La forma è vacuità, la vacuità è forma

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La consapevolezza discriminante di vasta portata

Ieri abbiamo iniziato la nostra discussione sul Sutra del cuore e abbiamo visto che questo sutra presenta, in una forma molto condensata, gli insegnamenti sulla consapevolezza discriminante di vasta portata. La consapevolezza discriminante, solitamente tradotta come “saggezza”, è un fattore mentale e si basa sul fattore chiamato “distinzione”, spesso tradotto non precisamente come “riconoscimento”. In generale, quando distinguiamo qualcosa, distinguiamo ciò che è da ciò che non è e questo è un fattore mentale che funziona in ogni momento della nostra vita. Ad esempio, quando guardo questa persona di fronte a me, distinguo le forme colorate del suo viso dalle forme colorate del muro. La forma visibile del viso è un mosaico di forme colorate, e non include quelle che sono proprio accanto ad esso nel mio campo visivo. Non saremmo in grado di gestire la nostra percezione se non avessimo questo fattore mentale della distinzione, non potremmo distinguere un oggetto dallo sfondo o un oggetto da un altro oggetto.

Quando leggiamo nella letteratura mahamudra, ad esempio, che la realtà è al di là di “questo” e “quello”, significa al di là della differenziazione di un “questo” solidamente stabilito da un “quello” solidamente stabilito. Ciò si riferisce a un “questo” che è incapsulato e isolato, esistente tutto da solo e non stabilito come “questo” in relazione a “quello”. “Questo” e “quello” sono stabiliti in modo interdipendente l’uno in relazione all’altro. 

L’affermazione non si riferisce al nostro fattore mentale generale della distinzione. Come ho detto, senza distinzione non sarei in grado di distinguere il tuo viso dal muro dietro di te. Il fattore mentale della consapevolezza discriminante aggiunge certezza a quella distinzione. “Certezza” significa che siamo decisamente convinti che sia questo e non quello; naturalmente, potremmo essere decisamente convinti che sia questo e non quello, ed essere corretti o non corretti. 

Tuttavia, la consapevolezza discriminante di vasta portata è in termini di realtà - come esistono le cose: è così e non è così - ed è corretta perché è basata sulla logica e anche sull’esperienza che, se comprendiamo e vediamo le cose in termini di questa corretta comprensione, ciò riduce al minimo o elimina la sofferenza. Dopo tutto, perché abbiamo bisogno di comprendere la realtà e comprenderla correttamente? Perché, quando non siamo consapevoli di come noi e tutto esistiamo o lo comprendiamo in modo errato, allora, come ha sottolineato Buddha con le quattro nobili verità, questa è la causa più profonda della sofferenza - non solo nostra ma di tutti. La comprensione della realtà ci consente di liberarci di questa confusione così da eliminare la nostra sofferenza e da essere in grado di aiutare anche gli altri a superare la loro.

Quando traduciamo questo termine consapevolezza discriminante con “saggezza”, come nell’espressione “perfezione della saggezza”, non ne cogliamo il significato più completo e profondo. Come ho spiegato ieri, qui viene aggiunto “di vasta portata”, solitamente tradotto come “perfezione” perché, quando abbiamo questa comprensione della realtà - questa consapevolezza discriminante con rinuncia che è la determinazione a essere liberi dalla sofferenza e dalle sue cause, allora quella comprensione ci porterà alla liberazione; è di vasta portata e ci porta all’altra sponda del samsara. Se abbiamo quella comprensione con bodhicitta - in altre parole, miriamo alla nostra illuminazione non ancora raggiunta mossi dalla compassione e dall’amore per gli altri, con l’intenzione di raggiungerla per il beneficio di tutti - se la comprensione è con la forza di quel tipo di mente, allora ci porterà all’illuminazione. Quindi, possiamo avere una corretta consapevolezza discriminante della realtà senza rinuncia o sia rinuncia che bodhicitta; è possibile, ma non sarà di vasta portata, non ci condurrà fuori dal samsara e dal regno dell’essere un essere limitato (qualcuno che non è un Buddha). Non può condurci né alla liberazione né all'illuminazione, quindi non sarà di vasta portata.

Tradurre questo termine come “perfezione” non dà affatto un significato corretto o profondo, poiché potremmo pensare che perfezione significhi che abbiamo una comprensione perfetta, il che significa una comprensione corretta. Qui “prajnaparamita” non si riferisce solo a una comprensione corretta ma accompagnata anche a una motivazione di rinuncia, o di entrambe - rinuncia e bodhicitta. Questa consapevolezza discriminante di vasta portata è qualcosa che dobbiamo applicare nel nostro comportamento nella vita quotidiana; ecco perché in questo sutra si parla di come condurre il nostro comportamento, “in profonda e vasta consapevolezza discriminante”. Profonda in quanto la più profonda comprensione della realtà è corretta, e di vasta portata in termini di motivazione. Questo sutra, questa discussione, è ispirato dal Buddha che è in concentrazione, ed è nella forma di Shariputra che chiede ad Avalokiteshvara di spiegare.

I cinque aggregati dell’esperienza

Ora, passiamo alla spiegazione di Avalokiteshvara che inizia in questo modo. 

Lui o lei ha bisogno di tenere in vista, completamente e in dettaglio, i cinque fattori aggregati della sua esperienza e anche questi come privi di una natura che si stabilisca da sé.

Per comprendere questo passaggio e quelli che seguono dobbiamo comprendere i cinque fattori aggregati. Infatti, il sutra si riferirà a molti gruppi di fattori. Ci sono i cinque fattori aggregati, i dodici stimolatori cognitivi, le diciotto fonti cognitive, i dodici anelli di origine interdipendente. Dobbiamo ricordare che questo è un sutra condensato: il cuore, l’essenza degli insegnamenti prajnaparamita; nelle versioni più estese, lunghe fino a 100.000 strofe, avremo tutti i dettagli. Quando abbiamo una versione estesa e una condensata di qualcosa (come qui con la letteratura prajnaparamita e anche con le sadhana tantriche), dobbiamo ricordare che la forma condensata è in realtà per i praticanti avanzati e quella estesa per i principianti. Ci piace pensare l’opposto! Solo quando comprendiamo l’insegnamento completo possiamo integrare con la nostra comprensione ciò che è condensato; altrimenti, è molto difficile capire di cosa si parla in queste versioni abbreviate. 

Abbiamo poco tempo a disposizione insieme per spiegare tutti questi elenchi in dettaglio, ma cercherò di darne una breve spiegazione in modo che almeno questo materiale nel Sutra del cuore sia comprensibile.

Chiamo i cinque aggregati i “cinque fattori aggregati dell’esperienza”. Ieri abbiamo visto a cosa si riferisce “esperienza”. Sperimentare le cose significa non solo assorbire informazioni, ma anche provare un certo livello di felicità o infelicità in concomitanza con ciò. Cosa sta realmente accadendo di momento in momento? Questa è la domanda. Possiamo solo gestire ciò che accade di momento in momento in termini della nostra esperienza soggettiva di esso, e questo è individuale. Ciò che sto sperimentando seduto in questa stanza e ciò che ognuno di voi sta sperimentando seduto nella stanza sono molto diversi, anche solo a livello dell’aspetto visivo che state percependo; ognuno sta guardando da una prospettiva diversa. 

Per analizzare cosa costituisce questo momento di esperienza - dopotutto cambia di momento in momento - vogliamo avere uno schema di classificazione. Perché? Non è solo uno schema di classificazione scientifica, stiamo parlando di Buddhismo e vogliamo capire cosa stiamo vivendo, perché c’è sofferenza come parte di essa, e vogliamo capire quale parte di ciò che sta accadendo nella nostra esperienza soggettiva crea i problemi, causa la sofferenza, e cosa dobbiamo cambiare per eliminarla. Questo è lo scopo, non è solo un gioco intellettuale.

Possiamo classificare o dividere ciò che stiamo sperimentando in termini di cinque grandi categorie. Ciò non significa che queste categorie siano scatole da qualche parte nel cielo o a sé stanti; è solo un modo di comprendere le cose. Abbiamo forme e fenomeni fisici. Ci sono forme, suoni, odori, sapori e sensazioni fisiche, e ci sono i sensori fisici, o le cellule degli occhi, delle orecchie e così via, che sono coinvolti nella percezione di qualsiasi forma di fenomeno fisico. Ne abbiamo anche di più sottili come, ad esempio, ciò che appare nei sogni: oggetti apparentemente sensoriali che appaiono quando sogniamo o quando immaginiamo qualcosa, come quando pensiamo a un cane. Abbiamo una sorta di immagine visiva che è puramente mentale. In ogni momento ci sarà una sorta di forma di fenomeno fisico, anche se è solo l’oscurità mentre dormiamo.

Quindi, c’è ciò che è chiamato “coscienza primaria”, un modo di essere consapevoli della “natura essenziale” (ngo-bo) del suo oggetto. Cosa significa “natura essenziale”? Ci sono molti termini diversi che sono tradotti liberamente come “natura”, ma in realtà ci sono molti diversi tipi di natura e parole specifiche hanno significati specifici. Non possiamo semplicemente dire “consapevole della natura dei fenomeni”. È una natura essenziale, quindi significa in sostanza che tipo di fenomeno è; è consapevole in termini di qualcosa che è una forma, un suono, un odore, un sapore, una sensazione fisica o un oggetto mentale. Questa è una natura essenziale: che tipo generale di cosa è qualcosa. Nella scienza moderna, non facciamo questa differenziazione in diversi tipi di coscienza, parliamo solo di coscienza. Qui differenziamo il tipo di coscienza primaria che abbiamo in base al tipo di informazione che riconosce.

Se pensiamo al cervello in un’ottica occidentale, ciascuno dei sensi invia qualche tipo di impulso elettrico e messaggio chimico attraverso i neuroni al cervello. È come la televisione che riceve una specie di onde o qualcosa del genere. In realtà, non so come funziona una televisione, ma presumo che riceva una specie di informazione elettrica. La coscienza primaria è come il decodificatore e decodificherà quelle informazioni in informazioni visive, sonore, o il suo odore, sapore, informazioni tattili o mentali. Penso che sia una buona analogia di ciò che fa la coscienza primaria: decodifica queste informazioni, per così dire, in modo che siamo consapevoli che sono visive, olfattive, ecc. Anche un computer lo fa.

Inoltre, quando parliamo di modi di essere consapevoli di qualcosa, ci sono i tipi di coscienza primaria, come ho detto, ma anche fattori mentali o tipi sussidiari di consapevolezza. “Sussidiario” è in realtà un modo abbastanza letterale di tradurre il termine in sanscrito e tibetano; significa che è derivato da una coscienza primaria. È qualcosa che accompagna e aiuta una coscienza primaria in termini di, ad esempio, attenzione, interesse, concentrazione. In qualche modo si occupa di quelle informazioni e di tutto il contenuto emotivo che è coinvolto nel modo in cui siamo consapevoli di quell’oggetto, sia positivo che negativo: amiamo o odiamo quell’oggetto, ci piace, non ci piace.

Tra questi fattori mentali, due aggregati sono composti da un solo fattore mentale ciascuno, provano un livello di felicità e distinguono. Siamo in grado di distinguere, come ho spiegato prima, un oggetto da un altro nel nostro campo sensoriale; altrimenti, non potremmo gestire questa informazione. Poi proviamo un certo livello di felicità o infelicità in relazione a quell’oggetto. Oppure potremmo sentirci felici o infelici non specificamente per ciò che stiamo vedendo di fronte a noi; ci sentiamo semplicemente infelici in generale.

Abbiamo trattato quattro aggregati: forme di fenomeni fisici, coscienza primaria, distinzione e sensazione di un livello di felicità o infelicità. Il quinto è quello che chiamo “altre variabili influenzanti”, tutte le altre variabili (cose che cambiano) che influenzeranno la nostra esperienza, “samskara” in sanscrito. Questo aggregato è composto da tutti gli altri fattori mentali oltre al distinguere e al provare un livello di felicità, più alle cose che cambiano (che non sono statiche) che non sono né modi di essere consapevoli di qualcosa né forme di fenomeni fisici, ad esempio, tendenze e abitudini. In questa categoria è incluso anche il “me” convenzionale, un argomento difficile.

In ogni momento della nostra esperienza, avremo uno o più elementi da ciascuno di questi cinque aggregati, o sacchetti, se vogliamo parlarne in modo molto approssimativo. Cambiano in ogni momento e a velocità diverse, e ci sono dei problemi in ognuno di loro. Ciò che ci appare in ognuno di loro, per esempio, può essere corretto o scorretto, ma c’è anche un’apparenza di come esiste. Potrebbe apparire come se fosse incapsulato nella plastica e isolato da tutto il resto, e questo è scorretto.

La coscienza primaria non è tanto un problema in questo, ma le nostre sensazioni ordinarie sono di una sofferenza e infelicità grossolane (di certo non lo vogliamo) o di una felicità ordinaria, che non è neanche ottimale perché non dura. Siamo insicuri perché non sappiamo cosa succederà dopo. Non è mai soddisfacente perché non ne abbiamo mai abbastanza e, più ne abbiamo, si trasforma in sofferenza. Come la felicità di mangiare un gelato: più gelato mangiamo più quella felicità si trasformerà in dolori.

Inoltre, distinguiamo le cose in modo errato; pensiamo che se facciamo “questo” saremo felici, ma in realtà non è così. Distinguiamo la realtà in modo errato e proiettiamo ogni sorta di speranza e aspettativa sugli altri, e distinguiamo che questo è ciò che accadrà realmente, che quella persona è così o così, ed è del tutto errato. Quindi, con queste altre variabili influenzanti, abbiamo ogni sorta di problemi: le nostre emozioni disturbanti di aggressività, ostilità, attaccamento, gelosia, pigrizia. Vogliamo sbarazzarci di tutti questi aspetti insoddisfacenti.

Questo è tutto ciò che accade dal punto di vista di ciò che sperimentiamo. C’è questo conglomerato in continua evoluzione di fattori aggregati e, come si dice qui nel sutra, questo è privo di una natura auto stabilita. Prima di tutto, l’intera esperienza è priva di una natura auto stabilita così come ogni piccolo pezzo di essa è privo di natura auto stabilita, e “io” in tutto questo sono privo di una natura auto stabilita. Come funziona, cosa significa veramente?

L’etichettatura mentale 

Questo ci riporta al tema dell’etichettatura mentale. Ad esempio, potremmo dire “Sono di cattivo umore. Mi sento giù, depresso, ecc.”. Cos’è? Dobbiamo analizzare, perché ovviamente non è una bella esperienza. Stiamo etichettando questi cinque aggregati, ciò che stiamo vivendo ora, e non è solo questo momento ma un periodo di tempo, come cattivo umore. Ora abbiamo un’etichetta “cattivo umore”. La base per etichettarlo sono questi fattori aggregati costituiti da tutte queste parti che cambiano ciascuna a una velocità diversa ogni momento. Abbiamo un’immagine di qualcosa di molto dinamico e in movimento, non è vero? Ora l’etichetta mentale di “cattivo umore” è come un concetto e può essere espressa con queste due parole “cattivo umore”. 

“Categoria”: abbiamo avuto molte esperienze di cattivo umore ma non sono tutte esattamente uguali, vero? Ma abbiamo questa categoria generale “cattivo umore”, che è un concetto di cosa sia il cattivo umore. Avete una parola per questo in lettone e io in inglese; quindi, c’è una sorta di espressione verbale per questo. Può essere piuttosto interessante perché il tuo e il mio concetto di “cattivo umore” potrebbero essere piuttosto diversi, così come quello che per me è un “buon momento” per voi potrebbe essere incredibilmente noioso. Comunque, “cattivo umore” non è solo una parola o una categoria; esiste quello che viene chiamato un “oggetto di riferimento”, ciò a cui si riferisce questo concetto, a un cattivo umore che convenzionalmente esiste; è corretto. C’è una base per etichettare tutte queste piccole parti che cambiano continuamente; esiste un concetto mentale e un’etichetta mentale “cattivo umore”, e il “cattivo umore” si riferisce a qualcosa che convenzionalmente stiamo sperimentando “Sono di cattivo umore”. È un modo di mettere insieme e riferirsi a ciò che stiamo sperimentando.

Possiamo capirlo con un esempio più semplice. Quando mangiamo, facciamo qualcos’altro in ogni singolo momento! Solleviamo una forchetta, mettiamo qualcosa in bocca, chiudiamo i denti, deglutiamo. Ogni piccolo pezzo è diverso, ma possiamo riferirci al tutto come “Sto mangiando un pasto”. Convenzionalmente, stiamo mangiando, abbiamo mangiato, non è che questo non esiste.

Inoltre, l’oggetto referente e la base per l’etichettatura non sono la stessa cosa. Questa è un’affermazione molto profonda, ma dobbiamo capirla in un semplice esempio. Cos’è il pasto? Il pasto solleva la nostra forchetta dal piatto con un pezzo di cibo due centimetri più in alto? Questa è parte della base per l’etichettatura, ma è il pasto? Beh, no. Quindi, il pasto non è identico alla base, né a una delle sue parti né all’intera cosa. In realtà, più analizziamo, più diventa interessante. Abbiamo mangiato l’intero pasto in un istante? No, ma in ogni istante, lo stiamo mangiando. Iniziamo davvero a chiederci cosa succede qui. Questo argomento dell’etichettatura mentale è in realtà molto profondo quando si inizia ad andare sempre più in profondità nell’analisi di cosa succede con l’etichettatura mentale.

Il problema qui non è la nostra etichettatura mentale di ciò che stiamo facendo. Che lo etichettiamo mentalmente come mangiare un pasto o meno, stiamo comunque mangiando e possiamo comunque essere di cattivo umore. Il processo di etichettatura mentale non crea il cattivo umore, proprio come quello di dire che questo è un pasto non lo ha creato. Per scoprire qual è il problema, dobbiamo distinguere tra ciò che chiamo “oggetto di riferimento” (btags-chos) e “cosa di riferimento” (btags-don). In realtà, non è così facile da tradurre perché le parole tibetane sono molto simili. 

Ricordate che ieri abbiamo parlato di supporto focale e di come le nostre proiezioni di come esistono le cose non hanno qualcosa che le sorregga, come un supporto di una scenografia in un’opera teatrale. Una cosa referente è come un supporto focale; è qualcosa che in un certo senso sorregge quell’oggetto di riferimento.

Devo spiegarlo, perché ciò che ci appare è che “sono di cattivo umore”, e quel cattivo umore sembra essere qualcosa di abbastanza solido, e la cosa brutta è che sembra molto solido. Tutte queste cose cambiano di continuo: questi aggregati, ciò che stiamo guardando, ascoltando, ecc. cambiano ogni momento, e anche quanta attenzione vi prestiamo cambia ogni momento. Tuttavia, il modo in cui sperimentiamo tutto ciò è attraverso questa etichetta mentale di “Ooh, cattivo umore!” Quindi, pensiamo “cattivo umore” e questo appare: non è un’apparenza visiva, ma in un certo senso sorge nella nostra mente. In realtà non è come se la mente fosse una specie di palcoscenico e il cattivo umore marciasse e fosse lì in piedi. Tuttavia, appare tutto da solo come se si stesse stabilendo per suo stesso potere. In altre parole, non ci appare come sorto in dipendenza da tutte le varie cause e condizioni che lo hanno prodotto e, certamente, non ci appare come sorto in dipendenza da tutte le ragioni karmiche delle vite precedenti per un cattivo umore. Non ci appare nemmeno che in ogni momento questo cattivo umore stesso cambi. Appare come un “cattivo umore” statico e solido.

Poi vi associamo tutti i tipi di cose spiacevoli: ci sentiamo depressi, sentiamo che il resto della giornata è destinato a essere terribile perché siamo di cattivo umore, ecc. Sebbene sia convenzionalmente vero – “convenzione” significa che c’è una convenzione, abbiamo un modo di riferirci a ciò che stiamo vivendo, di metterlo insieme - è una convenzione valida che abbiamo tutti concordato che questo tipo di esperienza è un cattivo umore. È convenzionalmente corretto che siamo di cattivo umore. C’è un oggetto di riferimento di un cattivo umore che può essere etichettato mentalmente su ciò che stiamo vivendo ogni momento che cambia continuamente. C’è un modo di generalizzare ciò che stiamo vivendo. Ma non c’è nessuna cosa di riferimento che lo sostenga; in altre parole, non c’è nessuna cosa reale, un cattivo umore, dietro di esso, che esista di per sé, indipendentemente dalle sue cause e condizioni e dal fatto che cambia, e così via. Questo è ciò che è assente.

Elaboriamo ciò che viviamo quasi come un computer, con varie categorie: caldo, freddo, cane, gatto, mi piace, non mi piace. Elaboriamo le informazioni in questo modo. Abbiamo un linguaggio per esprimere queste categorie e abbiamo dizionari che riportano le definizioni di questi vari termini, come quella di cattivo umore o di pasto. Tuttavia, anche la definizione nel dizionario è inventata da qualcuno, proprio come le parole sono inventate da un gruppo di persone che hanno messo insieme suoni senza senso e hanno deciso che questo gruppo di suoni senza senso avrà un significato. Quindi, abbiamo un linguaggio basato su concetti e definizioni di concetti e parole. Va bene; ne abbiamo bisogno per comunicare la cosiddetta “realtà” - uso questa parola in senso lato, non corrisponde a questo. I dizionari, le parole e il linguaggio implicano delle caselle, che qualcosa rientri in questa casella, questa parola nel dizionario, o a quella casella, quella parola nel dizionario; ma le cose non sono proprio così. Voglio dire, pensiamo soprattutto alle emozioni. Se proviamo un’emozione, in quale categoria la classifichiamo?

Abbiamo un linguaggio, etichette mentali, concetti, e si riferiscono a cose: ci sono oggetti referenti, c’è la verità convenzionale delle cose, ma l’universo non esiste come in un dizionario, in scatole. Quindi, non esistono questi gruppi di scatole, le cose che esistono in scatole sarebbero come supporti focali. Ci dovrebbe essere una scatola dietro questo cattivo umore, etichettata “cattivo umore”, e ciò che stiamo provando è seduto lì, esistente lì per il suo potere, indipendentemente da tutto il resto. 

La vacuità è la totale assenza di ciò. Se l’universo fosse composto da tutte queste scatole, isolate, incapsulate in se stesse - dopotutto, ogni scatola è solo una voce diversa nel dizionario - allora ognuna di queste scatole sarebbe stabilita per il suo potere o per quello di qualche definizione. Sai, la definizione di cosa va in questa scatola, e qui è scritto, questa, questa, questa e quella definizione, eccola! Va in questa scatola!

Questo è ciò che viene descritto come una natura auto stabilita, qualcosa all’interno di un oggetto che, per il suo stesso potere, separato o isolato da qualsiasi altra cosa, stabilisce che va in questa scatola e non in quella. Questa è una distinzione molto sottile. Per il fattore mentale della distinzione le cose hanno convenzionalmente una caratteristica definitoria che può essere distinta. C’è una caratteristica definitoria per gatto o cane. Un gatto non è un cane, quindi ci sono caratteristiche definitorie convenzionalmente, ma queste sono state modellate da concetti e parole. 

Ci sono così tanti tipi diversi di animali che vengono inseriti in quella scatola “cane”. È davvero straordinario che qualcuno possa pensare che tutti appartengano alla stessa scatola. Alcuni scienziati hanno deciso che sono tutti cani, e hanno fatto quella classificazione, e hanno deciso alcune caratteristiche distintive che li rendono dei cani: non suda, ha la lingua fuori tutto il tempo, una coda che scodinzola - forse altri animali scodinzolano - quindi, in ogni caso, hanno rintracciato alcune caratteristiche distintive di ciò che è un cane. Tuttavia, cosa sono quando guardiamo? Ci sono solo tutti questi animali in giro senza una piccola etichetta al collo che dice “Sono un cane”, “Non sono un gatto, sono un cane”. Non c’è nulla in questo animale che per suo potere lo renda un cane. Ma è un cane, convenzionalmente, e lo chiamiamo cane non gatto. Siamo tutti d’accordo. Tuttavia, la categoria di “cane” viene stabilita tramite etichettatura mentale, per convenzione e non dalla parte di quell’animale.

Nessuna natura auto stabilita

L’intero sutra afferma che niente ha una natura auto stabilita. Quando crediamo che ciò che ci appare corrisponda effettivamente alla realtà, a questa apparenza di cose che hanno una natura auto stabilita, come se fossero incapsulate nella plastica da sole, allora siamo sotto l’influenza della confusione, dell’ignoranza e dell’inconsapevolezza. Perché, quando crediamo che questo cattivo umore che stiamo vivendo e che sembra essere così solido facendoci sentire così male corrisponda alla realtà, allora ci deprimiamo davvero. Ci identifichiamo con esso “Povero me, sono di cattivo umore. Non disturbarmi, non chiedermi di fare nulla perché sono di cattivo umore”. Il resto della giornata è senza speranza perché siamo di cattivo umore e non solo sperimentiamo sofferenza e infelicità, ma ne creiamo di più, non solo per noi stessi, ma per tutti coloro che incontriamo.

È come, per esempio, quando stiamo camminando, sbattiamo contro qualcosa al buio e ci fa male. Potremmo andare nel panico “Oh, mi fa così male l’alluce!” e farne un dramma. Oppure potremmo dire “Beh, convenzionalmente ho sbattuto l’alluce e mi fa male. E allora?”. Ok, guardiamo per vedere se è davvero ferito, se mettere un cerotto; lo prendiamo sul serio, ma poi andiamo avanti con la vita. Fa male. Bene, cosa ci aspettavamo? Certo, farà male, ma non c’è questa cosa orribile e mostruosa “Oh, mi sono fatto male all’alluce!” o “Oh, sono di cattivo umore!”. 

“Sono di cattivo umore, e allora?” Quindi facciamo qualcos’altro. Potremmo sederci lì e dispiacerci per noi stessi, ma non ci aiuta. È come “Non ho voglia di lavorare oggi”. Bene, e allora? Andiamo e lavoriamo comunque. Se abbiamo bisogno di una pausa allora ci alziamo dalla scrivania, facciamo una breve pausa e poi torniamo. Non facciamo storie per niente. Il mio insegnante Serkong Rinpoce ama sempre usare l’espressione “niente di speciale”. “Oh, ti sei sbattuto l’alluce, niente di speciale”. “Oh, sei di cattivo umore, niente di speciale.

Be’, niente di speciale ha qui una connotazione molto interessante perché, quando al nostro ministro delle finanze è stato chiesto della crisi e nel suo inglese mediocre ha detto “niente di speciale”, era uno studente di Serkong Rinpoce!

Questo è un ottimo esempio. Se lo trasformiamo in questa “crisi”, allora tutti si deprimono e si sentono senza speranza, impotenti. Tuttavia, se comprendiamo che è nata da cause e condizioni, allora iniziamo ad analizzare cosa può essere cambiato in modo da avere un’etichetta mentale diversa e non più “crisi”.

Ripeto ciò che Avalokiteshvara disse:  

Lui o lei ha bisogno di tenere in vista, completamente e in dettaglio, i cinque fattori aggregati della sua esperienza e anche questi come privi di una natura che si stabilisca da sé.

Ciò significa che tutto cambia, in ogni momento – questi cinque fattori aggregati – e non c’è nulla al loro interno che, per suo proprio potere, indipendentemente da cause, condizioni ed etichette mentali (come l’etichetta “cattivo umore”), li stabilisca come questo o quello.

Forma - vacuità, vacuità - forma

Nella traduzione ho seguito l’originale sanscrito perché ci sono state alcune modifiche nel modo in cui è stato tradotto in altre lingue asiatiche. In realtà, il sanscrito dice solo “Forma - vacuità, vacuità - forma”. È la traduzione cinese che ha aggiunto la parola “è”, “La forma è vacuità, la vacuità è forma”. Il sanscrito ha solo: 

Forma - vacuità; vacuità - forma.

Non può essere letteralmente che la forma sia vacuità. La vacuità è un fenomeno statico: è un fatto, non cambia. La forma è un fenomeno fisico, o semplicemente le forme in generale - forme di sensazioni, forme di ecc. - e cambia di momento in momento. Forma e vacuità non sono certamente identiche ma, nel linguaggio tecnico, condividono la stessa natura essenziale, il che significa che si riferiscono alla stessa cosa, ma da due punti di vista diversi. Non possiamo avere l’una senza l’altra. Come due facce di una moneta, non possiamo averne solo una. Se ne abbiamo una abbiamo anche l’altra e, sebbene non siano identiche tra loro, si riferiscono alla stessa cosa, non è vero? “Forma – vacuità, vacuità – forma” si riferisce a ciò che è noto come le due verità su qualsiasi cosa.

La verità convenzionale si riferisce all’apparenza delle cose. La verità più profonda a riguardo è la loro vacuità; la forma non esiste in modi impossibili. Impossibile significa con una natura auto stabilita. Le forme, le apparenze delle cose, sono sorte in modo dipendente da cause, condizioni e parti. Infatti, le cose possono apparire e funzionare solo a causa della loro vacuità. Non possiamo avere una mano indipendentemente dalle dita; sorge in modo dipendente da parti ed etichette mentali. Come è sorta l’etichetta mentale di “mano”? È ciò che è delimitato dal polso. Dove sul polso? È un concetto mentale, non è vero? Se l’esistenza di una mano è stabilita - quindi, la forma – dall’evoluzione e dalla crescita del feto e del DNA, ed è stabilita da tutte le parti, da tutte le cellule delle dita, e da un’etichetta mentale “mano”, che distingue una certa parte del corpo, quindi se sorge in modo dipendente da tutto ciò, ciò significa che è priva di una natura auto stabilita: qualcosa al suo interno che, di per sé, la rende una mano.

È importante mettere in relazione tutto questo con le nostre vite, il nostro comportamento. Dopotutto, qui ad Avalokiteshvara viene chiesto, come ci comportiamo con questo? Forse non è così significativo per noi riguardo alla nostra mano o al muro, o qualcosa del genere, a meno che non pensiamo “Oh questo muro terribile, è così brutto!”. Pensatelo in termini di cattivo umore, di questa persona terribile che non ci piace o di questo grande problema che stiamo affrontando nella vita. Queste sono le cose che dobbiamo capire essere prive di una natura auto stabilita. Bene, c’è l’apparenza, è convenzionalmente così; tuttavia, è priva di stabilirsi per il suo stesso potere. Ci sono tutte queste cause, circostanze, ecc., che cambiano continuamente, e ci sono i concetti e le parole con cui le etichettiamo.

Inoltre, quando comprendiamo l’intero processo di etichettatura mentale ci rendiamo conto che possiamo cambiare l’etichetta. Questo si chiama “allenamento dell’atteggiamento”. “Allenamento mentale” è come viene solitamente tradotto, ma è allenamento dell’atteggiamento. Potremmo usare l’etichetta “crisi” e “momento difficile” perché convenzionalmente lo è, ma potremmo anche etichettarlo come “sfida” o “opportunità di cambiamento”. In base a come lo etichettiamo diventa piuttosto diverso l’intero approccio di come lo viviamo. Cambiando l’etichetta mentale dell’attuale situazione economica in “niente di speciale” come ha fatto il vostro ministro, be’, qual è lo scopo? Di non andare nel panico. Non so quale fosse il suo scopo, ma se lo consideriamo come “niente di speciale” è irrealistico immaginare che le cose miglioreranno costantemente e andranno sempre meglio. Se non ci facciamo prendere dal panico, allora ci chiediamo “Bene, come possiamo gestire gli alti e bassi che sono naturali nel samsara?”.

Questa comprensione della vacuità non nega il fatto che abbiamo perso il lavoro, o che il nostro stipendio è più basso, e che è un periodo difficile. Non lo nega, ovviamente. Questo è convenzionalmente ciò che sta accadendo, ciò che stiamo vivendo, ma ci aiuta a non deprimerci. Sebbene possa sembrare orribile, non ci crediamo completamente. È sorto da questo e quello, siamo un po’ più rilassati e vediamo più realisticamente come lo possiamo affrontare. Questa è la realtà convenzionale; lo stipendio è basso, ecc. Ora, cosa facciamo? Distinguiamo tra l’oggetto di riferimento - è un periodo difficile, è vero - da una cosa di riferimento, questa cosa mostruosa e orribile che è accaduta al “povero me”. Avalokiteshvara dice, “forma – vacuità” c’è forma e c’è vacuità. Se qualcosa è sorto in modo dipendente, è privo dell’essere stabilito. Se è privo dell’essere stabilito, allora è sorto in modo dipendente da altri fattori: etichette mentali, parti, cause, ecc.

Poi, Avalokiteshvara lo elabora per assicurarsi che lo comprendiamo. Dice: 

Forma non separata dalla vacuità; vacuità non separata dalla forma

Non possiamo avere l’una senza l’altra. Sono nello stesso pacchetto, come le due facce di una moneta. Il sanscrito ha una frase in più qui, che i tibetani per qualche motivo non hanno tradotto. Forse l’edizione che hanno ricevuto del sanscrito mancava di questa riga, ma nell’edizione sanscrita dice:

Ciò che ha forma, quella ha vacuità; ciò che ha vacuità, quella ha forma.

Tuttavia, dobbiamo stare attenti; è difficile tradurre questa frase in un modo che non dia un’impressione falsa o scorretta. Implica che ci sia qualcosa che ha forma come se ci fosse una specie di cosa che è separata, e quella cosa ha sia forma che vacuità; è come se ci fosse una cosa separata da quella, un oggetto separato da quella, che ha queste due qualità. Non è così. Sai, avere forma, avere vacuità; avere vacuità, avere forma - tuttavia, non c’è una base separata da questa che ha queste cose. È difficile da capire. È come se pensassimo a un oggetto e poi pensassimo a caratteristiche come dimensione, peso e forma e così via, c’è un oggetto separato dalla sua dimensione e forma? Beh, no. Possiamo dire che l’oggetto ha una dimensione e ha una forma, e ha un peso, ma non c’è un oggetto separato da tutto ciò, vero? 

Poi Avalokiteshvara prosegue: 

In maniera simile, la sensazione, il distinguere, le variabili influenzanti, i tipi di coscienza – vacuità.

Con ciò Avalokiteshvara menziona la vacuità di tutti i cinque aggregati.

Domande

Abbiamo trattato parecchio questa mattina. Ci sono domande a riguardo? 

Quando abbiamo questa frase “forma – vacuità; vacuità – forma”, perché viene ripetuta in questi due modi? C’è un significato in questo?

C’è uno scopo in questo, ha a che fare con una prova logica. Se qualcosa sorge in modo dipendente, allora non può essere auto stabilito, quindi è vacuità. Il fatto che le cose sorgano in modo dipendente da altre cose stabilisce che non stanno sorgendo per il loro stesso potere. Ricorda, Sua Santità il Dalai Lama ha usato l’esempio del quarto dito. Se è lungo, sorge come lungo dipendente dall’essere paragonato al dito mignolo ma corto rispetto al medio. Non sorge come lungo o corto per il suo stesso potere. dal suo stesso lato, quindi è privo di tale impossibile modo di esistere. Il fatto che sorga in modo dipendente non significa che non esista; significa che esiste, ma è privo di esistere per il suo stesso potere.

Dall’altro punto di vista, il fatto che sia privo del sorgere per suo stesso potere, non significa che non esista affatto; nonostante ne sia privo, sorge in modo dipendente. Poiché è privo di esistere per il suo stesso potere, è possibile che sorga in base ad altre cose e quindi abbia un’origine interdipendente. In un certo senso, formulandolo in entrambi i modi, sta dicendo che l’origine interdipendente dimostra che la forma è priva di esistenza intrinseca o esistenza auto stabilita, e il fatto che la forma è priva di esistenza auto stabilita dimostra o stabilisce che sorge in modo interdipendente.

Ora, questa è una formulazione piuttosto complessa, quindi lasciatemi metterla in forma strutturale. Poiché è possibile, ciò significa che non è impossibile, quindi questa è “forma – vacuità”. “Possibile” stabilisce “non impossibile”, quindi stabilisce che è possibile. “Non impossibile” stabilisce che è “possibile”. Dobbiamo avere entrambi. Possibile implica non impossibile, e non impossibile implica possibile. Perché potremmo fraintendere “possibile” e potremmo pensare possibile in un modo impossibile, o se pensiamo “non impossibile”, potremmo pensare “per niente”. Queste due formulazioni hanno lo scopo di aiutarci a evitare i due estremi dell’affermazione positiva della vera esistenza o del nichilismo (negazione dell’esistenza convenzionale).

Cosa significa che la vacuità è un fenomeno statico? 

Un fenomeno statico è qualcosa che non è creato da alcunché e che non cambia di momento in momento. Ci sono alcune cose che anche non sono create e cambiano di momento in momento, come il continuum mentale, ma un fenomeno statico non cambia di momento in momento, non è influenzato da altre cose. Quindi, la vacuità di qualcosa, il suo essere privo di un modo impossibile di esistere, è sempre tale. È vera per qualsiasi cosa, non importa cosa - per tutto il suo continuum. Questo è un altro aspetto di “forma – vacuità, vacuità – forma”. La forma è una base per la vacuità, e quindi la forma ha la vacuità come una delle sue caratteristiche, e quella caratteristica non cambia finché quella base esiste.

Il nostro corpo, per esempio, è una forma ed è venuto alla luce, ha un inizio, il suo continuum, e ha una fine quando si disintegra. Finché esiste, non cambia il fatto che non esiste per suo stesso potere. È un dato di fatto, valido solo finché esiste il nostro corpo. Se il nostro corpo non esiste più, non possiamo parlare della vacuità del corpo che sta accadendo nel presente. Possiamo parlare della vacuità del corpo che stava accadendo in precedenza, o del corpo che non sta accadendo più, ma non del corpo che sta accadendo nel presente o del corpo che non sta ancora accadendo. La vacuità del nostro corpo non è influenzata dalla nostra età o da dove siamo, se siamo in questa o in quella stanza. È un fatto, rimane sempre uguale. Questo è il significato dell’essere statico.

Vuol dire che la vacuità è l’unica caratteristica che non cambia nel tempo?

No, ci sono altre qualità statiche. Non so se potremmo tecnicamente chiamarle “qualità”, ma ci sono altri fatti statici relativi al nostro corpo. Ad esempio, lo spazio, un concetto molto difficile da capire nel contesto buddhista. Lo spazio è definito come l’assenza di qualsiasi cosa tangibile o ostruttiva che impedisce al nostro corpo di occupare tre dimensioni. Non c’è alcunché che impedisce al nostro corpo di occupare tre dimensioni indipendentemente da dove ci troviamo. Non stiamo parlando del muro che potrebbe ostacolarci o di una sua caratteristica, ma di una caratteristica del nostro corpo. Inoltre, non stiamo parlando dello spazio che occupiamo, e poi ci spostiamo, poi lui si sposta nello spazio, e lo occupa, come un posto auto sulla strada. Ma occupiamo - questo corpo occupa - tre dimensioni.

Sta dicendo che non c’è alcunché che lo impedisce, quindi è per questo che viene sempre usato come analogia per la vacuità. Proprio come non c’è alcunché che impedisce a questo corpo di occupare tre dimensioni, da un punto di vista fisico in termini di come funziona la materia fisica, allo stesso modo non c’è alcunché - la vacuità - che impedisce a questo corpo di funzionare come una natura auto stabilita. Questa idea di spazio nel Buddhismo è qualcosa di molto astratto e a cui normalmente non pensiamo nella nostra ottica occidentale.

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