Capire qualcosa: la cognizione concettuale

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Abbiamo parlato dei diversi tipi di apprendimento e di come possiamo averne uno decisivo e accurato sia attraverso una cognizione diretta valida che attraverso una cognizione inferenziale valida: entrambe possono essere concettuali, ma solo la cognizione diretta può essere anche non concettuale.

Dobbiamo capire cosa intendiamo per cognizione concettuale, soprattutto perché nel Buddhismo sentiamo continuamente dire che dobbiamo andare oltre la cognizione concettuale e acquisire una cognizione non concettuale. Ma per farlo dobbiamo sapere cosa sono entrambe, giusto?

L’apprendimento nella cognizione concettuale 

Parliamo prima della cognizione concettuale. Come funziona l’apprendimento in questo caso? Prendiamo come esempio l’inferenza, che è sempre concettuale, e dei tre tipi di inferenza usiamo un esempio di inferenza basata sulla rinomanza, come il leggere o l’ascoltare la parola vacuità. Cosa vediamo realmente quando la leggiamo? Alcune linee curve e rette e udiamo una vibrazione dell’aria quando qualcuno pronuncia la parola vacuità. Attraverso la cognizione concettuale per mezzo dell’inferenza basata sulla rinomanza, apprendiamo quindi cosa significa ciò che vediamo o sentiamo - significa la parola vacuità

La cognizione concettuale è la cognizione di qualcosa attraverso una categoria. Esistono due tipi di categorie: una categoria audio (sgra-spyi) e una categoria di significato o oggetto (don-spyi). Vediamole una per una, iniziando dalle categorie audio.

L’apprendimento concettuale attraverso una categoria audio 

Quando cogliamo concettualmente il suono di qualcuno che dice “vacuità”, lo apprendiamo prima in modo non concettuale ascoltandolo. Il nostro udire questo suono è accurato e decisivo: questo è il suono che sentiamo e siamo certi che sia il suono che la persona ha emesso e non un altro suono. Abbiamo escluso che abbia detto altro, che abbia emesso un rumore o un suono diverso.

Quindi, attraverso la categoria audio del suono vacuità, riconosciamo concettualmente questo suono come corrispondente ad altri suoni simili che abbiamo sentito nella categoria audio vacuità. Ciò significa che indipendentemente da come qualcuno lo pronuncia, con la voce di un uomo, di donna, di macchina, e indipendentemente dal volume, riconosciamo che tutti questi suoni rientrano nella categoria audio vacuità: tutti dicono vacuità

Come facciamo a sapere che quando sentiamo due persone diverse dire “vacuità” stanno dicendo la stessa cosa? Come lo sappiamo? Si tratta di conoscere concettualmente i due suoni attraverso la categoria audio vacuità. Entrambi i suoni che abbiamo sentito rientrano nella categoria audio vacuità.

È davvero sorprendente se ci pensate. Come facciamo a sapere e comprendere che due persone diverse dicono la stessa cosa? I suoni che sentiamo sono espressi con due voci e due volumi diversi. Sebbene i testi non parlino di categorie grafiche, si tratta senza dubbio dello stesso meccanismo della lettura. “Vacuità”, sia che sia scritto con questo o quel carattere tipografico, con questo o quel colore o con questa o quella grafia – sono tutte rappresentazioni grafiche della linea che disegna la vacuità. Sappiamo che sono tutte forme scritte o dattiloscritte della linea che disegna vacuità perché rientrano tutte nella stessa categoria grafica.

È importante capire cosa intendiamo per cognizione concettuale. Un tipo di cognizione concettuale, quella del linguaggio, implica categorie audio. Ovviamente dobbiamo imparare queste categorie. I suoni e le rappresentazioni grafiche di una lingua non esistono già nella nostra mente quando nasciamo.

Inoltre, dobbiamo riconoscere concettualmente che i suoni che rientrano in una categoria audio come la categoria audio vacuità si adattano anche alla categoria oggetto suoni di parole. Altrimenti ascoltiamo solo suoni e non li riconosciamo come suoni di parole. Potremmo considerarli come il rumore del vento e un topo potrebbe semplicemente dedurne la presenza di un potenziale pericolo.

Le componenti di una cognizione concettuale

In ogni caso, quando apprendiamo qualcosa attraverso una categoria concettuale, sono coinvolte diverse altre componenti, un po’come dei filtri. Se rappresentiamo graficamente tutte queste componenti, la categoria concettuale si trova più vicina alla coscienza mentale. Accanto c’è un isolato concettuale (ldog-pa), chiamato anche “specificatore”. Letteralmente, l’isolato concettuale è una doppia negazione, “non non questo”, o in un linguaggio più semplice, “nient’altro che questo”. La categoria, quindi, è una classificazione di “nient’altro che questo”. In questo senso, la categoria stessa è un isolato concettuale. L’isolato concettuale isola anche dalla categoria tutto ciò che non vi rientra; può anche specificare un esempio di ciò che vi rientra e così, accanto all’isolato concettuale, c’è una rappresentazione mentale come un ologramma mentale di un esempio che rientra nella categoria.  

Un esempio molto facile: pensate a un cane. Ognuno ha un’idea diversa, un’immagine mentale diversa di come appare un cane. Questa è la nostra idea di cane. C’è la categoria cane, un isolato concettuale di tutto ciò che non è un cane e ognuno di noi rappresenta questa categoria con quella che chiamiamo “la nostra idea di cane”. È sorprendente: pensiamo tutti a qualcosa di diverso – ogni animale che immaginiamo ha un aspetto diverso – ma pensiamo tutti a un cane.

È la stessa cosa con una categoria audio e il suo isolato concettuale. C’è qualcosa che rappresenta una categoria audio nelle nostre cognizioni concettuali, una sorta di “voce interiore”, che esemplifica il modo in cui viene pronunciata una parola. Prendiamo, ad esempio, il nome “Nagarjuna”. “NaGARjuna” – questa è l’effettiva pronuncia sanscrita. Termina con due sillabe brevi, “NaGARjuna”. Sento qualcuno dire “NagarJUna” e mi suona orribile, ma posso capire che sta dicendo “Nagarjuna” perché lo sto inserendo concettualmente nella categoria audio Nagarjuna, nonostante il fatto che, nella mia mente, il suono di quel nome è rappresentato da “NaGARjuna”. L’accento è sulla seconda sillaba, non sulla terza, come dice quella persona. NaGARjuna. MaDHYAmaka, non MadhyaMIIka. AMERica, non AmerIIca. Questo è l’esempio che uso sempre per dimostrare l’effettiva pronuncia sanscrita. Non è AmerIIca ma AMERica con due sillabe brevi alla fine.

Ce l’abbiamo sempre: per esempio ho un’idea di che sapore dovrebbe avere una tazza di caffè, lo rappresento attraverso la mia idea di un certo gusto. Qualcuno mi serve un liquido marrone caldo e so che dovrebbe essere caffè. Tuttavia, ho un’idea fissa di che sapore dovrebbe avere – non è lo stesso sapore di questo liquido marrone caldo che mi viene servito – ma posso ancora riconoscerlo come caffè. 

A volte chiamiamo tali idee “preconcetti”, il sapore che dovrebbe avere il caffè. Allora ci troviamo nei guai quando siamo molto attaccati alla nostra rappresentazione concettuale “Questo è il sapore che dovrebbe avere una tazza di caffè” e, per qualsiasi altra cosa, pensiamo “È terribile”, irritandoci. Le emozioni disturbanti sorgono perché il liquido caldo e marrone che ci viene servito non è all’altezza dei nostri preconcetti e delle nostre aspettative su come dovrebbe essere il sapore del caffè, non corrisponde a ciò con cui rappresentiamo mentalmente il suo gusto.

Fondamentalmente non ci sono problemi con il processo concettuale, ma quando ci attacchiamo alla nostra rappresentazione e pensiamo “Questo è l’unico gusto che il caffè dovrebbe avere, deve essere così”. È molto utile cercare di identificare le nostre idee personali su come dovrebbero essere le cose, usando questa parola terribile: dovrebbe essere così. Perché dovrebbe essere come diciamo noi? Siamo un dittatore mondiale che decreta il sapore del caffè e vieta tutte le alternative?

Per riassumere l’apprendimento concettuale attraverso una categoria audio, sentiamo qualcuno pronunciare il suono vacuità e concettualmente lo apprendiamo correttamente come essere il suono che abbiamo sentito e il suono vacuità. Inoltre, siamo assolutamente certi che non era altro che il suono vacuità. Se l’abbiamo appreso significa che non avremo più dubbi; possiamo ricordare correttamente il suono che abbiamo sentito, se pensavamo di aver sentito un suono diverso o non eravamo sicuri allora non abbiamo appreso quel suono. Se non prestiamo davvero attenzione a ciò che è detto, in seguito non ne saremmo sicuri. Questo succede continuamente, come quando ascoltiamo una conferenza molto lunga che troviamo noiosa. 

Solo perché abbiamo appreso il suono vacuità che sentiamo e siamo certi di aver sentito questo e non qualche altro suono, ciò non significa che sappiamo che questo è il suono della parola vacuità e, inoltre, che abbiamo capito cosa significa questa parola. Anche un topo potrebbe aver sentito il suono vacuità e non sapere nemmeno che è il suono di una parola. Per noi esseri umani, sapere che il suono vacuità è il suono di una parola chiamata vacuità, significa che dobbiamo già essere stati istruiti e sapere che la società ha concordato, come convenzione, di designare la categoria audio vacuità e i suoni che rientrano in essa come suoni di una parola – vale a dire, la parola vacuità. Qualcuno ci ha insegnato questa parola, vacuità, e ora ricordiamo che il suono che sentiamo è il suono di questa parola. 

Ma per andare oltre e comprendere cosa significa questa parola dobbiamo anche aver imparato e sapere che la società ha anche accettato, come convenzione, di etichettare concettualmente con un significato la categoria audio e i suoni che in essa rientrano che è designata con la parola vacuità. La società li ha concettualmente etichettati con la categoria di significato di assenza di modi impossibili di esistere e ora dobbiamo ricordare anche quella categoria di significato. Pertanto, la società ha concordato due convenzioni inseparabili riguardanti la categoria audio del suono vacuità e i suoni che vi rientrano: sono designati come il suono della parola vacuità e, essendo il suono della parola vacuità, sono concettualmente etichettati con la categoria di significato assenza di modi impossibili di esistere.

L’apprendimento concettuale attraverso una categoria di significato 

Cosa sono le categorie di significato? Sono fenomeni di imputazione che possono esistere ed essere conosciuti solo sulla base di categorie audio designate con parole. Non può esserci un significato, senza che esso sia il significato di qualcosa, per esempio il significato di una parola; e un suono non può essere il suono di una parola a meno che non vi sia un significato associato ad esso. Altrimenti è solo il suono di qualche rumore, come il rumore del traffico. Pensateci.

Prendiamo, ad esempio, la categoria di significato assenza di modi impossibili di esistere. Ciascuno dei sistemi filosofici buddhisti indiani, e anche alcune tradizioni tibetane, affermano un diverso modo impossibile di esistere che è assente. Tuttavia, tutti questi significati rientrano nella categoria di significato assenza di modi impossibili di esistere. Questa categoria di significato può essere un fenomeno di imputazione sulla base di molte diverse categorie audio di parole che significano tutte la stessa cosa. In questo caso, queste sarebbero le categorie audio delle parole vacuità in italiano, emptiness in inglese, Leerheit in tedesco, vacuité in francese e così via. Ci sono molte parole a cui è stato attribuito il significato di un’assenza di modi impossibili di esistere.

Tuttavia, non tutti i significati conosciuti attraverso la categoria di significato assenza di modi impossibili di esistere rientrano validamente in questa categoria. Ad esempio, il significato assenza di qualsiasi esistenza. Questa categoria di significato è un fenomeno di imputazione valido sulla base della categoria audio delle parole affermazione del nichilismo, ma non sulla base della categoria audio della parola vacuità. Quindi, un apprendimento concettuale attraverso una categoria di significato, come un’assenza di modi impossibili di esistere, deve avere un significato valido che rappresenti la categoria, come un’assenza di esistenza auto stabilita. “Esistenza auto stabilita” è spesso tradotta come “esistenza intrinseca”.

È importante rendersi conto che i suoni stessi non sono auto stabiliti come suoni delle parole e che le parole non sono auto stabilite come se avessero un significato specifico. I suoni devono essere designati come suoni di parole e le parole devono essere concettualmente etichettate con significati. In altre parole, si stabilisce che i suoni siano suoni di parole solo per il fatto di essere stati designati come tali, per convenzione, e che le parole abbiano un certo significato dipendente solo dall’essere state etichettate mentalmente come tali, sempre per convenzione. Inoltre, qualunque significato sia stato convenzionalmente designato sui suoni delle parole – ad esempio il suono di vacuità viene designato come il suono della parola vacuità ed è concettualmente etichettato come avente il significato di un’assenza di modi impossibili di esistere – non deve essere contraddetto dalla conoscenza valida degli insegnamenti di valide fonti di informazione. 

Faccio un esempio più semplice: l’amore. Che cos’è l’amore? Qualcuno pronuncia i suoni “Ti amo”, li sentiamo e li riconosciamo come suoni di parole. Inoltre, queste parole hanno un significato per noi. Non importa quale lingua parli la persona, avrebbe potuto pronunciare i suoni ich liebe dich. Pensiamo che in tedesco significhino la stessa cosa delle parole ti amo in italiano. Ma poi rappresentiamo concettualmente la categoria di significato dell’amore con la nostra idea privata di cosa significhi dire “ti amo” e proiettiamo quel significato sui suoni delle parole che abbiamo sentito. Da ciò nasce molta confusione.

Un esempio tratto dalla mia esperienza. In vari paesi europei quando un uomo incontra una donna, tocca o avvicina la sua guancia a quella dell’altra persona ed emette il suono mwah per rappresentare un bacio. In alcuni posti è un bacio, in altri due, tre o quattro baci. In certi posti le labbra non toccano mai la guancia dell’altra persona, in altri sì. Tutto questo significa semplicemente ciao, un saluto. Una volta mi è capitato di ripetere quel gesto di saluto troppe volte per una particolare cultura europea, penso che le mie labbra abbiano toccato la sua guancia e lei si fece un’idea sbagliata pensando che io ci stessi provando, il che non era affatto la mia intenzione né il significato del mio gesto. Pensateci.

È interessante. Le parole hanno significati diversi nelle diverse culture. In America Latina, per esempio, se dici “Vieni alle sei” ovviamente non significa vieni alle sei, nessuno si presenterebbe alle sei ma alle sette o anche più tardi. Se però siamo di origini tedesche, o svizzere, e qualcuno in America Latina ci dice di venire alle sei – genau, noi siamo lì esattamente alle sei, e loro non sono ancora nemmeno vestiti.

O quando qualcuno dice “Ti chiamo”. Significa letteralmente che ci chiamerà, o sono solo educati? Come comprendiamo il significato di queste parole? 

Come facciamo a sapere che le categorie di significato che applichiamo ai suoni delle parole che sentiamo sono corrette e che abbiamo appreso e compreso correttamente il significato delle parole? Possiamo applicare gli stessi tre criteri per la validità di un significato specifico come abbiamo fatto per il suono del pianto del nostro bambino:

[1] Innanzitutto deve rispettare una convenzione concordata da un gruppo di persone, ovvero che questo suono è il suono di una parola e che quella parola ha questo significato. Voglio dire, quello che abbiamo sentito era solo un suono; quindi, non c’è nulla di inerente al suono che lo renda il suono di una parola e di inerente alla parola che gli dia un significato specifico. Fondamentalmente, un gruppo di persone ha attribuito a questo suono il suono della parola vacuità e a questa parola il significato di assenza di modi impossibili di esistere. È una convenzione e tutto il linguaggio è così, se ci si pensa. 

Questa è la prima cosa da controllare. Esiste una convenzione concordata da questa società secondo cui un certo suono, non importa come viene espresso, è il suono di una parola e che ha un certo significato? Deve essere lì, non è vero? È la stessa cosa con la parola scritta o stampata. Stiamo leggendo un libro e tutto ciò che vediamo sono queste righe. Questo è tutto ciò che vediamo. Se vedessimo i caratteri cinesi, cosa vediamo? Linee. Non riconosciamo nemmeno le parole, tanto meno il loro significato, se non conosciamo il cinese. Potremmo semplicemente concepirli come disegni artistici.

Quando qualcuno parla una lingua straniera che non capiamo, per noi sono solo suoni. Non possiamo nemmeno dividere ciò che sentiamo in parole, vero? Dobbiamo applicare categorie audio per i suoni che sentiamo, riconoscerli come suoni di parole e ricordare le categorie di significato di queste parole. 

Quindi, sentiamo il suono vacuità e lo apprendiamo concettualmente attraverso la categoria audio vacuità. Quindi apprendiamo concettualmente il suono inserendolo nella categoria del significato, suono di una parola, e poi concettualmente lo apprendiamo ulteriormente attraverso la categoria di significato, un’assenza di modi impossibili di esistere. Controlliamo per verificare se abbiamo compreso il significato correttamente e accuratamente e, sì, questo è il suono vacuità e c’è la convenzione secondo cui questo suono è il suono di una parola e c’è la convenzione che questa parola ha questo significato assegnatogli – un’assenza di modi impossibili di esistere. C’è anche la convenzione secondo cui il significato specifico con cui rappresento un’assenza di modi impossibili di esistere rientra validamente in questa categoria di significato.

[2] In secondo luogo, controlliamo che questo significato di “vacuità” non sia contraddetto dai testi classici e da quanto spiegano insegnanti qualificati. Sì, c’è questa definizione nei testi e nelle spiegazioni degli insegnanti qualificati. “Vacuità” può significare questo. Questo è il secondo passo per verificare se abbiamo colto il suo significato. 

[3] Infine, controlliamo per vedere che questo significato non sia contraddetto dalla verità più profonda conosciuta non concettualmente dagli arya, che riconoscono che le parole non hanno significati intrinsecamente stabiliti in esse indipendentemente dall’etichettatura mentale. La parola vacuità è usata da molte diverse scuole di Buddhismo con definizioni piuttosto diverse; quindi, non è che intrinsecamente significhi solo una cosa. Ecco perché uso il termine “assenza di modi impossibili di esistere”, perché copre tutte le diverse scuole.

Comprendere qualcosa concettualmente 

Proprio perché comprendiamo correttamente e con decisione il suono che sentiamo come il suono vacuità e che è il suono di una parola, e proprio perché comprendiamo correttamente e con decisione il significato della parola vacuità come “una totale assenza di modi impossibili di esistere”, ciò non significa necessariamente che comprendiamo la vacuità. C’è una grande differenza tra questi apprendimenti e ciò che in realtà chiamiamo “comprensione della vacuità”. 

Questo ci accade continuamente quando leggiamo un testo complesso, come un testo di Tsongkhapa. Leggiamo una frase complicata, comprendendo ogni parola e il suo significato in modo corretto e decisivo, ma non capiamo affatto la frase. Potremmo anche comprendere in modo corretto e decisivo i diversi livelli del significato della parola vacuità – sappiamo che significa questo per i cittamatra, quello per gli svatantrika e quello per i prasangika – ma ancora non la comprendiamo. Naturalmente, prima di poter comprendere ciò che Tsongkhapa sta dicendo sulla vacuità, dobbiamo prima capire le parole e le loro definizioni in ciò che ha scritto e quel livello di comprensione deve essere corretto e decisivo.

Dobbiamo cercare di capire, oltre a ciò, di cosa abbiamo bisogno per poter dire di comprendere effettivamente ciò che ha scritto Tsongkhapa? Pensateci. Di che cosa altro abbiamo bisogno, oltre all’apprendimento corretto e decisivo, per dire che comprendiamo la vacuità? Possiamo riconoscere la parola vacuità, non importa come viene detta o come è scritta; ne conosciamo la definizione. Di cosa abbiamo bisogno, oltre a ciò, per dire che la comprendiamo?

Esperienza.

Va bene. Esperienza di cosa?

Se vivessi su un’isola calda e non avessi mai visto la neve, e qualcuno mi dicesse cos’è la neve sono sicuro di poterla descrivere molto bene ma, poiché non l’ho mai sperimentata, non saprei mai il vero significato della neve.

Come si collega questo alla vacuità? Non possiamo veramente capire la vacuità se non l’abbiamo sperimentata? Cosa significa “esperienza”? Come sperimentiamo la vacuità? Dobbiamo essere un po’ più precisi. 

Devi conoscerla. 

Che cosa significa? Cosa significa “conoscere” qualcosa? Potremmo conoscere la definizione di vacuità ma non capirla. Nella consueta terminologia occidentale, se sperimentiamo la neve, ora sappiamo cos’è la neve ma potremmo non capire cosa sia, come nasce, perché ha questa forma e questo colore. Allora, abbiamo capito la neve? No, non credo. Ma dire “Ora so cos’è la neve perché l’ho sperimentata”, è diverso. Ma perché ogni fiocco di neve è diverso? Non lo conosciamo né lo capiamo affatto, quindi non capiamo affatto la neve.

Propongo, per cominciare, che per comprendere qualcosa come la vacuità, non solo dobbiamo comprendere la parola e la sua definizione, ma anche le implicazioni di queste. Tsongkhapa spiega che l’implicazione della parola “vacuità”, che significa “un’assenza di modi impossibili di esistere”, è che l’origine interdipendente è infallibile – la vacuità non contraddice il fatto che gli effetti sorgono in modo dipendente dalle cause.  

Il semplice fatto di comprendere questa implicazione della vacuità – conoscerla in modo accurato e decisivo – oltre ad aver ottenuto la giusta definizione, penso che non sia ancora sufficiente per comprendere la vacuità. Inoltre, propongo che dovremmo anche essere in grado di mettere insieme la nostra comprensione temporanea di essa con molti altri insegnamenti che abbiamo ricevuto e applicarli all’analisi di argomenti come il karma. Il criterio per comprenderla vacuità, quindi, sarebbe che l’applicazione della nostra comprensione della vacuità a una causa della nostra sofferenza produca il risultato dichiarato: liberarci da quella sofferenza o almeno diminuirla. Allora possiamo avere la convinzione che la nostra comprensione è corretta.

Una volta che hai veramente capito qualcosa, è ancora una cosa intellettuale? Richiede il pensiero? Stiamo ancora pensando?

Ciò entra nella differenza tra una comprensione concettuale e una comprensione non concettuale. Di questo ci occuperemo più tardi. Ma per quanto riguarda il pensiero, c’è una differenza tra avere un pensiero, che significa semplicemente conoscere un oggetto con la coscienza mentale concettualmente o non concettualmente, e pensare, che significa utilizzare concettualmente un pensiero, come un ragionamento inferenziale. Quindi, per rispondere alla tua domanda, dovremmo elaborare le pervasioni tra una cognizione intellettuale e il pensiero attraverso un ragionamento. Non è così semplice. 

Ma torniamo alla cognizione concettuale della vacuità. Quando abbiamo una corretta comprensione che include le sue implicazioni e applicazioni, e ci concentriamo concettualmente su di essa, sebbene in quel momento la comprendiamo correttamente e con decisione, non ricordiamo contemporaneamente le sue implicazioni e applicazioni. Tuttavia, il nostro apprendimento della vacuità è mantenuto dalla forza delle latenze derivanti dal nostro averne precedentemente compreso le implicazioni e le applicazioni. Questa forza è sullo sfondo, diremmo che è inconscia. La nostra cognizione concettuale è sostenuta dalla forza di ciò. In quel momento non stiamo portando tutte le implicazioni e le applicazioni alla mente cosciente.

Seguite? La nostra cognizione è concettuale. Ciò significa che la nostra cognizione della vacuità avviene attraverso una categoria – in questo caso, la categoria dell’oggetto vacuità. La parola per categoria di significato e per categoria di oggetto è la stessa sia in sanscrito che in tibetano. Ciò che la parola vacuità significa e si riferisce è l’oggetto cognitivo vacuità. Ogni volta che vi meditiamo l’ologramma mentale che emerge rappresentante la vacuità è leggermente diverso, ma tutte queste rappresentazioni concettuali rientrano nella categoria oggetto/significato vacuità

Tale cognizione concettuale della vacuità attraverso la categoria oggetto/significato vacuità non deve necessariamente essere accompagnata da una seconda cognizione concettuale attraverso la categoria audio vacuità rappresentata da un ologramma mentale del suono della parola vacuità. Non abbiamo bisogno di sperimentare una voce nella nostra testa che dice “vacuità” quando abbiamo una cognizione concettuale della vacuità. Abbiamo solo bisogno di un’idea accurata e decisiva di cosa significhi. Questo è l’apprendimento. 

Se abbiamo elaborato in anticipo le implicazioni e le applicazioni della vacuità e se il nostro apprendimento concettuale è sostenuto dalla forza delle latenze inconsce di queste implicazioni, allora penso che potremmo dire che comprendiamo effettivamente la vacuità quando la apprendiamo concettualmente. È come se la nostra conoscenza di tutte queste implicazioni e applicazioni fosse lì inconsciamente, sullo sfondo, quando ci concentriamo sulla vacuità attraverso la categoria oggetto/significato.

Rivediamo ogni passaggio:

Elaboriamo le varie implicazioni e applicazioni della vacuità, l’abbiamo analizzata e applicata a molte situazioni della nostra vita; l’abbiamo messa insieme con tutti gli altri insegnamenti che abbiamo sentito – per esempio, come si integra all’impermanenza e alla causa ed effetto comportamentale, il karma. Sappiamo che le nostre analisi sono accurate e decisive perché il nostro concetto di cosa significhi vacuità combacia con tutti questi insegnamenti e dà loro un senso. Siamo arrivati a questa conclusione con deduzioni valide nella meditazione analitica, anche riflettendo in modo informale sugli insegnamenti alla luce della vacuità, e applicando ciò che abbiamo compreso per affrontare le questioni problematiche della nostra vita; questo ci ha aiutato ad eliminare l’infelicità, almeno provvisoriamente, in quel momento. Abbiamo ripetuto questa meditazione analitica molte, molte volte in modo da familiarizzarci davvero con tutte queste implicazioni ed essere totalmente convinti che la nostra idea di cosa significhi vacuità sia corretta, perché ci ha aiutato ad affrontare i problemi.

Ora, nella meditazione stabilizzante, ci concentriamo concettualmente in modo univoco su di essa. Generiamo prima la nostra idea di cosa significhi – la nostra rappresentazione concettuale di essa – seguendo un ragionamento, oppure abbiamo così familiarità con questo concetto che non dobbiamo utilizzare alcun ragionamento e generiamo semplicemente la nostra idea, la nostra rappresentazione mentale, di cosa significhi vacuità. Tuttavia, è sempre una cognizione concettuale mediante la categoria oggetto/significato vacuità.

Ora, nel momento in cui ci concentriamo concettualmente in modo univoco sulla vacuità attraverso la categoria oggetto/significato, non stiamo pensando allo stesso tempo a tutte le sue diverse implicazioni e applicazioni. Ma le conosciamo perché le abbiamo già elaborate in anticipo e la forza di ciò è in funzione mentre ci concentriamo su di essa in questo modo.

Ora seguite? Pensateci.

Faccio un esempio più semplice. Incontriamo un amico che ci racconta che ha un problema, che è depresso. Ora ci stiamo concentrando sulla sua situazione attraverso le categorie di oggetti, mio amico e problema

Già sappiamo molte cose su di lui: sappiamo che ha perso il lavoro e che ha una famiglia, conosciamo il suo passato. Più dettagli e implicazioni conosciamo su di lui e sulla sua vita, meglio possiamo comprendere il suo problema di depressione. Quando ci concentriamo sul nostro amico e sul suo problema, non pensiamo consapevolmente a tutte quelle informazioni, tuttavia, sono lì sullo sfondo. 

Conosciamo anche le varie implicazioni di problemi come la depressione, già sappiamo che i problemi derivano dalle cause e, se cambiamo le circostanze che sostengono e perpetuano i problemi, le situazioni cambieranno. Non dobbiamo pensare consapevolmente a queste implicazioni nel momento in cui ci concentriamo sul nostro amico e sul suo problema. Tuttavia, abbiamo già elaborato tutto basandoci sull’esperienza, sulla logica e così via.

Abbiamo questo tipo di comprensione concettuale continuamente. Vediamo un altro esempio. Il nostro computer non fa quello che vogliamo, quindi lo percepiamo concettualmente attraverso la categoria computer malfunzionante. Se abbiamo la formazione e le conoscenze necessarie per capire quali sono le implicazioni del malfunzionamento, e quindi sappiamo cosa non va e come risolverlo, allora quando ci concentriamo concettualmente sul computer malfunzionante, comprendiamo il problema e sappiamo accuratamente e decisamente cosa fare. La nostra comprensione del malfunzionamento è sostenuta dalla forza della nostra conoscenza di tutte le sue implicazioni: se non lo fa, è a causa di questo o di quello, e per risolverlo, dobbiamo fare questo o quello. È così che comprendiamo le cose.

Ci sono domande?

Usare il termine vacuità

La mia domanda riguarda l’uso del termine vacuità: cosa significa ed esiste un modo diverso di parlare di ciò che dovrebbe significare che sia forse meno irritante? Perché molte persone, se sentendo il termine vacuità, sviluppano ogni sorta di confusione.

Bene, grazie mille per avermi dato l’opportunità di spiegare perché non uso la parola vuoto e perché uso invece la parola vacuità per la parola sanscrita shunya (śūnya) o shunyata (śūnyatā). “Shunya” è la stessa parola sanscrita per “zero”. Non significa “niente”, significa assenza. Cosa è assente? Modi impossibili di esistere. Non esistono cose come questi modi di esistere; sono impossibili. I diversi sistemi filosofici indiani affermano quindi modi diversi di esistere che sono assenti.

In italiano, abbiamo queste due parole che vengono usate per tradurre “shunya” – “vacuità” e “vuoto”. In molte altre lingue non abbiamo due termini distinti, ma in italiano sì.

  • “Vuoto” implica che ci sia qualcosa lì, qualcosa di intrinsecamente esistente, auto stabilito che convenzionalmente appare ed è lì, ma al livello più profondo c’è l’assenza di qualcosa di impossibile al suo interno: è vuoto come è vuoto un bicchiere. 
  • “Vacuità”, d’altra parte, significa semplicemente che non esiste un modo impossibile di esistere. C’è solo un “vuoto”.

“Vuoto” è una traduzione appropriata per le asserzioni cittamatra e svatantrika di shunyata. 

  • Cittamatra afferma che le forme dei fenomeni fisici hanno una vera esistenza auto stabilita, indipendentemente dall’etichettatura mentale. Come tali, convenzionalmente compaiono e sono ritrovabili nella cognizione sensoriale. Ma, nella verità più profonda, quando appaiono nella cognizione sensoriale, sono “vuoti” del provenire da una fonte natale diversa da quella da cui provengono la coscienza e i fattori mentali che la conoscono. 
  • Svatantrika asserisce che tutti i fenomeni hanno un’esistenza auto stabilita e che convenzionalmente appaiono e sono trovabili come tali. Ma, nella verità più profonda, sono “vuoti” sia dell’avere una vera esistenza stabilita indipendentemente dall’etichettatura mentale, sia dell’avere la loro esistenza stabilita semplicemente in termini di etichettatura mentale.

La traduzione vuoto si adatta a questi due sistemi perché per entrambi gli oggetti convenzionali sono come bicchieri vuoti. Tuttavia, il “vuoto” non funziona per l’asserzione prasanghika secondo cui non esiste qualcosa come un’esistenza auto stabilita, sia essa stabilita indipendentemente dall’etichettatura mentale o insieme ad essa. Inoltre, l’esistenza auto stabilita è impossibile e totalmente assente sia in termini di verità convenzionale che di verità più profonda. Quindi, secondo la visione prasanghika, tutti i fenomeni sono semplicemente “privi” di modi impossibili di esistere e nulla è trovabile, mentre secondo le visioni Cittamatra e Svatantrika, i fenomeni sono come bicchieri vuoti trovabili che non hanno modi impossibili di esistere al loro interno.  

Usiamo un esempio semplice. Un bambino pensa che sotto il letto ci sia un mostro; ha questa idea di un mostro – la categoria “mostro” – e lo rappresenta con una cosa dall’aspetto spaventoso, e poi lo proietta come se fosse sotto il letto. Ma non esistono cose come i mostri, quindi è impossibile che qualcosa del genere esista. Tecnicamente diremmo che non esiste un oggetto di riferimento (btags-chos) per la categoria mostro: la categoria e la parola mostro non si riferiscono ad alcunché di reale, anche se potrebbero essere concettualmente rappresentate da un mostro dei cartoni animati. 

Analogo alla comprensione cittamatra e svatantrika di shunyata è che in realtà c’è un gatto trovabile sotto il letto, ma non esiste come mostro perché è un modo impossibile di esistere. Analogo alla comprensione prasanghika è che non c’è nulla da trovare sotto il letto perché l’esistenza come mostro è impossibile. 

Quindi, per Cittamatra e Svatantrika, c’è qualcosa di trovabile che è vuoto dell’esistere come mostro, il che è impossibile. Per Prasanghika, c’è semplicemente una totale vacuità dell’esistenza come mostro – non esiste una cosa del genere; non c’è mai stato e non ci sarà mai, è impossibile.

Oggetti referenti e cose referenti 

Tornando a questo concetto di rappresentazione olografica: cosa accadrebbe se non ci fosse un oggetto di riferimento al di fuori della natura di questa rappresentazione olografica?

Vuoi dire, cos’è un ologramma mentale di un mostro? È costruito sulla base delle rappresentazioni dei cartoni animati e delle rappresentazioni nei film (Dracula, Frankenstein, ecc.) di cosa sia un mostro. Tuttavia, non esistono veri mostri. 

L’esempio che uso sono le labbra di pollo. Potremmo immaginare le labbra su un pollo, ma non sarebbero labbra di pollo perché non esiste una cosa del genere. Potremmo immaginare labbra umane su un pollo. Paperino o Paperina hanno le labbra, ma sono labbra umane non di anatra perché non esiste una cosa del genere.

Ora dobbiamo entrare nella terminologia. Esiste il termine denpar drubpa (bden-par grub-pa), in sanscrito satyasiddha, solitamente tradotto come “vera esistenza”.  Denpar e satya significano “vera”. Sebbene molte persone traducano drubpa e siddha come “esistenza”, non sono le parole per “esistenza”. Sono le parole per “stabilito”, “affermato” e “dimostrato”. Riguardano la questione di come possiamo stabilire, affermare o dimostrare che qualcosa esiste. Cosa stabilisce che qualcosa esiste?

Cosa dimostra che esistono cose come i cani? Cos’è un cane? L’unica cosa che possiamo dire è che un cane è ciò a cui si riferiscono il concetto di cane e la parola cane quando una società ha concordato che un insieme di determinati animali è mentalmente etichettato e designato con la convenzione cane. Questo è vero anche se non c’è bisogno di chiamarli cani o di concepirli come cani, o di chiamarli o concepirli come qualcosa. Non c’è alcunché, trovabile in qualche animale, che lo identifichi come un cane. Cosa si potrebbe trovare? C’è una piccola targhetta con il nome o un’etichetta cane? C’è qualcosa di trovabile in questi animali? 

Cosa stabilisce che qualcosa è una cosa, un oggetto validamente conoscibile? C’è una sorta di linea attorno ad esso che lo delinea come una cosa? È incapsulato nella plastica, separato da tutto il resto, ed è questo che lo rende una cosa? Esiste tutto come in un libro da colorare per bambini, con linee attorno che li trasformano in cose, e poi ci proiettiamo semplicemente i colori? Sebbene i sistemi non Prasanghika lo affermino questo, Prasanghika lo confuta fermamente. 

Con l’etichettatura mentale con concetti o categorie, esiste una base per l’etichettatura (gdags-gzhi) su cui viene etichettato il concetto o la categoria, che non possono essere etichettati su qualsiasi cosa. La base deve avere determinate caratteristiche distintive condivise dalla categoria e da tutti i singoli elementi che vi rientrano. Ma anche la caratteristica distintiva dei cani, ad esempio la struttura del DNA, non può essere trovata e indicata dalla base. Quando analizziamo e osserviamo da vicino il DNA vediamo che è costituito da proteine, le proteine sono costituite da molecole, le molecole sono costituite da atomi, gli atomi sono costituiti da particelle subatomiche e così via. Alla fine, non possiamo trovare alcunché in un animale che, per suo potere o in combinazione con l’etichettatura mentale, stabilisca che si tratta di un cane. 

Quindi, cosa stabilisce che un animale sia un cane? Possiamo solo dire che un cane è semplicemente ciò a cui si riferisce il concetto e la parola cane sulla base di un animale con determinate caratteristiche distintive come base per l’etichettatura. E anche l’esistenza di una caratteristica distintiva di un cane viene stabilita semplicemente in termini di etichettatura mentale. Qualcuno ha dovuto concepire che un certo modello di DNA è la caratteristica distintiva di un cane, etichettandolo mentalmente e designandolo come tale, e altri hanno dovuto accettarlo come una convenzione. Il DNA di per sé è solo un insieme di proteine, e le proteine sono solo un insieme di molecole, e così via. 

Dobbiamo distinguere tra un oggetto referente e una cosa referente. Queste sono due parole diverse in tibetano: takcho (btags-chos, oggetto referente) e takdon (btags-don, cosa referente). Il concetto e la parola cane si riferiscono a qualcosa: convenzionalmente ci sono i cani, sono gli oggetti di riferimento del concetto e della parola cane che sono stati etichettati e designati mentalmente su un certo insieme di animali. Il Buddhismo non lo confuta. La loro esistenza come cani, tuttavia, può essere stabilita solo a condizione che siano stati etichettati mentalmente con il concetto convenzionalmente concordato di cane e designati con la parola cane. Non si auto stabiliscono come cani grazie a qualcosa che si trova in loro, sono semplicemente gli oggetti di riferimento del concetto e della parola cane

Una cosa referente, invece, è qualcosa che si auto stabilisce dalla sua parte, ad esempio come cane, e che gli consente di essere correttamente etichettato e designato come tale. In questo caso si tratterebbe di un animale che, convenzionalmente, è un cane e appare come un cane. È ciò che serve da supporto focale (dmigs-rten) per essere correttamente etichettato e designato come cane. In un certo senso, questo referente sostiene e supporta l’oggetto referente del concetto e della parola cane. Per dirla in modo leggermente diverso, una cosa referente è come un animale che sembra essere un cane, ma questo da solo non stabilisce che lo sia. Ciò che stabilisce che si tratti effettivamente di un cane, secondo gli svatantrika, è che può anche essere validamente riconosciuto, concettualmente, come appartenente alla categoria cane, come un oggetto concreto che entra in una scatola. Secondo i prasanghika non esistono cose riferenti. 

Un esempio più semplice. Esiste il colore arancione? Cosa dimostra che esiste? Il colore arancione è semplicemente ciò a cui si riferiscono il concetto e la parola arancione, essendo stato mentalmente etichettato e designato arancione sulla base di una determinata gamma di frequenze nello spettro della luce. Il colore arancione è l’oggetto di riferimento dell’etichetta mentale e della parola arancione, non c’è alcunché nello spettro della luce che stabilisca che una certa gamma di frequenze sia “arancione”. Non ci sono muri nello spettro luminoso che lo separano in porzioni, dividendo il colore rosso dall’arancione. L’esistenza dell’arancione e del rosso è stabilita semplicemente in termini di etichettatura mentale. 

L’etichettatura e la designazione mentale, tuttavia, non sono solo arbitrarie. Per essere valide devono soddisfare i tre criteri di Dharmakirti, come abbiamo discusso in precedenza: deve esserci una convenzione concordata di arancione e rosso, ad esempio, e non devono essere contraddetti da una mente che riconosce validamente la verità convenzionale o più profonda.

Consideriamo l’esempio dell’amore. Che cos’è l’amore? Semplicemente ciò a cui si riferisce il concetto e la parola amore sulla base di alcune emozioni che le persone provano. Esiste una cosa come l’amore? Certo, convenzionalmente esiste qualcosa che chiamiamo “amore” – la società ha concordato questa convenzione. Oltre a tutte le emozioni che ogni essere umano sperimenta, c’è questa scatola dell’amore trovabile in tutte le nostre menti e, quando lo proviamo, è come se sentissimo qualcosa che rientra questa scatola? No, non è così.

Ciò che è totalmente assente è una cosa referente, come se fosse circondata da una linea, incapsulata nella plastica, collocata in una scatola trovabile nella nostra mente, come un pezzo di cioccolato in una scatola di cioccolatini, e stabilita come “amore” dalla sua parte. E quando sentiamo “amore”, è come se avessimo scelto un cioccolatino da questa scatola e lo stessimo assaggiando. 

Se pensiamo che convenzionalmente esista un oggetto referente trovabile ma che nella verità più profonda non esista come tale, allora pensiamo come uno svatantrika che sotto il letto c’è un gatto trovabile. Ciò che stabilisce che esiste come gatto nel modo di pensare svatantrika non è solo il fatto che sia effettivamente un gatto, ma anche che possa essere validamente etichettato come tale. Nessuno dei due criteri stabilisce che si tratti di un gatto solo per proprio potere. Ma solo perché il bambino spaventato lo etichetta come un mostro non significa che esista come mostro, perché non esistono i mostri. 

Se invece diciamo che non esistono cose referenti e ci concentriamo sulla loro totale assenza con la forza dell’aver compreso che l’esistenza delle cose può essere stabilita solo come oggetti referenti dell’etichettatura mentale, allora pensiamo come un prasanghika che non esiste qualcosa come un mostro e non c’è alcunché che si possa trovare sotto il letto che possa essere stabilito come esistente come mostro.  

Capite questa spiegazione sugli oggetti e sulle cose referenti? Quali sono i passaggi? Dovremmo prima ascoltare questa spiegazione in modo accurato e decisivo in modo da poter ricordare in modo accurato e decisivo ciò che ho detto. Bene, abbiamo le registrazioni, quindi è facile. Dovremmo quindi pensare a cosa potrebbe significare. Per comprendere il senso di quanto spiegato, partiremmo da esempi facili come il mostro sotto il letto per poi passare agli esempi tratti dalla nostra esperienza. Creiamo infelicità e sofferenza per noi stessi quando pensiamo “Non mi ami”, immaginando che l’amore sia una sorta di cosa di riferimento, auto stabilita e trovabile nello spettro delle emozioni, e che non hai aperto la scatola chiamata “amore” dentro le tue emozioni e diretto quell’emozione verso di me? 

Esiste una cosa come l’amore? Sicuro. Cosa dimostra che esiste? C’è il concetto amore e la parola amore. La società ha concordato una caratteristica distintiva di un insieme di emozioni, hanno concordato di chiamarlo “amore” e che questa parola si riferisce a qualcosa. Ma ciò a cui si riferisce non è una cosa trovabile la cui esistenza come “amore” è stabilita dal potere di una caratteristica distintiva trovabile dalla sua stessa parte. La sua esistenza come amore non può essere stabilita in questo modo impossibile. Questo è ciò che manca: un riferimento reale che corrisponda al concetto o alla parola amore. Questo è ciò di cui parla la vacuità. Non è che esista un bicchiere trovabile che sia vuoto, c’è solo il vuoto.

C’è un altro punto che voglio sottolineare. Ricordate quando parlavamo di cognizione concettuale? Abbiamo la categoria amore, per esempio. Pensiamo in termini di “amore” creando la nostra rappresentazione personale di cosa sia. Quindi, pensiamo che quello sia il vero referente che corrisponde ad “amore” e che questa nostra idea personale sia l’unica realtà dell’amore. Se l’altra persona non dimostra cosa pensiamo sia l’amore, concludiamo che non ci ama. Questo è il problema, no? Pensare in questo modo ci provoca problemi e sofferenze. 

Quando siamo in grado di riconoscere che la rappresentazione personale dell’amore a cui ci afferriamo come referente a cui corrispondono il concetto e la parola amore – quando siamo in grado di capire in modo accurato e decisivo che “questo è ridicolo”, che non ci sono cose come referenti trovabili corrispondenti ai nostri concetti e parole, allora possiamo abbandonare il nostro attaccamento. È come comprendere la vacuità. Quando iniziamo quel viaggio del “Non mi ami”, semplicemente lo interrompiamo con la nostra comprensione dell’etichettatura mentale e della vacuità e con la chiarezza che questo è ridicolo. 

Giungiamo alla decisione che l’amore non può esistere solo come la cosa di riferimento che immaginiamo che sia esclusivamente elaborando le conseguenze logiche che seguirebbero se ciò che immaginiamo fosse vero. Se amore significa solo questa cosa che pensiamo significhi, ciò significa che ciò che proviamo quando amiamo il nostro partner sessuale, nostro figlio, nostra madre, il nostro paese, la nostra macchina e il nostro cane – in tutti questi casi, ciò che proviamo sono tutti esattamente uguali. Ma è ridicolo, non è vero? Chiaramente non è così. Fondamentalmente, elaboriamo le conseguenze logiche delle nostre convinzioni errate e concludiamo “Questo è stupido, quindi perché ci credo?” – e poi, con decisione, lo cancelliamo dal nostro modo di pensare.

Se abbiamo compreso correttamente la vacuità, il che significa in modo accurato e decisivo con tutte le sue implicazioni, allora possiamo applicare la nostra comprensione a situazioni problematiche nella nostra vita come con questo esempio dell’amore, e otterremo i risultati annunciati: la nostra sofferenza se ne va o a diminuisce e abbiamo meno problemi. Se abbiamo applicato la nostra comprensione e non si è verificato alcun miglioramento, o se la nostra sofferenza e infelicità sono peggiorate, allora non abbiamo affatto compreso correttamente la vacuità.

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