre questi veicoli sono completi l’uno nell’altro; l’unica differenza è l’enfasi.

  • Il mahayoga tantra pone l’accento sullo stadio di generazione; ciò implica più pratica con le sue visualizzazioni. Include però anche le altre pratiche: quelle con i canali e i venti e con lo dzogchen, il rigpa.
  • L’anuyoga è molto più dettagliato circa le pratiche di tsalung, ossia con i canali e i venti; ovviamente, però, include anche delle pratiche dello stadio di generazione, con la visualizzazione, e alcune relative al rigpa.
  • La pratica dell’atiyoga (formalmente chiamato “dzogchen”) pone l’enfasi principale sul livello in cui, all’interno di quello che viene chiamato lo stadio completo del Nuovo tantra, si ottiene effettivamente la cognizione non-concettuale della vacuità con la mente di chiara luce – è il livello non concettuale, quello vero e proprio del rigpa. Ovviamente, però, ha in sé un tipo di pratica proprio dello stadio di generazione (la pratica di visualizzazione) e include un lavoro con i canali.

Dobbiamo lavorare con l’immaginazione e con i canali in modo che, quando manifestiamo effettivamente il rigpa nella pratica dzogchen, nella pratica atiyoga, le apparenze da esso originate saranno quelle delle forme di Buddha. Ecco perché dapprima compiamo le pratiche di visualizzazione: altrimenti il rigpa dà origine a tutte le apparenze – noi vogliamo invece un’apparizione come un Buddha. Inoltre immaginiamo queste figure in unione, e di avere una beata consapevolezza, in modo che il rigpa stesso, quando si manifesterà, lo farà con la sua piena forma di beatitudine.

E quando ci concentriamo sul rigpa stesso nelle pratiche dzogchen, in quel momento non stiamo lavorando sulla dissoluzione dei venti. Riconosciamo il rigpa soggiacente a ogni momento della nostra consapevolezza – cosa incredibilmente difficile da fare –, e a quel punto tutti i venti e i livelli più grossolani della mente si dissolveranno. La pratica anuyoga, la pratica con i canali e i venti, viene eseguita prima, con lo scopo di oliare, in un certo senso, i canali: oliare il meccanismo interno così che, quando ci concentriamo sul rigpa, tutto si dissolva automaticamente.

È così che Dudjom Rinpoche ha spiegato l’interconnessione del maha-, anu- e ati-yoga tantra. Non dovremmo pensarli come totalmente separati. E sono tutti basati sul veicolo del bodhisattva.

Questa è la presentazione generale del sentiero dei sutra e del tantra, come spiegato nella scuola Nyingma. A volte potremmo sentir dire che lo dzogchen è al di sopra del tantra, ma queste sono soltanto parole, è una classificazione, perché lo dzogchen è praticato totalmente sulla base dei sutra e di tutte le usuali pratiche del tantra. Non è qualcosa di separato. Ed è completamente in armonia con ciò che è praticato in tutte le scuole del buddhismo tibetano – non ne è separato. Ha le sue caratteristiche individuali, ma persino all’interno di una stessa scuola, come la Nyingma, ci sono molte varianti differenti. È questo che rende la vita interessante, no?

Domande

L’alayavijnana, il rigpa e la mente di chiara luce

Il rigpa e il dharmadhatu sono la stessa cosa?

Per molti versi, sì. Dharmadhatu significa “sfera della realtà”. Dharma è “tutti i fenomeni”, e quindi “realtà”; dhatu è “sfera”. Il rigpa, la pura consapevolezza, include tutte le cose nel senso che è onnisciente; ha tutte le qualità buone e positive complete. In questo senso, dunque, è la sfera della realtà.

Parliamo di questo prendendo in considerazione i cinque tipi della cosiddetta “profonda consapevolezza”: simile a uno specchio; equiparante; personalizzante; che realizza; del dharmadhatu. Quindi, in un certo senso, possiamo vedere tale punto come parte di questo sistema dei cinque tipi di profonda consapevolezza, quando parliamo del dharmadhatu. Oppure possiamo vederlo come ciò che abbraccia tutto. Oppure possiamo pensare al dharmadhatu in termini di vacuità, vacuità di tutti i fenomeni o vacuità del rigpa. Pertanto ci sono delle lievi differenze. E poi, se parliamo di Dharmakaya, vi aggiungiamo l’aspetto della consapevolezza onnisciente.

Penso che dovremmo ricordarci del fatto che questi termini sono usati in molti, molti contesti diversi: in alcuni con un significato, in altri con uno leggermente diverso. In molti casi si sovrappongono, in alcuni veicolano un’enfasi leggermente diversa.

Che cos’è l’alayavijnana?

L’alayavijnana, o coscienza fondamentale, è il livello di coscienza che porta in sé le abitudini e le tendenze del karma e le emozioni disturbanti, l’inconsapevolezza o l’ignoranza. Nel sistema Cittamatra (Solo-Mente) ha un’esistenza veramente stabilita. Ma nel sistema dzogchen – che non è affatto uguale al Cittamatra: non pensiamo che lo sia! – si riferisce a quando il rigpa non “riconosce il proprio volto”, e dunque funziona come un alaya, perpetuando le apparenze che ci inducono in confusione, il samsara, ecc., con le tendenze e le abitudini del karma e delle emozioni disturbanti. Funziona come un’alayavijnana, ma non ha un’esistenza veramente stabilita – diversamente da quanto vediamo nel Cittamatra.

Lo dzogchen parla di approdare al rigpa e la scuola Gelug parla di approdare alla vacuità. Qual è la differenza? C’è una differenza?

Il rigpa è il livello più sottile della mente; non è mai stato contaminato da oscuramenti, inconsapevolezza o confusione, ed è completo di tutte le buone qualità. Possiede tre aspetti (tre diversi tipi di natura, per essere precisi):

  • stabilisce spontaneamente le apparenze;
  • comunica all’esterno – e questo è l’aspetto della compassione;
  • infine, il termine kadag (ka-dag), “puro dall’inizio”, “primariamente puro” (ka è la prima lettera dell’alfabeto tibetano), esprime l’aspetto che corrisponde alla vacuità.

La vacuità consiste nel suo essere privo di modi impossibili di esistere. Le cose sembrano esistere in modi impossibili, come se fossero isolate in se stesse, e questo non corrisponde alla realtà. Ciò in alcuni sistemi è chiamato “vacuità di sé” (rang-stong), vacuità di una natura auto-stabilita. Mipam, il più grande autore di commentari Nyingma, in alcuni dei suoi scritti afferma soltanto questa vacuità – che è quella discussa in termini, diciamo, Gelugpa. In altri commentari scrive anche di come questo livello del rigpa sia vuoto di livelli più grossolani; ciò è chiamato “vacuità d’altro” – in tibetano: zhentong (gzhan-stong). E questo corrisponde alla mente di chiara luce, nel contesto del Nuovo tantra: qui parliamo di avere accesso alla mente di chiara luce, che è il livello più sottile.

Ora, ecco la differenza tra la mente di chiara luce e il rigpa. La mente di chiara luce parla del rigpa sia nel suo stato puro sia quando non riconosce il proprio volto e possiede l’abitudine dell’ignoranza (e, quando il rigpa non riconosce il proprio volto, funziona come un alaya); la chiara luce si riferisce, quindi, a entrambi gli stati. Il rigpa si riferisce, invece, soltanto allo stato incontaminato. Indicano perciò la stessa cosa, classificandola però in modo diverso.

Pertanto, quando parliamo soltanto della vacuità di modi impossibili di esistere, è un modo per spiegare il kadag, l’aspetto della purezza del rigpa. Il kadag, l’aspetto della purezza, è sia la vacuità di modi impossibili di esistere sia, secondo alcuni commentari, la vacuità di livelli mentali più grossolani. Il kadag è tale purezza primordiale. È puro in un duplice senso:

  • è puro rispetto a modi impossibili di esistere – e questa è la vacuità per noi più usuale –;
  • ed è anche puro nell’altro senso, ossia rispetto a livelli della mente più grossolani – e questo corrisponde alla mente di chiara luce nel contesto del Nuovo tantra.
Quindi la vacuità è più ampia del rigpa?

Non direi che è più ampia. È un aspetto del rigpa, che si affianca agli aspetti della creazione delle apparenze e della compassione (l’energia che si muove verso l’esterno). Il rigpa possiede tutte queste qualità: con il rigpa ci riferiamo all’intero pacchetto di ciò che diverrà l’illuminazione, e una parte di quel pacchetto è la vacuità.

Il Dalai Lama

Avete mai avuto la fortuna di incontrare una persona che dimora nell’amore, nella calma e nell’autocontrollo, al punto da non temere nulla? Una persona il cui stato amorevole non può essere scalfito da nulla, neanche da una minaccia – che la persona accetta, come semplice vento che soffia?

Io l’ho avuta, con Sua Santità il Dalai Lama e i suoi insegnanti. L’unica circostanza in cui li si vede davvero scossi, per così dire, ha la sua base nella compassione.  Sua Santità il Dalai Lama ha detto che gli è accaduto di sentirsi turbato in due episodi. Una volta è stato con la rivolta originaria, in Tibet, quando ha lasciato il Paese e sapeva quante persone sarebbero state uccise. E poi alcuni anni fa, quando a Lhasa scoppiò un’altra rivolta: stava dando degli insegnamenti che seguivo, e ha detto che era davvero sconvolto dal fatto che molte persone fossero state uccise. Per il resto: no, nessun problema, nessun cambiamento d’umore. E ovviamente, in quelle due circostanze, era mosso da amore e compassione.

Che cosa ha fatto quando era scosso? L’ha semplicemente detto, o tu hai notato qualcosa?

Ha detto che aveva il sonno disturbato, e i suoi insegnamenti hanno preso una piega diversa rispetto all’argomento programmato.

Adattare il buddhismo all’Occidente

Come possiamo riconoscere quanto della pratica buddhista è specifico del buddhismo tibetano, e quanto invece è sostanziale e non dovrebbe essere cambiato? Come possiamo adattare il buddhismo all’Occidente, senza perderne l’essenza?

L’essenza degli insegnamenti è sicuramente costituita da: amore, compassione, rifugio, rinuncia, bodhicitta, insegnamenti sulla vacuità e sul rigpa (la pura consapevolezza). Questi sono gli aspetti essenziali e devono trasformare la nostra personalità; non sono soltanto qualcosa che facciamo per hobby e che non ha nulla a che fare con la nostra vita. Il punto è usare gli insegnamenti per aiutarci a superare la rabbia, l’attaccamento, la gelosia, l’ingenuità, ecc., per aiutarci ad andare oltre l’egoismo, a sviluppare un maggiore atteggiamento premuroso verso gli altri. Questa è l’essenza.

Ciò che è più culturale è costituito, invece, da tutti gli aspetti della dimensione rituale. Il rituale è utile per dare una struttura alla nostra pratica – non lo scartiamo completamente –, ma il modo in cui lo svolgono i tibetani è diverso da quello in cui lo facevano gli indiani. E può essere nuovamente modificato, perché possa meglio adattarsi alla mentalità occidentale – per quanto riguarda la musica, le offerte, le torma (gtor-ma, torta rituale). Ad esempio: gli indiani non avevano torma, e le bandiere di preghiera sono del tutto tibetane. Questi sono gli aspetti culturali.

Inoltre è molto importante compiere le pratiche nella nostra lingua – i tibetani non lo fanno in sanscrito. L’importante è svolgerle con cognizione: non soltanto come un rituale da noi celebrato alla cieca, senza capire che cosa stiamo facendo. Questi sono i punti principali.

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