Sviluppare interesse nella liberazione e nell’illuminazione

Breve revisione

Abbiamo visto che il testo di Atisha parla delle fasi attraverso cui ci sviluppiamo o progrediamo lungo il cammino spirituale. Un modo di descrivere come progrediamo è che lo scopo del nostro obiettivo diventa progressivamente più vasto e questo è elaborato in termini di scopi o persone dei tre scopi spirituali. Ieri abbiamo visto lo scopo iniziale. 

La parola che Atisha usa per i tre tipi di “persone” spirituali è piuttosto interessante, purusha in sanscrito. È in realtà un termine tecnico che appare nella filosofia indù e mi chiedo se ci sia o meno una certa connotazione derivante da ciò. Abbiamo due categorie nella scuola Samkhya della filosofia indù: la materia primordiale e il purusha che vi si oppone, una sorta di mente, “persona” che va di vita in vita. Ecco perché penso che Atisha non stia parlando di persone individuali, ma del nostro stato mentale mentre progredisce di vita in vita verso l’illuminazione. 

L’obiettivo iniziale è l’essere interessati a ottenere la felicità del samsara con la rinascita, e questo riguarda principalmente il continuare ad avere una preziosa vita umana anche nelle vite future, non solo in questa, in modo da poter continuare sul cammino fino alla liberazione e all’illuminazione. Poiché non ci sono molte probabilità che raggiungeremo la liberazione o l’illuminazione in questa vita, dobbiamo essere in grado di continuare anche in futuro. 

Ecco perché questo scopo iniziale è un fondamento essenziale quando pensiamo di seguire l’intero sentiero, anche quando siamo a un livello mahayana o a un livello mahayana tantrico: avremo bisogno di avere una preziosa vita umana, la capacità di continuare la nostra pratica anche in futuro. Se non adottiamo misure ora per garantire le nostre vite future, saremo in grossi guai quando moriremo. Perché al momento della nostra morte, se non abbiamo raggiunto la liberazione o l’illuminazione, il che è molto probabile che accada, allora potremmo pensare “Oh, è stato tutto un grande spreco”. 

Tuttavia, se abbiamo adottato delle misure per avere delle circostanze favorevoli in futuro e per far sì che siano ancora migliori, allora possiamo pensare “In questa vita ho fatto qualche passo in quella direzione; molto bene”, “Sarò in grado di continuare” e morire con grande tranquillità. È importante non guardare a questo stadio iniziale solo come “Voglio rinascere in cielo o in un paradiso, e tutto sarà così meraviglioso”. Non è questo il punto di questo scopo iniziale. 

Lo scopo intermedio 

(4) Chiunque [abbia] la natura di voltare le spalle ai piaceri dell’esistenza compulsiva e di respingere gli impulsi negativi del karma, interessandosi intensamente soltanto al suo stato di pace, è noto come una persona dalla capacità spirituale intermedia. 

Voltare le spalle ai piaceri dell’esistenza compulsiva

Il punto principale dello scopo intermedio è che vogliamo liberarci completamente dal samsara, dalla rinascita incontrollabile e ricorrente, perché siamo completamente stanchi dell’intero ciclo che si ripete senza fine: tutti i problemi del crescere, guadagnarsi da vivere, dover lavorare molto duramente, di malattia, vecchiaia e morte; si ripete senza fine e questo è davvero molto stancante. Ma non solo, comprendiamo anche cosa causa questo ciclo incontrollabile e ricorrente, come fermarlo e siamo convinti che possiamo farlo.

Se guardiamo più da vicino, il samsara va costantemente su e giù; non solo in termini delle nostre diverse rinascite, ma anche in ogni momento: a volte ci sentiamo felici, il minuto dopo infelici. Il nostro umore e i nostri stati emotivi vanno su e giù; non sappiamo mai cosa succederà dopo, ed è orribile. 

È molto importante ricordare questo mentre seguiamo il cammino spirituale, perché continuerà finché non otterremo la liberazione, cioè, finché non saremo esseri completamente liberati, arhat. Ciò significa che, anche se siamo praticanti molto avanzati ma non abbiamo ancora raggiunto la liberazione, la nostra esperienza continuerà ad andare su e giù. A volte avremo voglia di praticare e a volte no. Questo è naturale, è una delle caratteristiche del samsara. A volte le cose andranno bene e a volte no; ci ammaleremo o ci faremo male e così via. È naturale e non c’è nulla di sorprendente. 

Se lo comprendiamo, allora non ci scoraggiamo quando le cose vanno su e giù, ma continueremo con perseveranza, la “perseveranza simile a un’armatura”: non ci scoraggeremo ma continueremo e basta. 

Tuttavia, in questo stadio intermedio diciamo “Ne ho abbastanza, non solo ne sono completamente stanco e disgustato, ma anche annoiato. È noioso e voglio davvero uscirne”. È quando ci annoiamo del samsara che iniziamo davvero a fare qualcosa al riguardo, sviluppando quella che viene chiamata “rinuncia al samsara”. Questa è una parola speciale che dobbiamo capire bene. “Rinuncia” − la parola tibetana significa “diventare stabili” – è la determinazione a staccarsi dal samsara e da tutte le sue caratteristiche insoddisfacenti, sapendo come farlo e che è possibile farlo.

Ciò significa che diventiamo determinati a rinunciare a certe cose, ovvero ai vari problemi che abbiamo e alle cause di questi. I problemi sono ciò di cui vogliamo liberarci, per questo vi rinunciamo e vogliamo uscire dal samsara. Non si tratta di rinunciare a cose neutre come il gelato, ma di rinunciare a certi stati mentali e alle esperienze a cui portano, che fondamentalmente sono disturbanti e causano molti problemi. Pensiamo “Sono davvero determinata a non voler continuare così. Voglio fermarmi e uscirne”. Questo è il significato di rinuncia. 

È relativamente facile e piuttosto banale rinunciare a guardare la televisione o a mangiare il gelato. Qui parliamo di rinunciare all’avidità, rinunciare all’attaccamento, rinunciare alla rabbia. Non basta semplicemente dire “Bene, rinuncio a essere attaccato” o “Smetto di essere arrabbiato”: dobbiamo davvero impegnarci molto per liberarci da questi stati mentali disturbanti e non è solo una questione di disciplina bensì di impegno per progredire molto profondamente per liberarsi da questi problemi e dalle loro cause. 

“Qual è davvero la causa della mia avidità, del mio attaccamento, della mia rabbia?”. Vai più a fondo. “Beh, è l’insicurezza”. “Qual è la causa dell’insicurezza? Voglio rinunciarci, voglio smettere di essere insicuro, il che significa che devo liberarmi di ciò che la causa”. Vai ancora più in profondità. Questo è ciò che di solito viene chiamato l’“abbandonare” queste cose, ma non è proprio la parola giusta; significa liberarsene. Quando le nostre menti sono completamente ferme, non vacillanti, ma completamente stabili “Sono determinato a fare questo e posso farlo, perché so come”, questo è il significato della rinuncia. 

Come abbiamo visto con la direzione sicura o il rifugio, una parte molto importante di questa determinazione, questa rinuncia, è l’essere convinti che sia possibile liberarci di queste cose e che noi stessi ne siamo capaci. Non è solo un bel sogno che non pensiamo sia possibile realizzare realmente. Ecco perché, per tutto questo, è molto importante avere una chiara comprensione della natura della mente, del continuum mentale che non è per natura macchiato da queste cose e che è effettivamente possibile eliminare tutta la confusione e così via che sta causando i problemi. Questo è essenziale; altrimenti, tutto il Buddhismo è solo un bel sogno, un bel desiderio, ma senza alcuna convinzione che sia possibile raggiungere i suoi obiettivi. 

Come descrive Atisha questo scopo intermedio? Dice che si tratta di qualcuno che “volta le spalle ai piaceri dell’esistenza compulsiva”, ovvero alla felicità ordinaria. Voltare le spalle non significa “non mangerò mai più niente di buono” o “andrò in giro solo indossando abiti ruvidi, scalzo, mi flagellerò e cose del genere perché non voglio mai avere piaceri mondani”. Di certo non è questo. 

Significa piuttosto pensare “Il mio obiettivo finale non è la felicità terrena” perché ha molti problemi associati, non dura, non sappiamo mai quando finirà e non sappiamo mai come ci sentiremo dopo. “Mi sento felice ora, ma tra due minuti potrei sentirmi piuttosto infelice. Mi sto divertendo con te, ma tra un minuto potrei annoiarmi o potresti dire qualcosa che non mi piace e allora non sarò più felice”. Non c’è garanzia di cosa succederà dopo. 

Non c’è sicurezza con la felicità ordinaria, per questo è insoddisfacente. Non eliminerà mai completamente l’infelicità, non è abbastanza. Ecco perché voltiamo le spalle a quella felicità ordinaria “Questo non è l’obiettivo finale che sto cercando; avere quella felicità mondana può essere una circostanza favorevole alla pratica. Se non sono sempre in uno stato di completo dolore allora, ovviamente, posso aiutare di più gli altri. L’essere in salute e così via è una circostanza favorevole alla pratica e all’aiuto”. Usiamo questa felicità mondana quando l’abbiamo, ma non siamo sorpresi quando finisce. 

Perché, ovviamente, finirà. È la natura del samsara, va su e giù. L’essere infelici, inoltre, non ci farà smettere di praticare perché anche la sofferenza può anche essere una circostanza utile per apprezzare e sviluppare compassione per le altre persone che soffrono. 

Questa è una caratteristica dello scopo intermedio: “voltare le spalle ai piaceri dell’esistenza compulsiva”, ad esempio, “Questo non è ciò che voglio come obiettivo finale”. 

Respingere gli impulsi negativi

La caratteristica successiva è “respingere gli impulsi negativi”. Il verbo qui è diverso da quello che abbiamo nella prima parte di questa strofe. 

Nello scopo iniziale abbiamo l’intenzione di astenerci dall’azione distruttiva quando emergono gli impulsi karmici ad agire, “Ho l’impulso di dirti qualcosa di crudele, ma mi rendo conto che ferirà i tuoi sentimenti e io accumulerò abitudini negative, quindi mi astengo dal dirlo”. Qui, nello scopo intermedio, non solo non agiamo a causa degli impulsi negativi ma li respingiamo, il che significa eliminare le cause per cui sorgono. Vogliamo esaminarli davvero il più profondamente possibile e scoprirne le cause. 

Scopriamo che sono causati dalla nostra confusione sulla realtà, di solito chiamata “inconsapevolezza” o “ignoranza”. Questa inconsapevolezza di come noi e tutti esistiamo viene discussa più ampiamente in seguito nel testo. Per descriverla in modo molto semplice, è fondamentalmente una sensazione di essere “un io solido che è separato da tutto ciò che sta accadendo e io devo sempre ottenere ciò che voglio”. Siamo preoccupati da questo me apparentemente solido “Sono la persona più importante al mondo e devo distruggere con la rabbia ciò che non mi piace e ottenere con l’avidità ciò che mi piace. Se ce l’ho, ho attaccamento e non voglio lasciarlo andare”. 

Ciò ci porta ad agire in modi compulsivi e distruttivi o anche compulsivamente in modi costruttivi “Sto cercando compulsivamente di compiacerti perché voglio che tu mi ami. Sono così preoccupato per me che penso che tutti nell’universo debbano prestarmi attenzione, ma sarò gentile con te in modo che tu mi presterai attenzione e mi amerai”. Questo afferrarsi a questo solido io è ciò che ci porta ad accumulare potenziale karma per problemi agendo in modo distruttivo o costruttivo, ma in un modo compulsivo, al fine di gratificare questo me

Questo afferrarsi un me solido, questa confusione, è anche ciò che fa maturare i potenziali del karma in modo che sperimentiamo i risultati di ciò in termini di felicità o infelicità, e poi continuiamo nei nostri vecchi modi. Qui, nello scopo intermedio, vogliamo voltare le spalle, liberarci di questi impulsi negativi in modo che non sorgano, il che significa che vogliamo liberarci delle cause di ciò, della nostra confusione su come esistiamo. Rinunciamo a questa confusione. 

Sviluppare interesse solo per la propria pace personale

La terza caratteristica è che “si interessa intensamente soltanto al suo stato di pace” “Voglio uscirne”. Non stiamo parlando del Buddhismo Theravada sebbene questo sia il livello di motivazione “in comune con l’Hinayana”, questo è il modo in cui viene descritto dal punto di vista Mahayana. Dobbiamo ricordare che furono i mahayanisti a inventare la parola “Hinayana”. Appare per la prima volta nei Sutra Prajnaparamita, i Sutra della perfezione della saggezza

Mahayana significa “grande veicolo”, “il grande veicolo”, e Hinayana significa “piccolo veicolo”, quindi si potrebbe considerarlo come un termine dispregiativo del Mahayana che guarda dall’alto in basso l’Hinayana “Noi siamo grandi e tu sei così piccolo”. Penso che dovremmo considerare la parola yana (veicolo) più in termini della presentazione di Atisha dei tre scopi. È un veicolo della mente che ci conduce a un obiettivo, questo è ciò che significa e, come nella nostra discussione di questi scopi, quel veicolo della mente, come la persona che progredisce lungo il percorso spirituale, diventa sempre più vasto nel suo scopo. 

Questi termini Hinayana e Mahayana si riferiscono a livelli del nostro sviluppo man mano che il nostro scopo spirituale si amplia, e non penso che sia davvero giusto applicare il termine “Hinayana” per parlare di certe scuole storiche del Buddhismo. Ritengo non sia davvero il modo più maturo di guardare al significato di questi termini. Meglio dire veicolo della mente con uno scopo modesto. Il problema è che ci sono 18 scuole di Buddhismo che si sono sviluppate, di cui quella Theravada è una, e Mahayana è spesso contrapposto a queste 18 scuole. Il problema è che non c’è un termine per tutte e 18 queste; quindi, “Hinayana” è usato per riferirsi a tutte. 

Nel contesto del Mahayana, e in particolare del lam-rim, è importante non identificare realmente questo livello di motivazione hinayana con queste 18 scuole storiche, perché certamente in queste scuole si ha la pratica dell’amore, della compassione e così via. Potremmo avere l’impressione che nello scopo intermedio qualcuno sia totalmente egoista e interessato solo a se stesso; gli insegnamenti sull’amore e la compassione non sono mai inclusi, sebbene certamente nel Theravada abbiamo questi insegnamenti e pratiche. 

È vero che non importa quanto amore e compassione abbiamo per gli altri e quanto cerchiamo di aiutarli: in ultima analisi tutti devono comprendere la realtà per se stessi e liberarsi delle cause dei loro problemi. Nessuno può farlo per qualcun altro. È molto importante lavorare davvero per liberarci della nostra confusione, la fonte dei nostri problemi ed è assolutamente essenziale se vogliamo cercare di aiutare gli altri. Se proviamo a seguire istantaneamente fin dall’inizio il sentiero Mahayana, questo scopo avanzato, allora potremmo cercare di aiutare altre persone, ma se non lavoriamo anche per liberarci della nostra confusione, allora aiutare gli altri potrebbe diventare un grande viaggio dell’ego. Ci affezioniamo molto a coloro che stiamo cercando di aiutare e, se non seguono i nostri consigli o non migliorano, ci arrabbiamo. Se funziona, vogliamo che ci apprezzino, ci amino e ci ringrazino e tutto questo; è un grande viaggio dell’ego. 

Questo è un grosso ostacolo per riuscire davvero ad aiutare gli altri. Dobbiamo lavorare su noi stessi emotivamente, non solo sulle nostre emozioni in termini di sviluppo di amore e compassione ma anche liberarci da attaccamento, rabbia, impazienza, questo genere di cose. Lo scopo intermedio è necessario come fase per sviluppare un livello stabile di pratica mahayana. 

Bodhicitta come via d’accesso per lo scopo avanzato 

(5) Chiunque desideri pienamente eliminare in toto tutte le sofferenze degli altri proprio come farebbe per le sofferenze incluse nel proprio continuum mentale è qualcuno [che possiede] la motivazione suprema. 

Nello scopo intermedio vogliamo eliminare tutte le sofferenze che sono incluse o sperimentate nel nostro continuum mentale, il che significa anche liberarci delle cause della sofferenza. Nello scopo avanzato vogliamo “eliminare in toto” – in toto significa dalla radice, le cause e così via, “tutte le sofferenze degli altri”, come per le nostre sofferenze. 

In altre parole, le prendiamo su di noi come se fossero nostre desiderando eliminarle nello stesso modo in cui vorremmo eliminare le nostre e le loro cause. Riconosciamo il fatto che siamo tutti uguali nel senso che tutti vogliono essere felici, nessuno vuole essere infelice, e siamo tutti uguali nella nostra esperienza dei problemi del samsara: alti e bassi, rinascite ricorrenti incontrollabili e così via. Come dice Shantideva, la sofferenza deve essere eliminata non perché è la mia o perché è la tua sofferenza. La sofferenza deve essere eliminata semplicemente perché è sofferenza e fa male, non ha un padrone. 

È come se vivessimo in un condominio e nel corridoio al piano di sotto ci fosse della carta o della spazzatura sul pavimento, quella carta o spazzatura deve essere raccolta e gettata via, non perché è caduta a me o a te, ma perché è lì e deve essere pulita. Questo è il modo di pensare. Semplicemente la raccogliamo e la buttiamo via. Non è che “Questi vicini terribili che lasciano sempre carte sul pavimento” e pensare a me come un santo e meraviglioso “Devo sempre pulire le cose degli altri” e “Quanto sono meraviglioso, sono un angelo, sto pulendo”. Niente del genere. È semplicemente lì sul pavimento, quindi naturalmente la raccogliamo perché va fatto. A tutti piace un corridoio pulito. 

È la stessa cosa quando aiutiamo gli altri a eliminare i loro problemi. Se qualcuno non capisce qualcosa, o noi non capiamo qualcosa, lo spieghiamo; non importa chi sia la persona, spieghiamo. Se qualcuno ha bisogno di aiuto, aiutiamo se è possibile. Con questo tipo di scopo pensiamo in termini di aiutare tutti, non solo poche persone, non solo quelle che ci piacciono − vorremmo essere in grado di eliminare le sofferenze e i problemi di tutti, come faremmo con noi stessi. Questo è uno scopo enorme “E non mi arrenderò, ma continuerò a cercare di aiutare tutti a liberarsi da tutti i loro problemi”, e così via. 

Ciò significa che, con questo scopo avanzato o supremo, sviluppiamo bodhicitta basata su amore e compassione. L’amore è il desiderio che gli altri siano felici e abbiano le cause della felicità; la compassione è il desiderio che gli altri siano liberi dalla sofferenza e dalle sue cause. Poi, c’è la risoluzione eccezionale “Mi assumerò la responsabilità di aiutarli effettivamente a raggiungere questo”, e realizzare che l’unico modo in cui saremo pienamente in grado di farlo è diventando illuminati, non solo ottenendo la liberazione. Questo perché, se siamo solo liberati dai nostri problemi e dalle loro cause, le nostre menti sono ancora limitate. 

Siamo un po’come sottomarini che guardano attraverso un periscopio. Anche come esseri liberati siamo ancora in grado di percepire solo ciò che è davanti al periscopio, ciò che è davanti ai nostri occhi. Anche se non abbiamo problemi con ciò che percepiamo, non possiamo vedere ciò che è dietro di noi, gli effetti futuri del nostro comportamento né tutto ciò che è venuto prima e che ha influenzato ciò che sta accadendo ora. Anche se potremmo essere in grado di percepire più delle persone comuni perché siamo più sviluppati e liberati, ancora osserviamo i fenomeni attraverso un periscopio. Potremmo veder molto, ma è pur sempre limitato da un periscopio. 

Ciò che vogliamo è “Devo diventare illuminato, un Buddha, per liberarmi di questa visione a periscopio per poter percepire tutto di tutti. Voglio liberarmi non solo dagli oscuramenti delle emozioni disturbanti che impediscono la liberazione, ma anche da quelli che mi impediscono di sapere tutto sul karma, sulle relazioni e “se ti insegno questo, che effetto avrà su di te?” e così via. Non solo “che effetto avrà su di te?” ma “che effetto avrà su tutti gli altri con cui interagisci e poi su tutti gli altri con cui interagiscono... per sempre”. 

Questa è l’illuminazione, la liberazione da tutte quelle oscurazioni, dal periscopio. Vogliamo raggiungere questo stato per poter essere di massimo beneficio per tutti, tuttavia, ci rendiamo conto che possiamo aiutare solo coloro che sono ricettivi. Un Buddha non può semplicemente eliminare la sofferenza di tutti con il suo potere; se ciò fosse possibile, tutti sarebbero già liberi. Comprendiamo la realtà di causa ed effetto e cosa siamo effettivamente in grado di fare. Abbiamo un’idea realistica di come saremo in grado di aiutare gli altri una volta che saremo illuminati. 

Quando parliamo di bodhicitta, l’intenzione principale da cui partiamo è “Devo essere in grado di aiutare gli altri il più possibile” e poi ci rendiamo conto che “Beh, per essere in grado di farlo ho bisogno di diventare illuminato”. Bodhicitta è uno stato mentale che è focalizzato sull’illuminazione, ma non sull’illuminazione in generale o su quella di Buddha Shakyamuni bensì sulla nostra illuminazione che raggiungeremo in futuro, l’illuminazione individuale del nostro continuum mentale. 

Questa intenzione - raggiungerla il prima possibile perché allora saremo davvero in grado di aiutare gli altri - deve essere associata alla fiducia che “io posso raggiungere in futuro quell’ottenimento”, che è uno stato possibile del nostro futuro continuum mentale e che è totalmente possibile per noi ottenerlo. Senza questo, è solo un bel desiderio ma non è pratico, non è sincero. È molto importante avere una chiara comprensione di bodhicitta. 

(6) Per questi esseri venerati che sono giunti a desiderare l’illuminazione suprema, io spiegherò i metodi perfetti che sono stati mostrati dai guru. 

Atisha chiama “esseri venerati”, sacri, coloro che hanno davvero il “desiderio della suprema illuminazione”, il che dimostra davvero un grande rispetto. Si riferisce a chi mira alla propria illuminazione e lavora il più duramente possibile per ottenerla perché vuole essere in grado di aiutare al massimo gli altri; per quelle persone, quindi, “spiegherò i metodi perfetti” per raggiungere quell’illuminazione nel modo “che sono stati mostrati dai guru”. Non è una sua invenzione, quelle persone sono davvero degne di rispetto. Non mostriamo rispetto solo a chi ha raggiunto questo, ma a noi stessi in termini del nostro potenziale per raggiungerlo.

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