Ripasso
Abbiamo parlato della fonte dei problemi nella nostra vita, ossia la nostra ignoranza o inconsapevolezza circa la relazione di causa ed effetto di tipo comportamentale e la natura della realtà: o non le capiamo o le comprendiamo in modo errato. A causa della nostra inconsapevolezza rispetto alla natura della realtà, sopraggiunge l’afferrarci alla vera esistenza. Possiamo definire la vera esistenza in molti modi diversi; in parole semplici, le cose sembrano esistere come “cose” concrete e crediamo che questo sia veramente il modo in cui esistono. Il nostro corpo sembra essere solido e concreto, mentre in realtà è costituito da atomi e campi energetici. Non è per nulla solido. Allo stesso modo, i nostri problemi sembrano essere concreti, ma in realtà sono costituiti da istanti che cambiano, uno dopo l’altro. In essi non c’è nulla di concreto.
Possiamo afferrarci alla vera esistenza di persone o di fenomeni. Con “persone” intendiamo noi stessi o gli altri. Qui ci siamo principalmente concentrati sui problemi che abbiamo rispetto alla nostra visione di noi stessi, di chi siamo. Abbiamo parlato di questo dalla prospettiva dei cinque aggregati. Ogni momento della nostra esperienza è costituito da uno o più elementi di cinque sacchi o raccolte. In ogni istante è sempre coinvolta una qualche forma di fenomeno fisico: il nostro corpo, il cervello, le cellule fotosensibili dei nostri occhi e così via. La forma include anche immagini, suoni, odori e così via – ad esempio la visione del corpo di qualcun altro. Poi c’è la coscienza primaria: il canale su cui, in ogni caso, ci troviamo – mentre stiamo guardando, ascoltando, gustando, annusando, provando una sensazione fisica o pensando. C’è anche il discernimento. Nello specifico campo della nostra consapevolezza – visivo, uditivo o altro – distinguiamo un oggetto dallo sfondo. C’è, inoltre, un certo livello di felicità o infelicità soggettiva. E poi c’è un altro grande sacco con tutte le altre cose che influenzano la nostra esperienza, ed esso include tutte le emozioni, positive e negative, tutte le nostre spinte e i nostri impulsi a compiere determinate azioni (karma), così come l’interesse, l’attenzione e la concentrazione – aspetti che aiutano a concentrarci su qualcosa. In questo grande sacco ci sono anche cose che appartengono alla terza categoria fondamentale dei fenomeni non immutabili: cose non immutabili che non sono né una forma di fenomeno fisico né un modo di essere consapevoli di qualcosa. Ciò include le nostre abitudini, l’età e l’“io” convenzionale.
L’“io” convenzionale è davvero un’imputazione, ma possiamo stabilire la sua esistenza soltanto mediante la mera etichettatura mentale. In ogni momento abbiamo i cinque aggregati che cambiano, ognuno dei quali si trasforma a una velocità diversa. Quando pratichiamo la meditazione di consapevolezza della tradizione Theravada, ciò di cui proviamo a essere consapevoli è il costante cambiamento di ciò che accade, in modo da comprendere, alla fine, che in tutto questo cambiamento non c’è un “io” solido. In ogni caso, quando parliamo dell’“io” convenzionale nel Mahayana, esso è soltanto un’astrazione, imputata come un modo per tenere insieme una continuità individuale dei fattori – sempre mutevoli – di un’esperienza soggettiva.
Questo processo di cambiamento si svolge in una sequenza individuale, come un film, e la sequenza è determinata dal karma e dalla relazione di causa ed effetto di tipo comportamentale, nonché da tutto ciò di esterno con cui interagiamo. Proprio come in un film che viene riprodotto, c’è continuità anche se non c’è nulla di solido che passa da un fotogramma all’altro; allo stesso modo, nulla di concreto passa da un momento all’altro nel film della nostra vita. Eppure c’è continuità. Facciamo attenzione, però, all’analogia del film. Non stiamo parlando della striscia di plastica continua su cui sono stampati i fotogrammi di un film, o dello schermo bianco su cui viene proiettato il film. Stiamo soltanto parlando del film stesso, mentre viene riprodotto.
Proprio come il film in sé non è il suo titolo, allo stesso modo l’“io” convenzionale non è soltanto un modo di riferirci con una parola a questo flusso di aggregati. L’“io” convenzionale non è una parola: è ciò che essa significa; è il significato della parola sulla base di un continuum di fattori in continuo cambiamento. L’“io” convenzionale è simile a un’illusione perché in esso non c’è nulla di solido. Il problema è che non sembra essere così. Ci sembra che ci sia qualcosa di solido e crediamo sia vero.
Il livello più grossolano di ciò che appare è ciò in cui i buddhisti dicono che gli induisti credono (mi esprimo in questi termini per correttezza nei confronti degli induisti). In questo contesto, non ci importa sapere in che cosa credano realmente gli induisti di oggi. Il Buddhismo si riferisce a una visione falsa che ci sembra vera. Ciò che ci appare non è simile all’analogia del film, anzi: è un solido “io”, una sorta di statua solida che si sposta all’interno della vita su un nastro trasportatore.
Ci sono tre caratteristiche in quel falso “io”. In primo luogo, esso è immutabile, nel senso che non solo non cambia ma non è neppure influenzato da nulla e non influenza nient’altro. Sembra isolato dal processo di causa ed effetto, come se potessimo ritirarci in un piccolo “io” speciale dentro di noi ed evitare tutto. In secondo luogo, sembra anche che questo “io” sia monolitico, sia senza parti e rimanga sempre uguale a sé stesso. La terza caratteristica prevede che sia separato dagli aggregati, che non ne faccia parte, come se fosse qualcosa che può dissociarsene e volare via in un altro corpo e un’altra mente.
Quando parliamo della vacuità dell’“io” non stiamo negando o confutando l’“io” convenzionale, e neppure l’esistenza della proiezione di un falso “io”. Stiamo confutando il fatto che l’“io” convenzionale esista nella modalità di un falso “io”. La parola “vacuità” indica “un’assenza”. Ciò che è assente è il fatto che la nostra proiezione di un falso “io” si riferisca a qualcosa di reale – è assente un vero referente della nostra proiezione. Non è assente nel senso in cui un elefante è assente nella stanza poiché si trova nell’altra. È assente nel senso in cui non c’è un elefante rosa in questa stanza. Gli elefanti rosa non esistono. Ma è più di questo. È assente nel senso in cui questa stanza non esiste come occupata da un mostro. La vacuità si riferisce all’assenza di un modo impossibile di esistere che non è mai assolutamente esistito.
Quando eliminiamo questo modo di esistere totalmente immaginario e impossibile – l’esistenza come un “io” statico e monolitico, separato dagli aggregati – ecco che vediamo che cosa ci rimane. Rimane un “io” che cambia continuamente, ecc., ma su cui operiamo la proiezione del ruolo di capo, di controllore che preme i pulsanti e decide che cosa fare. Si preoccupa ed è l’autore della voce che abbiamo nella nostra testa. A tutti noi sembra essere quello che veramente siamo.
Quando vediamo che anche questo non si riferisce a nulla di reale ed è solo una proiezione basata su apparenze, allora ciò che comunque continuiamo a proiettare è un “io” che, tuttavia, può essere conosciuto per conto proprio. Quando voglio che qualcuno ami “me” e soltanto “me”, per me stesso e nient’altro, non sto forse pensando che qualcuno possa amarmi senza amare contemporaneamente qualcosa di me, come il mio corpo, l’intelletto, la personalità, il senso di umorismo, il modo di fare, i beni, ecc.? Questo è semplicemente impossibile.
Ora, quindi, ci rimane l’etichettatura mentale. Tuttavia penso – ed è la mia mente a farmi avere questa percezione – che ci debba essere un segno caratteristico distintivo individuale e rintracciabile dentro di me che renda me “me” e non “te”, e mi permetta di essere correttamente etichettato come “me” e non “te”. Mi è difficile dire che cosa renda me “me”, ma penso che ci debba essere qualcosa. Quando però indago per vedere se c’è qualcosa che mi rende ciò che sono, permettendo una corretta etichettatura, scopro che non c’è nulla di rintracciabile. Quello che mi rimane è il fatto che la mia esistenza come “me” sia stabilita soltanto nei termini di una mera etichettatura mentale.
I tre fattori che determinano la validità di un’etichettatura mentale
Sono forse corrette tutte le etichette mentali, semplicemente di per sé? Se qualcuno pensa che io sia una finestra e mi chiama “finestra”, questo implica forse che io sia una finestra? Ovviamente no. L’etichettatura mentale diventa valida sulla base di tre fattori. In base al primo, l’etichetta deve essere una convenzione rispetto alla quale ci sia accordo e utilizzo da parte di un determinato gruppo di persone, e ciò che viene etichettato come un qualcosa deve essere in grado di funzionare come tale. Potremmo essere etichettati come “insegnanti” dai nostri studenti, “parenti” dalla nostra famiglia e “colazione” dalla zanzara. Ogni etichetta è valida perché funzioniamo in ciascuno di questi modi per i rispettivi gruppi di esseri. E così ciò stabilisce la nostra esistenza convenzionale come insegnanti, parenti e colazioni, rispettivamente per ciascuno di questi gruppi.
In base al secondo fattore, l’etichettatura deve non essere contraddetta da una mente che vede la verità convenzionale in modo valido. Se un gruppo di persone miopi ci guarda, senza occhiali, dalla parte opposta della stanza e ci vede come qualcosa di sfuocato, questo non ci rende tali. Non siamo una massa sfuocata. Ciò infatti viene contraddetto non appena indossano nuovamente gli occhiali.
In base al terzo fattore, l’etichettatura deve non essere contraddetta da una mente che vede la verità più profonda in modo valido. Se un gruppo di persone pensa che ci sia qualcosa di rintracciabile dentro di me che rende me “me” o che mi rende davvero un mostro, questo non fa sì che ciò sia vero. Quando comprendiamo la realtà, ci rendiamo conto che nessuno esiste in quel modo. Una persona può comportarsi come un mostro in determinate situazioni, ma ciò non significa che sia per sempre immutabile e che sia un mostro per tutti. Dovrebbe essere un mostro anche per il suo cane. L’“io” esiste nei termini della sola etichettatura mentale.
Quando vediamo che la nostra proiezione di un falso “io” esistente come mostro, per esempio, non si riferisce a nulla di reale, smettiamo di proiettare il falso “io” e il “mostro”. Quando smettiamo di proiettarli, non significa che il film sia finito: il film dei nostri aggregati e dell’“io” convenzionale continua. Ad esempio, quando vediamo un horror e smettiamo di proiettare il fatto che ci sia un vero mostro che ci stia per catturare, il film continua. Ciò che in esso accadrà sorgerà in dipendenza di cause e condizioni, in base a quanto vi è già accaduto.
Lo stesso discorso vale per la nostra vita. L’“io” convenzionale continua, anche dopo che abbiamo compreso la vacuità. La base su cui è etichettato quell’“io” è la continuità di fattori aggregati che compongono ogni momento della nostra esperienza soggettiva individuale, e che hanno luogo uno dopo l’altro in base alla relazione di causa ed effetto di tipo comportamentale.
Prospettive ingannevoli
Ora diremo qualcosa su ciò che consegue all’afferrarci alla vera esistenza; sebbene possiamo afferrarci alla vera esistenza delle persone o di tutti i fenomeni, ora parleremo soltanto delle persone. L’afferrarci alla vera esistenza delle persone proietta un qualche livello di falso “io” sull’“io” convenzionale e crede che questo falso “io” sia vero. Può farlo in riferimento all’“io” convenzionale nostro o di qualsiasi altra persona in qualsivoglia forma di vita – essere umano, animale, fantasma e così via. Per dirla in parole molto semplici: l’afferrarci alla vera esistenza di una persona opera una proiezione e crede in una sorta di “io” solido e sostanziale.
Ciò che consegue da tale comprensione è una prospettiva ingannevole rispetto a una rete transitoria (’jig-lta). Le prospettive ingannevoli sono una forma di emozione o atteggiamento disturbante. Le emozioni e gli atteggiamenti disturbanti sono fattori mentali che, quando sorgono e accompagnano un momento della nostra cognizione sensoriale o mentale, ci fanno perdere la pace mentale e il controllo. Mettono a disagio noi stessi o gli altri. Alcuni di essi non implicano alcuna visione della vita e, in termini occidentali, li indicheremmo come “emozioni disturbanti” – quali la rabbia e l’attaccamento. Altri invece implicano una visione della vita e dovremmo chiamarli “atteggiamenti disturbanti”. Ce ne sono cinque; il primo di tali atteggiamenti disturbanti implicanti una visione della vita è una prospettiva ingannevole rispetto a una rete transitoria. La “rete transitoria” si riferisce alla rete dei nostri cinque aggregati transitori che cambiano. Sebbene l’afferrarci alla vera esistenza di una persona possa essere diretto a noi stessi o a qualsiasi altro essere, una prospettiva ingannevole rispetto a una rete transitoria è definita come diretta soltanto verso noi stessi.
L’illustrazione di questa prospettiva ingannevole è piuttosto complessa. La maggior parte dei sistemi buddhisti afferma che essa si focalizza su una qualche rete dei nostri aggregati e li considera erroneamente, in termini di falso “io”, come “io” o “mio”. Nel sistema Gelug Prasangika questa prospettiva ingannevole si focalizza sulla rete di aspetti del nostro “io” convenzionale e, proiettandovi un falso “io”, identifica quel falso “io” come identico agli aggregati o come “me stesso, il loro possessore”. Per semplificare il discorso, assumeremo il punto di vista della prima posizione.
Una prospettiva ingannevole rispetto a una rete transitoria ha un aspetto riguardante l’“io” e tre riguardanti “il mio”. Poiché ciascuno di questi quattro può essere correlato a ognuno dei cinque aggregati, abbiamo venti prospettive ingannevoli rispetto a una rete transitoria. Qui parleremo soltanto delle prospettive ingannevoli in relazione al corpo.
La prima è: “Io sono questo corpo”. Questa è l’idea di un “io” solido che è identico a questo corpo. Ci guardiamo allo specchio e pensiamo: “Sono una persona anziana”, “Sono grasso”, “Sono magro” e così via. Potremmo identificarci anche con la mente: “Sono intelligente. Sono la mia mente”. Ancora una volta, il tipo di falso “io” qui implicato è immutabile, monolitico, non influenzato da nulla. A chi pensa di essere grasso, quindi, non importa quale sia il suo peso effettivo: nella sua mente è “grasso”. Per una persona che crede di essere brutta, non importa quanto bella gli altri dicano che sia; nella sua mente pensa: “Non lo state dicendo per davvero. Sono brutto”.
Gli altri tre tipi di prospettiva ingannevole rispetto a una rete transitoria considerano gli aggregati – il corpo, ad esempio – come il “mio”, ossia come qualcosa che il falso “io” possiede, controlla o abita. Il primo considera gli aggregati come qualcosa che io possiedo come “mio”. Quando diciamo: “Questo è mio, lo possiedo, ce l’ho”, possiamo usare queste espressioni in due modi. Il primo: “Questo corpo è mio”. Il secondo: “Questo pollo è mio”. C’è una differenza: il corpo è sempre con noi, il pollo no. Alcune forme comuni che tale idea sbagliata assume tra gli uomini potrebbero essere le seguenti: “Ho un organo sessuale”, “Ho un corpo muscoloso”. Oppure, per una donna: “Ho un grembo. Posso avere un figlio”. Invece – in linea con l’esempio: “Ho un pollo” – un’altra forma potrebbe essere: “Ho dei soldi”, “Possiedo una bella casa” oppure “Ho una macchina veloce”. “Sono ‘miei’”. Fraintendiamo un “io” solido che possiede una parte dei nostri aggregati come il suo possedimento, come “mio”.
Abbiamo già esaminato la seconda forma di questa prospettiva ingannevole rispetto a una rete transitoria come ciò che è “mio”: avere un’idea sbagliata dei nostri aggregati – quali il nostro corpo o il nostro grembo – secondo cui essi sarebbero qualcosa che questo “io” solido può controllare e usare a proprio piacimento. La terza forma riguarda, ad esempio, la nostra testa o il nostro cervello come la sede dove si trova l’“io” solido. Pensiamo: “Nella mia testa continua a esserci una voce, quindi ‘io’ sono lì”.
I tre atteggiamenti velenosi
Queste sottocategorie della prospettiva ingannevole rispetto a una rete transitoria ci danno molto da pensare. Dobbiamo riconoscerle in noi stessi. Scopriremo che ci sembra davvero che le cose stiano così. Ad esempio, pensiamo: “Ho una bella mente”, come se ci fosse un “io” solido che può possedere una mente. Sulla base di tale visione di noi stessi, sviluppiamo emozioni disturbanti. Abbiamo insicurezza circa questo “io” apparentemente solido e circa la bella mente che possiede, e quindi con arroganza, per esempio, sentiamo di dover dimostrare quanto siamo intelligenti rispondendo a tutte le domande in classe, senza lasciare a nessun altro l’opportunità di farlo.
Le emozioni disturbanti più comuni sono i tre veleni, ossia tre emozioni o atteggiamenti velenosi: ingenuità, desiderio bramoso e ostilità. Il termine corrispondente a “ingenuità” – in sanscrito: moha – non è molto semplice da tradurre. In passato l’ho tradotto come “ignorante ristrettezza mentale” e come “confusione insensata”. È una sottocategoria dell’ignoranza, o inconsapevolezza, che può riguardare la relazione di causa ed effetto di tipo comportamentale o la realtà. L’inconsapevolezza della relazione di causa ed effetto di tipo comportamentale accompagna soltanto degli stati mentali distruttivi; l’inconsapevolezza della realtà, invece, può accompagnare, oltre a quelli distruttivi, anche stati mentali costruttivi ed eticamente neutri. L’“ingenuità” si riferisce unicamente a quell’inconsapevolezza – di causa ed effetto o della realtà – che accompagna degli stati mentali distruttivi.
Ad esempio: con una prospettiva ingannevole rispetto a una rete transitoria, potremmo identificare un “io” solido nel nostro genere – nell’essere un uomo. Un esempio di ingenuità basata su questo sarebbe l’inconsapevolezza che accompagna l’uccisione in duello di qualcuno che ci ha insultati, credendo che ciò provi che siamo uomini. D’altra parte, quando aiutiamo qualcuno a svolgere un lavoro fisico pesante e pensiamo che, così facendo, questo dimostri che siamo uomini, il nostro atteggiamento è un esempio di inconsapevolezza o ignoranza, ma non di ingenuità. Anche aprire una bottiglia di birra con i denti e pensare che ciò dimostri che siamo uomini è ignoranza, ma non ingenuità. È evidente che neppure “ingenuità” è una buona traduzione per tale atteggiamento velenoso, ma non riesco a pensare a un modo migliore per tradurlo.
La seconda emozione velenosa è il desiderio bramoso. Mediante questa emozione disturbante esageriamo le buone qualità di qualcosa o qualcuno che non abbiamo, e sentiamo che dobbiamo averlo. Secondo un’altra definizione, questa emozione disturbante è l’attaccamento. Anch’esso esagera le buone qualità di qualcosa o qualcuno ma, in questo caso, di qualcosa o qualcuno che abbiamo e non vogliamo lasciar andare. Ad esempio: potremmo vedere noi stessi come un “io” solido, e la nostra mente e i libri nella nostra casa come il “mio”. Con desiderio bramoso esageriamo le buone qualità dei libri, li consideriamo attraenti dal loro lato, e sentiamo di doverne comprarne sempre di più – anche se non abbiamo tempo di leggerli – per dimostrare che siamo degli “intellettuali”. Potremmo fare lo stesso con gli amici, l’attenzione o qualsiasi altra cosa, nella speranza di rendere sicura la nostra identità.
La terza emozione velenosa è la rabbia o ostilità. È uno stato mentale brutale che esagera le cattive qualità di qualcosa o qualcuno e vuole danneggiarlo o liberarsene. La rabbia può essere diretta alla nostra stessa sofferenza o a situazioni che possono causare sofferenza. Possiamo arrabbiarci con una persona, con la nostra malattia o con le pareti di una prigione. È come se la nostra malattia potesse essere eliminata e colpita. Qualcosa ci minaccia, minaccia la nostra identità di “io” solido. Ad esempio, potremmo avere questa sensazione: “Sono una persona ordinata. Ho determinate abitudini. Questo è il modo in cui mi prendo cura della mia cucina”. Poi qualcuno vi entra, sposta le cose e agisce diversamente da noi, e allora diventiamo molto ostili e vogliamo cacciare quella persona dalla “NOSTRA cucina” – “Questo è il modo in cui io faccio questa cosa!” Questa è l’ostilità.
Tali emozioni e atteggiamenti velenosi fungono da condizioni per il sorgere di un impulso karmico. Il karma è un impulso o una spinta. Potrebbe essere la spinta a dire qualcosa di molto crudele: “Esci dalla mia cucina, idiota!” Oppure vediamo un libro in un negozio e pensiamo compulsivamente: “Devo ottenerlo!”. Vediamo un gruppo di uomini e c’è una bottiglia di birra, e pensiamo: “Devo mostrare a tutti quanto sono uomo!” La spinta a dire qualcosa di crudele, comprare il libro o aprire la bottiglia di birra con i denti è karma. Seguiamo quell’impulso e compiamo varie azioni, che poi producono degli effetti. La scena successiva del film potrebbe non essere delle migliori.
Ecco come funziona tutto ciò, in una presentazione molto semplice. Questo è il motivo per cui vogliamo liberarci dell’afferrarci alla vera esistenza. Non è sufficiente liberarci della nostra prospettiva ingannevole rispetto a una rete transitoria. Se ci identifichiamo con il nostro essere persone basse, grasse, brutte e che nessuno ama, potremmo renderci conto che ciò è ridicolo: non si riferisce a nulla di reale. Questo però non elimina il nostro afferrarci alla vera esistenza. Potremmo avere un corpo relativamente basso, grasso e brutto e renderci conto che questa non è la nostra vera identità, eppure afferrarci ancora a un “io” solido e, su tale base, agire in modo egoistico. Dobbiamo arrivare alla radice: l’afferrarci alla vera esistenza.
Dovrei aggiungere che, se non ci afferriamo a un “io” solido, non ci afferriamo a una sua identità che sia tra i nostri aggregati – il nostro corpo, ad esempio – e quindi non pensiamo che questo “io” solido possieda qualcosa, come ad esempio un corpo sessualmente attraente. Se non abbiamo questa idea sbagliata, non abbiamo il desiderio bramoso con cui potremmo inconsciamente avere la sensazione che una relazione sessuale ogni notte con un partner diverso dimostri che abbiamo un corpo sexy e che esistiamo. Con questo esempio possiamo vedere che, se ci liberiamo della radice dei nostri problemi, il resto cade a pezzi.
Ascoltare e pensare
Come meditiamo su tutto questo? Come ne facciamo uso? Prima di tutto, permettetemi di spiegare qualcosa sulla teoria della meditazione. “Meditazione” significa creare qualcosa come un’abitudine positiva. Per cominciare, cerchiamo di ascoltare una spiegazione corretta. Il secondo passaggio è riflettere su di essa, in modo da capirla. Se tutto il nostro tempo per la meditazione è dedicato a questo secondo passo – cercando di comprendere, ad esempio, il significato della vacuità – non c’è problema. Dobbiamo prenderci del tempo per farlo. Non è facile. Dobbiamo capire che cosa abbiamo sentito o letto e convincerci che sia corretto. Se non riteniamo che sia corretto, perché dovremmo volerlo adottare? La vera e propria meditazione implica dunque il far proprio ciò che abbiamo ascoltato e compreso, integrandolo in noi stessi. Nel caso della meditazione sulla vacuità di noi stessi, dobbiamo essere in grado di generare una comprensione corretta e quindi praticare, considerandoci alla luce della stessa. Attraverso una frequente ripetizione, la meditazione costruisce tale comprensione come un’abitudine benefica.
Per capire la vacuità ed essere convinti che sia corretta dobbiamo compiere un’analisi utilizzando la logica. Come conosciamo le cose? Qual è un modo valido di conoscere? Nel Buddhismo parliamo di due modi validi di conoscere qualcosa: percependola direttamente mediante i nostri sensi, oppure deducendola. Ad esempio: guardiamo una montagna e, vedendo lì una casa, capiamo in modo valido che c’è una casa sul pendio della montagna. Lo sappiamo per via di una cognizione diretta, senza bisogno di fare affidamento sulla logica.
Come facciamo però a sapere se c’è qualcuno che vive in quella casa o la usa? Ogni giorno vediamo del fumo uscire dal camino. Non possiamo vedere se ci sono persone in casa, ma possiamo dedurre che, se c’è fumo che esce dal camino non solo una volta bensì ogni giorno, qualcuno deve accendervi un fuoco all’interno e quindi ci deve essere qualcuno che vive lì o si reca laggiù ogni giorno. Lo sappiamo per via di una cognizione inferenziale.
Per una deduzione dobbiamo fare affidamento su una linea di ragionamento valida. In questo caso sarebbe la seguente: ovunque ci sia del fumo c’è del fuoco. Il fumo esce dal camino ogni giorno, quindi ci deve essere un fuoco in casa ogni giorno. Se c’è un fuoco in casa ogni giorno, ci deve essere qualcuno che accende il fuoco ogni giorno. Se in casa c’è qualcuno che accende il fuoco ogni giorno, deve esserci qualcuno che vive in quella casa o che la visita ogni giorno. Dobbiamo fare affidamento su questa linea di ragionamento per generare la comprensione, o convinzione, che lì ci sia una persona.
La comprensione, qui, è mediante una convinzione basata sulla logica. Questo è un punto importante. Dobbiamo essere convinti che sia vero: lì c’è qualcuno che vive o che vi si reca. Non si tratta soltanto di pensare che forse c’è qualcuno. Allo stesso modo, per quanto riguarda la comprensione della vacuità, non si tratta soltanto di pensare che probabilmente non esiste un “io” solido. Dobbiamo sapere che non esiste un “io” solido. Quindi, per comprendere e convincerci di qualcosa, facciamo affidamento su una linea di ragionamento valido. Questo è il secondo passo che porta alla meditazione: contemplare o pensare.
Meditare
Con il terzo passo, percorriamo nuovamente la linea del ragionamento. Ciò fa parte di quella che talvolta è detta “meditazione analitica”, ma che io preferisco chiamare “meditazione di discernimento”, poiché l’analisi è ciò che principalmente svolgiamo durante il secondo passo, il pensare, al fine di raggiungere comprensione e convinzione. Ora, tuttavia, seguiamo ancora una volta la linea del ragionamento, semplicemente per generare comprensione e convinzione in modo fresco – “fresco” significa “vivido” nella nostra mente. Fermiamo poi il processo del pensiero verbale e proviamo a discernere le cose con quella convinzione.
Prima stavamo parlando di come possiamo discernere che non c’è un elefante in questa stanza. Possiamo discernerlo, possiamo vederlo. Possiamo capire che non ci sono mostri nella stanza. Possiamo anche capire che la stanza non è posseduta dai mostri. Allo stesso modo, discerniamo che non siamo posseduti da un falso “io” dentro di noi. Cerchiamo di capirlo senza dire nulla nella nostra testa.
Quando siamo veramente capaci di discernere l’assenza di un falso “io”, lasciamo allora che ciò penetri in profondità. Questo lasciarlo penetrare in profondità è chiamato “meditazione stabilizzante” o “meditazione di concentrazione”. Quindi alterniamo meditazioni discernenti e stabilizzanti. Quando la nostra meditazione stabilizzante non è più molto chiara, dobbiamo cercare di nuovo di discernere attivamente tale assenza. Per farlo, potremmo aver bisogno di ripercorrere la linea di ragionamento per rinfrescare ancora una volta la nostra comprensione. Una volta che avremo familiarità con la vacuità, saremo in grado di generarne la comprensione più e più volte senza dover fare affidamento sulla linea di ragionamento: non dovremo generarla mediante l’inferenza.
Quando abbiamo una cognizione inferenziale di qualcosa attraverso una linea di ragionamento, la conosciamo concettualmente. Ciò significa che conosciamo quel qualcosa attraverso una categoria cui appartiene. Ad esempio: effettivamente non vediamo la persona nella casa sul pendio della montagna, ma pensiamo al fatto che lì ci sia una persona mediante la categoria generale una persona. In parole semplici, pensiamo alla persona laggiù attraverso l’idea di una persona. Tale idea non ha bisogno di avere una forma o una sagoma specifica, a essa associata, delle sembianze di una persona – e men che meno delle sembianze di quella specifica persona. Tuttavia, può avere una sorta di immagine immaginata associata a essa, per rappresentare una persona, o può avere il suono mentale della parola persona associata a essa.
Allo stesso modo, quando abbiamo una cognizione inferenziale dell’assenza di un “io” solido, ci concentriamo su di esso concettualmente, attraverso la categoria assenza. Quando però ci concentriamo, mediante questa categoria, sulla totale assenza che è la vacuità, deve apparire alla nostra mente qualcosa che è associato a quella cognizione concettuale. Ciò che appare ricorda l’aspetto di uno spazio vuoto.
Il Buddhismo definisce lo “spazio” come un’assenza di qualsiasi impedimento tangibile che ostacolerebbe l’esistenza spaziale o il movimento di qualcosa di materiale. Che aspetto ha uno spazio vuoto? Ebbene, quando vediamo l’assenza di un elefante in questa stanza, che cosa vediamo? Non vediamo “niente”. Però sappiamo che il nulla che vediamo è l’assenza di un elefante, giusto? Non è soltanto un nulla, vero? Pensateci.
La vacuità è come lo spazio, nel senso che è l’assenza di un qualsiasi modo impossibile di esistere che impedirebbe l’esistenza convenzionale di qualcosa o il funzionamento di qualcosa nel contesto della relazione di causa ed effetto. Allo stesso modo, quando ci focalizziamo su di essa attraverso la categoria vacuità o assenza, ciò che ci appare associato a essa è come uno spazio vuoto: nulla. Ma comprendiamo che questo nulla è l’assenza di un modo impossibile di esistere.
Nel primo passo della nostra meditazione sulla vacuità abbiamo una cognizione inferenziale della stessa. La nostra cognizione inferenziale è concettuale – così come tutte le cognizioni inferenziali. È sorta direttamente sulla base di una linea di ragionamento e si concentra sulla vacuità attraverso la categoria vacuità. È come concentrarsi, attraverso la categoria una persona, sulla persona nella casa sul pendio della montagna. Non possiamo vederla e non sappiamo esattamente che aspetto abbia la persona, ma abbiamo l’idea generale di una persona. Allo stesso modo, non possiamo vedere e non conosciamo esattamente l’aspetto della vacuità – o, più precisamente, come appare l’aspetto associato a una cognizione non concettuale della vacuità – ma abbiamo l’idea generale di un’assenza, come nel caso di uno spazio vuoto.
Nel passaggio successivo, dopo questa cognizione inferenziale abbiamo una cognizione diretta concettuale della vacuità. Secondo la presentazione Gelug della scuola Madhyamaka Prasangika del Buddhismo indiano, la cognizione diretta ha due aspetti: concettuale e non concettuale. Entrambi sono “diretti”, perché nessuno dei due si basa direttamente su una linea di ragionamento. La cognizione diretta concettuale della vacuità si concentra anch’essa sulla vacuità attraverso la categoria una vacuità o un’assenza. Ciò che a essa appare è ciò che appare anche alla cognizione inferenziale: qualcosa come uno spazio vuoto, come un nulla.
Molto tempo, molta fatica e un enorme accumulo di potenziale positivo (merito) sono necessari per ottenere una cognizione diretta non concettuale della vacuità. Alla fine, però, la otterremo. A quel punto la nostra concentrazione sulla vacuità non avverrà attraverso la categoria vacuità. Ci sembrerà ancora simile a uno spazio vuoto o al nulla, ma la nostra cognizione sarà molto più vivida rispetto a quando era concettuale.
Una volta raggiunta la cognizione diretta non concettuale della vacuità, avremo soltanto iniziato il processo attraverso cui liberarci dell’afferrarci a un vero “io” solido. Dobbiamo acquisire una familiarità duratura con la cognizione della vacuità. È un processo lungo perché l’inconsapevolezza, o ignoranza, è profondamente radicata in tutti noi. Innanzitutto, ci liberiamo dell’afferrarci che ha una base dottrinale, sorto dall’apprendimento di visioni non buddhiste della realtà. Poi, grazie ad altra meditazione, ci liberiamo dell’afferrarci che sorge spontaneamente e che persino gli animali possiedono. Un cane, ad esempio, ha il suo territorio, che considera il “mio”, e abbaia a chiunque vi entri. Nessuno ha dovuto insegnare al cane a farlo. Infine, induciamo la nostra mente a smettere di produrre e proiettare apparenze di vera esistenza. Solo allora raggiungiamo l’illuminazione.