L’io convenzionale, il falso io e l’io eterno

Introduzione: esaminare il sé e “io”

Questa sera iniziamo un corso sullo sviluppo sano del sé attraverso gli stadi graduali del lam-rim. Vediamo che quando generiamo una motivazione per l’ascolto di questo insegnamento, l’intero concetto di sé è molto importante per il sentiero spirituale buddhista. Siamo mossi dalla compassione per impegnarci a ottenere uno stato in cui possiamo aiutare al meglio gli altri a superare i loro problemi. Chi è mosso da compassione a fare questo? Potreste dire “io”. Chi sta cercando di aiutare gli altri verso la liberazione e l’illuminazione? Rispondereste “io”, vero? Che cosa impedisce dall’essere veramente in grado di fare questo? Dovreste rispondere “io”, che sia per pigrizia, per mancanza di coraggio o di empatia verso gli altri, sempre si ritorna a “io”, al non mi va di farlo, non voglio, ho paura di provare: tutto ruota intorno all’io, a chi penso di essere e a cosa credo di poter fare.

Se guardiamo un po’ più attentamente l’ostacolo è, secondo gli insegnamenti buddhisti, la nostra inconsapevolezza di come esistiamo: non conosciamo il modo in cui esistiamo o ne abbiamo un’idea distorta rispetto alla realtà. È così molto importante iniziare a esaminare questo concetto del sé, dell’io. Iniziamo questo seminario riflettendo, ognuno di noi, per un po’ di tempo a cosa ci riferiamo quando parliamo di noi stessi. Esaminatelo interiormente e identificate che cosa è in realtà l’“io”? Difficile dirlo a parole, almeno in inglese, perché non si riesce nemmeno a formulare bene la domanda.

Ma pensiamo sempre “io”, non è così? Cosa io farò, cosa la gente penserà di me, sono un perdente, io vinco sempre: pensiamo ogni genere di cose su noi stessi. Cerca di pensare al tuo “io”, a te stesso ma non in termini delle qualità – sono giovane, vecchio, uomo, donna…– e non a chi sono io, anche se è una domanda molto difficile. Chi sono io? Sono io, ma cosa significa? Sono un nome? Chi sono? Pensa solo in che cosa consiste questo io e questo senso di io, perché tutti noi ce l’abbiamo. Non mi riferisco alle teorie psicologiche dell’ego, del super ego e questo genere di cose bensì al nostro senso dell’io normale, a quello di quando parliamo o pensiamo in relazione a noi stessi.

Riflettiamoci per qualche minuto.

Etichettare e rappresentare l’io

Non è facile cercare di esaminare cosa sia realmente questo "io": nelle nostre vite quotidiane agiamo sempre con questa idea di me molto importante tuttavia, quando cerchiamo di concentrarci su questo “io”, non è facile. Se vogliamo essere tecnici qui, la descrizione di come dovremmo concentrarci sul "me" deriva dagli insegnamenti buddhisti fondamentali sulla cognizione. Ciò a cui pensiamo quando pensiamo a "me" è un oggetto con molti strati. Innanzitutto c'è la categoria "io", la categoria generale di ciò a cui pensiamo: ogni volta che pensiamo a "me" quel "me" è in qualche modo coinvolto nel nostro processo mentale, ognuno di quei "me" rientra in questa categoria generale di "me". Gli esempi individuali del pensare a "me" "rientrano tutti in quella categoria di pensiero del “me”, non in quella del “te”, giusto?

Quali sono tutti i singoli membri di quella categoria? Sarebbero casi individuali dell’etichettare l’"io", che è etichettato su una base – i nostri aggregati, i fattori aggregati che compongono la nostra esperienza. Potrebbe essere una forma di un fenomeno fisico come l'aspetto del nostro corpo; potrebbe essere una sensazione fisica che sentiamo nello stomaco ("ho fame"); potrebbe essere il suono della nostra voce; potrebbe essere un suono mentale come quando pensiamo "io" o la voce che sembra sia nelle nostre teste.

Ma ciò su cui questo "io" è etichettato potrebbe anche essere la nostra coscienza; potrebbe essere un sentimento di felicità, infelicità; potrebbe essere qualche emozione. Tutte queste varie cose compongono i cosiddetti cinque aggregati. Questo è ciò che rappresenta l’"io" quando pensiamo a "me". Non puoi semplicemente pensare "me" senza pensare a qualcosa che rappresenti quel "me", giusto? Potrebbe essere il suono mentale della parola "me" nella tua testa; potrebbe essere l'immagine di noi stessi allo specchio quando ci guardiamo - "Io, quella sono io". Potrebbe essere uno di questi aspetti di cui abbiamo parlato che rappresenta "me" dagli aggregati. È così che pensiamo a noi stessi, non è vero?

Pensiamoci, ha senso? C'è qualcosa che rappresenta "me"; ed è tutto in quella categoria di "me", al cui interno c'è un esempio individuale dell’etichettare "me" su qualcosa che rappresenta "me".

Mi state seguendo?

Ora, quel "me" – ogni volta che è etichettato su qualcosa che lo rappresenta – esiste in un certo modo. Quando pensiamo a questo "io", la nostra coscienza lo considererà in un modo o nell'altro in termini di come esiste. Se lo considera correttamente – la cosiddetta "considerazione corretta" – allora è accurato. Questo è il modo in cui esisto, etichettato su qualcosa che rappresenta "me" che ci consente di pensare a "me" - che aspetto ho, la mia età, il mio nome, qualunque cosa. Questo si chiama "io convenzionalmente esistente", quello che effettivamente esiste.

Ma potremmo considerare erroneamente il modo in cui esiste questo "io": potremmo credere che esista in un modo impossibile, è questo il modo in cui lo consideriamo. Un esempio molto semplice è quello di considerare quel "me" come il centro dell'universo, il più importante, quello che dovrebbe sempre fare a modo suo. (Al contrario,) l’"io" convenzionale sarebbe: "Sono uno dei sette miliardi di persone, né meglio né peggio di chiunque altro. Siamo tutti interconnessi, tutti vogliamo essere felici e nessuno vuole essere infelice” e lo etichettiamo su qualunque cosa ci rappresenti – questo è corretto, questo è l’“io” convenzionale.

Ma se consideriamo questo "io" come il più importante, come davvero speciale – "Dovrei sempre fare a modo mio, tutti dovrebbero prestare attenzione a me, a ciò che penso; quello che penso è importante e tutti nel mondo lo dovrebbero sapere attraverso Facebook e Twitter” – e lo etichettiamo su qualcosa che rappresenta il ‘me’, quello è il falso ‘me’ che non si riferisce a nulla di reale, non corrisponde nemmeno a nulla di reale. C'è una lieve differenza tra questi due. Tuttavia non c'è bisogno di entrare nei dettagli; altrimenti deviamo da ciò di cui stiamo discutendo qui.

Ma in ogni caso la cosa importante qui è capire la distinzione tra il "me" convenzionale che esiste e il falso "me", il cosiddetto sé che deve essere confutato e non si riferisce a nulla. Possiamo etichettarlo sul nostro corpo, sull’età, su sensazioni, opinioni, ecc., tuttavia non si riferisce a nulla di reale.

Ciò che facciamo consiste nell’etichettare il "me" convenzionale su qualcosa che rappresenta il "me"; pensando attraverso la categoria generale "me" abbiamo la giusta o errata considerazione di come esistiamo.

  • Con la considerazione corretta pensiamo in termini di "io" convenzionale.
  • Con la considerazione errata pensiamo in termini del falso "io" – il "me" che non esiste.

Ma in entrambi i casi stiamo solo designando o etichettando "me" su qualunque cosa rappresenti "me".

Quindi questo è ciò di cui discuteremo: come si sviluppa un sano senso di "me", che è quello di pensare a noi stessi in termini di "me" convenzionale; e come ci liberiamo di questo "me" gonfiato – con il quale ci identifichiamo e pensiamo a noi stessi in termini di questo falso "io". In occidente parliamo di un sé sano e di un sé gonfiato. Un sé sano consiste nel pensare a sé stessi in termini di "io" convenzionalmente esistente; un sé disfunzionale o gonfiato consiste nel pensare a sé stessi in termini di questo falso "io" – quello che in realtà non si riferisce alla realtà.

Quel sé convenzionale (sarebbe): "Non mi considero niente di speciale. Sono uno dei sette miliardi di persone e voglio essere felice; non voglio essere infelice proprio come tutti gli altri”. È un sano senso di “me” pensare a noi stessi in questo modo. Dobbiamo assumerci la responsabilità della nostra vita e di ciò che proviamo – è tutto in relazione all’"io" convenzionale, questo sano senso di "io". Ma se pensiamo a noi stessi come "Sono il più importante, dovrei sempre fare a modo mio”, ecc. identificandoci con questo – considerandoci, per usare la nostra terminologia, come quel tipo di "me" – questo è un senso gonfiato di "me" e, poiché non si riferisce alla realtà, allora non potrebbe mai essere soddisfatto. È impossibile fare sempre a modo nostro e che tutti ci considerino i più speciali.

Quindi a cosa porta questo? A frustrazione, sofferenza, infelicità. Invece se pensiamo che “Sono uno dei sette miliardi, niente di speciale; per condurre una vita felice e realistica devo andare d'accordo con gli altri, essere rispettoso degli altri; siamo tutti qui insieme” – allora questo porterà a una vita più felice, è più realistico. Questo è pensare in termini di "io" convenzionalmente esistente, un sano senso di sé.

Per favore, riflettete su questo perché penso che sia importante per il nostro seminario comprendere questa distinzione tra il "me" convenzionalmente esistente, quello che realmente esiste e quello che non esiste, il falso “me” gonfiato. Non possiamo pensare a "me" senza qualcosa che rappresenti il "me", giusto? Abbiamo scoperto che, quando abbiamo indagato – dobbiamo almeno pensare verbalmente "io" per pensare "me". Quindi davvero è solo una questione di come consideriamo esistere quel "me".

Il sé come qualcosa di eterno

Come è stato annunciato, l’argomento di questo seminario è il sano sviluppo del sé attraverso gli stadi graduali del lam-rim. Anche se può esserci quella che io chiamo la “versione leggera del lam-rim” cioè questi stadi graduali solo in termini di questa vita, l’allenamento completo di lam-rim è ciò che chiameremmo "la versione vera e propria del lam-rim", che presuppone l'esistenza di vite passate e future senza inizio.

Cosa implica? Ciò implica che il sé, "io", il me, siano eterni – nessun inizio, nessuna fine. Anche se divento un Buddha, sono sempre "io". Se questo materiale ha qualche rilevanza dobbiamo esaminare questa domanda: credo di essere eterno? Pensateci, in realtà è una domanda molto interessante. In effetti spesso accade che non vogliamo nemmeno pensare di non essere eterni.

Se crediamo in una religione occidentale o mediorientale crediamo che un Dio eterno ci abbia creati, quindi abbiamo un'origine senza inizio e le nostre anime, il "sé", sono eterne e dopo questa vita andiamo in paradiso o all'inferno (o forse c'è un purgatorio nel mezzo, a seconda della religione occidentale in cui crediamo) e così sarà per sempre. In queste religioni occidentali e mediorientali si crede in un sé eterno; Dio non ci ha creati dal nulla, ma dalla parte di Dio in un certo senso quindi abbiamo questa origine senza inizio come parte di Dio e poi continueremo per sempre dopo la morte nell'aldilà. Quindi abbiamo un sé eterno.

Se non fossimo credenti e credo che voi abbiate una lunga tradizione, qui in Lettonia, forse non lunga ma almeno una tradizione ben consolidata che risale al secolo scorso: in cosa crediamo se non crediamo nella creazione di Dio, nel cielo eterno o nella dannazione all'inferno? Cosa pensiamo? Se sei un non credente, esamina questa domanda. Da dove vieni e dove vai? Sembra il titolo di una canzone, vero?

Penso che molti di noi troveranno la risposta: niente. Veniamo dal nulla e ritorniamo al nulla. Se dici che andrai nella tomba e rimarrai eternamente nella tomba, il tuo corpo è nella tomba; tu sei nella tomba? Sono nella tomba e sono morto. "Sono morto" implica che c'è ancora un "sé" e qual è la caratteristica o la fase in cui si trova quel "sé"? La fase della morte. Se analizzi e pensi logicamente all'affermazione: sono morto, il tempo verbale è il presente; è un destino terribile. Che cosa vuol dire che esiste ancora una sorta di "io" nel Grande Nulla? Sono morto solo per un breve tempo? No, sono morto per sempre – per l’eternità. Sembra divertente ma logicamente siamo portati a questa conclusione, anche se siamo non credenti crediamo comunque che ci sia un sé eterno. Ha senso? Per quanto strano possa sembrare, è la conclusione logica.

È spaventoso il fatto che mi trasformerò nel nulla. Come potrebbe essere spaventoso se sei davvero niente, a meno che tu non esista come niente, come parte del nulla? Naturalmente la paura potrebbe anche essere presente perché non sei del tutto sicuro. Tutti dicono che non è niente, ti è stato insegnato che è niente, ma davvero non lo sai. Quindi se sei agnostico, "Non lo so, non ne sono sicuro", ciò implica ancora che ci sarà qualcosa in seguito che durerà per sempre, non solo per un mese e poi finisce. Quindi, sia che vogliamo ammetterlo o no, in realtà crediamo in un sé eterno. Il modo in cui lo comprendiamo, in cui consideriamo le varie fasi della nostra esistenza attraverso l'eternità, ovviamente varierà a seconda della nostra struttura concettuale. Ma in realtà penso che tutti pensino in termini di un sé eterno, se esaminano logicamente tutte le possibilità.

Quindi la rinascita senza inizio in senso buddhista è solo una variante del tema di un sé eterno per il quale questa vita è solo un episodio. Indipendentemente da come pensiamo alla vita eterna, questa vita ora è solo un episodio o parte di ciò. La maggior parte di noi non ricorda il "me" della vita o delle vite precedenti e non conosce quello delle vite future, ma non è così sorprendente. Quando sei nel grembo materno come feto, quello sei tu? Sì. Lo ricordi? No. Quando sarò molto vecchio, sarò ancora io? Non è ancora successo, ma sarò ancora "io", non sarà qualcun altro. Quindi, solo perché non ricordiamo le vite precedenti e non conosciamo ancora l’"io" delle vite future, ciò non confuta l'esistenza di vite passate e future.

Spero che comprendiate dove porta tutto ciò: all'intera discussione sulla preziosa rinascita umana, l’inizio del lam-rim, che è importante per chiunque indipendentemente dal fatto che pensiamo in termini di rinascita buddhista, di religione occidentale, mediorientale oppure se siamo non credenti; questo è un fatto speciale, questa preziosa vita umana che abbiamo ora in termini dell’eternità di "me".

Perché è importante essere in grado di pensare a un “io” eterno per apprezzare veramente le meditazioni sulla preziosa rinascita umana? Perché se pensiamo a questa vita e non prendiamo nemmeno in considerazione le vite passate o future, allora è Dharma in versione leggera – potremmo lavorare per sfruttare questa vita perché la morte arriverà, non durerà per sempre quindi potremmo avere una versione di meditazione Dharma Light molto utile sulla preziosa vita umana. Ma se pensiamo a questa vita come a un episodio di un continuum eterno molto più ampio e non sappiamo cosa accadrà dopo, allora diventerà davvero molto più urgente usare questa vita perché poi ci sarà qualcosa dopo, anche se è il Grande Nulla. Cosa farai nel Grande Nulla? Ovviamente nulla.

Devo dire che c'è un'altra conseguenza della versione leggera del Dharma perfettamente valida e molto utile di questa discussione: c'è un'altra variante dell'eternità che consiste nel pensare ai discendenti della propria famiglia in futuro, anche se non si hanno figli, alla propria eredità, memoria – che questo continuerà nel futuro e si spera che duri. Potremmo pensare in termini di "Voglio usare questa preziosa vita umana in modo da non lasciare un casino quando me ne sarò andato per i miei figli, i miei studenti, le persone che lavorano per me nella mia società e per le persone in futuro (inquinamento, ecc.)”. Potremmo pensare così, voglio usare questa preziosa vita umana ora per assicurarmi di lasciare una buona eredità.

Ma chi stiamo prendendo in giro, quanto è importante per noi ciò che le persone sperimenteranno in futuro rispetto all'importanza che attribuiamo a ciò che sperimenteremo noi in futuro? Ciò che proverò, per la maggior parte di noi (a meno che non siamo altamente sviluppati spiritualmente) è molto più urgente di ciò che sperimenteranno gli altri in futuro. Pensateci: se lascio un pasticcio e qualcun altro lo dovrà ripulire o se invece tu lo fai e devi ripulirlo, confronta i due pensieri: quale ci spinge maggiormente a non combinare il casino?

È più urgente per noi non fare un casino se dovremo occuparcene da soli rispetto al poterlo lasciare ai nostri discendenti o ad altri in futuro. Quindi ciò che facciamo con questa preziosa vita umana quando pensiamo "dovrò sperimentarne le conseguenze" è molto più potente del pensare in termini di altri che devono sperimentare ciò che noi lasciamo. Questo è perfettamente corretto; è un sano senso di "me", di responsabilità di ciò che faccio della mia vita perché dovrò sperimentarne i risultati. È un atteggiamento piuttosto salutare.

Più maturo è pensare che, oltre a me stesso, gli altri dovranno subirne le conseguenze. Entrambi dovranno subirne le conseguenze. Tuttavia solo pensare che non dovrò assolutamente sperimentarne le conseguenze, che qualcun altro lo farà, non è molto appropriato psicologicamente. Pensateci.

Penso all’importanza e all’utilità del pensare a un “io” eterno, indipendentemente da come concepiamo quell'eternità, per apprezzare la preziosa vita umana che abbiamo ora. Se pensiamo che ci sia qualcosa anche dopo, allora questo è solo un episodio.

Modi di progredire attraverso gli stadi del lam-rim

Esistono due modi o livelli di affrontare il lam-rim: la versione vera o la variante leggera del lam-rim. Un modo di praticare quella vera è sostanzialmente nell’ambito di ciò che Sua Santità il Dalai Lama chiama scienza e filosofia buddhista – non necessariamente religione buddhista. Ciò significa che si può praticare il lam-rim, o almeno l'inizio di questo, senza essere un credente buddhista. Non si inizia come credente buddhista, si inizia come una persona normale che ha creduto in diverse cose in passato. Il punto che sto cercando di sottolineare è che, se davvero esaminiamo, noi crediamo in un sé eterno e questo penso sia il criterio principale per praticare il vero Dharma. Mentre progrediamo attraverso gli stadi del lam-rim come non buddhisti, alla fine vedremo il valore, l'accuratezza, la correttezza della visione buddhista della realtà e poi effettivamente accetteremo il percorso buddhista.

Il punto in cui introduciamo la visione corretta della realtà può variare lungo gli stadi graduali, potrebbe essere al tempo della presa di rifugio, quella che chiamo la "direzione sicura"; bisogna davvero comprendere le quattro nobili verità per avere una certa fiducia in ciò che Buddha ha insegnato e realizzato. Per comprendere le quattro nobili verità bisogna capire la vacuità, la realtà e i veri sentieri. Può avvenire qui, nell'ambito intermedio o in quello avanzato, dipende dalle persone.

Nello scopo iniziale, se pratichiamo il lam-rim vero in questa prima variante in cui non iniziamo come buddhisti, allora presumiamo semplicemente che le quattro nobili verità siano corrette. Non ne siamo certi; la nostra conoscenza non si basa sulla logica e sull'inferenza, per non parlare dell'esperienza; quindi si presume che siano vere. È solo nello scopo intermedio e avanzato che si entra davvero nella discussione sulla vacuità.

Il secondo modo di praticare il vero lam-rim consiste nell’essere già buddhisti, nell’avere già accettato la visione buddhista. Probabilmente abbiamo già praticato l'addestramento del lam-rim e ora torniamo indietro, il che è molto importante, praticando l'intero processo degli stadi graduali dell'individuo mahayana: puntiamo all'illuminazione e, per raggiungerla, dobbiamo fare uso di questa preziosa rinascita umana che non durerà a lungo, ecc.

Queste sono le due varianti del modo in cui pratichiamo il vero lam-rim: come non buddhista fin dall’inizio o inizialmente come già buddhista convinto; in entrambi i casi ciò che rende questo Dharma reale è che stiamo pensando in termini di un sé eterno.

Contrariamente a ciò, abbiamo la versione leggera con cui attraversiamo tutte le fasi del lam-rim con il solo pensiero e l’unica preoccupazione di migliorare questa vita. Può essere molto utile, ma non così facile in termini di discussione del karma, dal momento che non sperimentiamo realmente i risultati della maggior parte delle nostre azioni in questa vita. Quindi la nostra comprensione è un po’ instabile.

Penso sia utile (almeno lo spero) apprezzare i vari modi con cui possiamo lavorare con il materiale del lam-rim:

  • la versione Dharma Light;
  • il vero Dharma come non buddhista inizialmente, non realmente convinto o senza nemmeno conoscere gli insegnamenti buddhisti sulla realtà;
  • e infine, il vero Dharma sulla base dell’essersi già allenati nel percorso buddhista, ripercorrendolo e rendendolo più stabile.

Quello che vorrei fare questo fine settimana – questa sera è un’introduzione – è discutere il sano sviluppo di sé attraverso il vero Dharma, il vero lam-rim, dal punto di vista del non accettare ancora il punto di vista buddhista. Come potremmo iniziare come persone normali che, se pensassero più profondamente, capirebbero che in realtà credono in un sé eterno in un modo o nell'altro, anche se è in termini del Grande Nulla? "Ora sono morto", come abbiamo detto, c'è ancora un "io" in quel "Sono morto" al tempo presente. Prima di proseguire con le domande o le osservazioni, potete semplicemente riflettere su come abbiamo affrontato il lam-rim, dal momento che presumo che la maggior parte di voi l’abbia già studiato, più o meno profondamente. Come abbiamo effettivamente affrontato il lam-rim e quali vantaggi ne abbiamo tratto?

Domande

Sperimentare la sofferenza con il "me" convenzionale o gonfiato

Vorrei un chiarimento: all'inizio ha detto che ci sono il "me" convenzionale e il "me" gonfiato. Il "me" gonfiato porta alla sofferenza. Come gestire le malattie del corpo – con il "me" convenzionale o il "me" gonfiato? Perché anche le malattie creano sofferenza.

Prima di tutto, chi sperimenta la sofferenza fisica della malattia? È il "me" convenzionale. Il falso "me" non esiste affatto. Possiamo considerare erroneamente il "me" convenzionale pensando che corrisponda a qualcosa di reale. Ma questo è un falso "me", non si riferisce a nulla di reale; quindi il falso "io" non può sperimentare nulla. Tuttavia, possiamo sperimentare la malattia e la sofferenza della malattia con un modo di considerare il "me" che non è corretto, come in "Povero me", "Sono la vittima", "Nessuno ha questo male come me", "Perché mi sta succedendo questo” e tutta quell'agonia mentale che può accompagnare la malattia.

Ma non è davvero una questione di come classifichiamo la sofferenza di una malattia se dovuta a un "io" convenzionale, a un "io" falso o all'affermazione per cui identifichiamo noi stessi in termini di un "io" falso, non è ciò che porta alla sofferenza. Non credo sia un modo appropriato di guardare al fenomeno di una malattia fisica, inizia a diventare molto complesso. Amo dare risposte lunghe, alcune persone sono molto abili nel dare risposte molto brevi, ma io non lo sono quindi permettimi di dare una risposta lunga.

Il sé convenzionale sperimenta la sofferenza della malattia, il falso "io" no. Questo è chiaro. Ora potresti dire: “Bene, la malattia è stata causata dal karma, ho commesso qualcosa di orribile in una vita precedente, ho abbreviato la vita degli altri e di conseguenza la mia vita si è accorciata, ho una malattia” ecc. e “Ho agito in questo modo per ignoranza, per inconsapevolezza di come esisto. Ho pensato a me stesso in termini di un falso 'io'”. Devo dire che questa è una spiegazione piuttosto semplicistica.

Ho menzionato, prima di iniziare la registrazione della presentazione di Tsongkhapa, gli oggetti per focalizzare lo sviluppo di shamatha, uno stato mentale calmo e stabile, affermando che concentrarsi sul respiro è utile – prendendolo come oggetto di concentrazione – per coloro che hanno molta attività mentale discorsiva per calmarla, concentrandosi solo sul respiro. Per coloro che hanno ingenuità riguardo alla realtà, lui raccomanda di concentrarsi sul sorgere dipendente degli aggregati.

Lui lo spiega – non è così facile da capire – ma ciò su cui ci stiamo concentrando qui è una situazione che stiamo vivendo, diciamo una malattia fisica: è sorta in modo dipendente da cause e condizioni. Da un punto di vista causale la stiamo vivendo come la maturazione di una tendenza karmica o, in un modo più impersonale, sorge a causa di una tendenza karmica – questa è la causa. Poi ci sono tutte le condizioni per cui è maturata in questo particolare momento, senza quelle condizioni non sarebbe potuta maturare ora, come il tempo, cosa ho fatto, potrebbe esserci un'epidemia in corso – tante cause diverse – l’alimentazione, la quantità di esercizio fisico, le persone con cui sono entrato in contatto. Puoi iniziare a elencare tutti i tipi di condizioni che hanno contribuito al motivo per cui sono malato.

Ci sono tutti i vari fattori causali che sono coinvolti nella mia risposta emotiva in termini di tutto il mio retaggio psicologico, quindi ovviamente tutto ciò che lo ha influenzato in termini di famiglia e educazione, ecc. motivi per cui c'è una certa quantità di autocommiserazione – sono presenti tante emozioni diverse e ciascuna deriva da un diverso tipo di tendenza, un diverso tipo di abitudine: la situazione non esiste nel vuoto. Nelle circostanze sono incluse le strutture mediche e ospedaliere disponibili, se ci sono amici e parenti che si prendono cura di me o sono completamente solo – tanti altri fattori contribuiscono alla situazione.

La causa karmica – un precedente tipo di azione che è stato commesso anch’esso nel contesto di un intero gruppo di condizioni e circostanze – è solo una parte di questa enorme rete di fattori sorti in modo dipendente. Per ottenere lo shamatha mantenendo questo come oggetto, Tsongkhapa dice di concentrarsi solo sulla situazione con il proprio modo di comprenderla, vale a dire che è sorta da questo enorme complesso di cause e condizioni:

  • senza che esistesse un “io” veramente esistente che fosse l'agente, il colpevole che lo ha provocato;
  • senza un "io" veramente esistente che sperimenta il risultato, in altre parole la vittima – povero me. Quindi senza colpa – “Sono il colpevole che ha causato questo perché sono stato cattivo in una vita passata";
  • senza la sensazione di essere la vittima – “Povero me, non me lo merito" – come "Questo è il mio castigo".

Proprio questo è derivato da un'enorme rete di cause e condizioni, senza entrare in tutti i dettagli. Questo è il tuo oggetto per lo shamatha; ed è una meditazione assolutamente brillante.

Perché ne parlo, a parte il fatto che trovo sia una meditazione fantastica? Perché quando studiamo il Dharma diciamo che la radice di tutti i problemi – come nei dodici anelli del sorgere dipendente – il primo anello, la radice di tutti i problemi è questa inconsapevolezza di come si esiste, di come esiste il sé, l’"io" e tutti gli altri. Non lo sappiamo o lo sappiamo in modo errato: tutto deriva da questo. Sebbene ciò sia corretto, lo fraintendiamo. Qual è il malinteso? È nelle quattro visioni errate della seconda nobile verità, in termini dei sedici aspetti delle quattro nobili verità (solo per dirvi che non me lo sto inventando).

Qual è una comprensione errata della vera causa della sofferenza? Che tutta la sofferenza proviene da una causa, che i risultati derivano solo da una causa. Può esserci una causa principale, una causa fondamentale, ma non è solo per causa "mia" e del "Sono così stupido" che sto soffrendo. Vedete di che viaggio egoista si tratta e il pericolo di pensare in quel modo? "È per colpa mia, sono stupido e non ho capito, è per questo che sono la povera vittima, devo solo svegliarmi e capire correttamente così tutti i miei problemi spariranno". È troppo semplicistico, questo significa pensare che i risultati provengono veramente da una sola causa quando derivano da un'enorme rete di cause e condizioni.

Vedete, anche se stiamo davvero saltando qualche passo nella sequenza del lam-rim questo è un punto davvero importante. Possiamo vedere la differenza tra il “me” sano e il “me” gonfiato rispetto alla propria responsabilità per la sofferenza che si prova? Il “me” gonfiato è questo grande “me”, è “tutta colpa mia”, che è un gonfiare quel “me” – tutto ciò che accade è colpa mia. Puoi vedere come questo può iniziare a diventare abbastanza paranoico: "Ho fatto questa cosa cattiva e questa cosa stupida nelle vite passate ed è per questo che sto soffrendo".

Un sano senso di "me" è "Sì, convenzionalmente ho agito in questo modo e così via, quindi ci sono i semi karmici per sperimentare questo e quello, ma ci sono miliardi di altre cause e condizioni che sono coinvolti". Non gonfiare il senso di "me", "sono responsabile di ogni disastro che accade nel mondo, in particolare di ogni disastro che accade a me. È tutta colpa mia”. È troppo gonfiato.

Ciò che è così difficile in realtà è evitare i due estremi.

  • "È tutta colpa mia" è un estremo, questo è il "me" gonfiato.
  • L'altro estremo è “Non sono affatto responsabile; sperimento questa cosa che sta accadendo solo dall'esterno. Non ho fatto niente, sono innocente".

Questi sono i due estremi ed è nel mezzo che abbiamo il sano senso di "me", un sano senso di responsabilità, non uno gonfiato. Quindi questi parametri di "innocente" o "colpevole" non sono realmente adeguati all'intera spiegazione buddhista. È molto interessante in realtà pensare a come otteniamo le nostre idee sbagliate sovrapponendo al Buddhismo alcuni aspetti della nostra cultura che provengono dal nostro senso della legge – colpevoli o non colpevoli, colpevoli o innocenti. È irrilevante.

Mi scuso per aver preso tutto il tempo con una sola domanda, ma la tua ha condotto a punti molto importanti, è una buona domanda che penso aiuti anche a introdurre le differenze tra un sano senso di "me" e un senso gonfiato di "me", se lo guardiamo dal punto di vista della responsabilità per ciò che sperimentiamo.

L'egoismo e la radice dei problemi vs. le cause dei problemi

Se questo falso "io" è egoista, possiamo dire che anche il sé convenzionalmente esistente è egoista?

Il falso "io" non esiste: concepiamo erroneamente il "me" convenzionale come il falso "me". Quindi chi è egoista? Non può essere il falso "me" perché il falso "me" non esiste. È il “me” convenzionale – la mia esperienza del mondo che include il fattore mentale dell’egoismo, il quale accompagna vari momenti dell’esperienza. E cos’altro accade nei miei cinque aggregati? Cosa compone la mia esperienza, questo composto? Il fatto che c’è un'errata considerazione di "me". Penso a "me" come al falso "io" – “Sono il migliore, io sono la cosa più fantastica, dovrei sempre fare a modo mio” e a un altro fattore mentale di egoismo. Pertanto penserò solo a "me", a ciò che otterrò.

Possiamo studiare questi fattori mentali e considerarli solo informazioni, tuttavia se cominci ad analizzare utilizzando questi sistemi, essi davvero indicano il modo di lavorare sui vari problemi. D’altro canto, tutto ciò che il Buddha ha insegnato mira a facilitare il superamento dei problemi, della sofferenza. "Io" sono egoista, quindi sono responsabile; il "me" convenzionale sperimenta le cose. Considero erroneamente "me" come un falso "me" e c'è l’egoismo che lo accompagna. Quindi, se mi sbarazzassi di quel malinteso sul "me", non avrei l'egoismo. Ecco su cosa lavorare.

Se lavori solo sull'egoismo – non sono egoista, ma penso ancora in termini di questo "io", "io", "io" come "Io sono il martire, non sarò egoista e affronterò tutta la sofferenza" – è un grande "io" gonfiato. Quindi stai ancora pensando a un falso "io" senza arrivare alla radice del problema. Ma il problema in sé è complesso, è composto da molte parti, molti fattori.

Vedete, il malinteso del sé è la radice dei problemi. C'è una grande differenza tra "Questa è la radice di un problema, quindi se vuoi togliere la pianta devi estirpare la radice" e dire "La radice è l'unica causa della pianta". La pianta è cresciuta per via di molte condizioni e circostanze che hanno contribuito – il suolo, la pioggia, il tempo, ci sono così tanti fattori. Ma se vuoi liberartene, devi eliminare la radice. Quindi è così che intendiamo affrontare questa inconsapevolezza o ignoranza sul sé in modo convenzionalmente corretto; non nel senso che "Questa è l'unica causa" e "Sono stupido" e tutto il resto.

Quindi, per favore, assimilatelo per un momento: la differenza tra la radice di un problema e "Deriva tutto da quella causa e quindi io sono il colpevole"; la differenza tra estirpare la radice del problema e pensare "È stata tutta colpa mia".

Possiamo sperimentare risultati di una situazione se non ne abbiamo prodotto le cause?

Questa è la quarta legge del karma, non sperimenterai i risultati se non hai accumulato le loro cause. [Se si potessero sperimentare i risultati di azioni non compiute,] allora ci sarebbe l'estremo di "Sono totalmente innocente, non ho fatto nulla, quindi perché mi sta succedendo?" estremo di essere la vittima. Questo è l'estremo nichilista.

Concludiamo qui per questa sera con la dedica. Pensiamo che qualunque comprensione e forza positiva sia derivata da questo, possa andare sempre più in profondità e agire da causa per contribuire all'illuminazione di tutti – non solo di "io", "io", "io" voglio illuminarmi. Ecco perché il decimo capitolo di Shantideva, il capitolo della preghiera di dedica, è così meraviglioso perché è sempre in termini di possano tutti essere così, mai "possa io".

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