Diversità delle visioni della vacuità di sé e vacuità d’altro dei sistemi filosofici

Revisione 

Ieri abbiamo iniziato la nostra discussione sul tema della vacuità di sé e d’altro e visto che è estremamente importante avere una comprensione della vacuità per superare le sofferenze del samsara, soprattutto nel contesto delle quattro nobili verità.

Abbiamo anche visto che, in generale, la vacuità di sé è un’assenza di qualcosa di impossibile: non esistono cose del genere. La vacuità d’altro si riferisce alla mente di chiara luce che è priva di altri fenomeni. La quarta nobile verità, la vera mente del sentiero per raggiungere un vero arresto della vera sofferenza e delle sue vere cause o vere origini, è la cognizione non concettuale - con la mente di chiara luce - della vacuità di ciò che è impossibile. Questo è quanto abbiamo trattato finora. 

La diversità delle presentazioni dei sistemi filosofici indiani della vacuità di ciò che è impossibile 

Forse uno degli aspetti più difficili e complicati dello studio della vacuità di ciò che è impossibile è che ci sono diverse presentazioni di ciò da parte dei sistemi filosofici buddhisti indiani. Solitamente quattro sono detti essere i principali: Vaibhashika e Sautrantika tra i sistemi Hinayana, Cittamatra e Madhyamaka tra quelli Mahayana e, all’interno di Madhyamaka, Svatantrika, Prasangika e in alcuni casi anche Maha-Madhyamaka. Questo è abbastanza complicato; tuttavia, ciò che lo rende ancora più complesso è che ciascuna tradizione tibetana ha la sua interpretazione di ciascuno di questi quattro sistemi indiani. Anche all’interno di ciascuna tradizione tibetana ci sono diverse interpretazioni da parte di diversi grandi maestri dei diversi monasteri. Ciò lo rende estremamente complesso. Nonostante queste varie interpretazioni, tutti concordano sul fatto che la distinzione tra vacuità di sé e vacuità d’altro viene delineata nel contesto di Madhyamaka. 

Quando studiamo un particolare sistema, dobbiamo stare molto attenti a non commettere l’errore di pensare che questo sia ciò che tutti affermano e credono perché, se lo facessimo e poi sentissimo una spiegazione diversa da un altro insegnante di un’altra tradizione o di un altro monastero, saremmo terribilmente confusi. 

Molti fornai diversi potrebbero preparare lo stesso tipo di torta, ma ognuno la prepara in modo leggermente diverso. Ognuna delle torte prodotte è deliziosa, seppur tutte leggermente diverse. I vari sistemi filosofici e le loro spiegazioni sono come questa analogia. Possiamo comprendere questa proliferazione di diversi sistemi e spiegazioni, tuttavia, in termini del metodo di insegnamento del Buddha con mezzi abili. Persone diverse hanno retroterra diversi, capacità diverse, diversi livelli di intelligenza e di preparazione, e quindi non possiamo spiegare a tutti allo stesso modo. Dobbiamo spiegare in modo diverso per soddisfare le loro esigenze. 

Come viene sottolineato, in particolare in Tibet, questi sistemi buddhisti indiani costituiscono un sentiero graduale: per comprendere davvero la spiegazione più sofisticata è necessario lavorare sui sistemi meno sofisticati. Nel farlo, ci concentriamo sulla presentazione più profonda della vacuità ottenendo una comprensione progressivamente sempre più raffinata con ogni sistema. 

Inoltre, anche in India c’erano molte tradizioni di spiegazione trovate nei grandi commentari dei maestri del Nalanda, che furono trasmesse al Tibet e tradotte da persone diverse in tempi diversi. Ciò ha portato a molti diversi lignaggi di questi testi. A causa di questi diversi lignaggi indiani anche di uno stesso testo, in Tibet si sono sviluppati molteplici modi per comprendere questo materiale. Sia la letteratura indiana che quella tibetana contengono molti dibattiti sull’interpretazione delle affermazioni dei vari sistemi filosofici, e quindi dobbiamo comprenderne lo scopo. Sebbene a volte i partecipanti ai dibattiti usino un linguaggio forte, come chiamarsi idioti a vicenda, tuttavia, non dobbiamo porre l’enfasi su questo, poiché a volte le persone si eccitano molto in un dibattito anche quando è in forma scritta. 

Secondo la spiegazione tradizionale, Buddha insegnò tutte queste posizioni con l’unico scopo di aiutare gli altri a superare la sofferenza e non per aumentare l’ignoranza e la confusione delle persone, o per incitare discussioni nel dibattito. Questo è un punto importante da ricordare. Gli insegnamenti sulla vacuità in ogni sistema buddhista, se compresi correttamente, aiutano a diminuire la sofferenza. 

Studiare le diverse affermazioni sulla vacuità nei sistemi filosofici in un ordine graduale

L’unica domanda è se la comprensione di una certa spiegazione della vacuità possa eliminare tutta la sofferenza ai livelli più profondi o solo i livelli iniziali dei tipi di sofferenza più grossolani. Se è quest’ultimo il caso, allora prima di poter affrontare i tipi di sofferenza più sottili, dobbiamo diminuire quelli più grandi. Questi sistemi filosofici “più semplici” sono molto importanti per quel primo compito. I tibetani nel loro approccio a questo materiale hanno sottolineato - e abbiamo già un precursore di questo in India - che questi sistemi devono essere studiati in un ordine graduale. Non iniziamo con la spiegazione più avanzata e sofisticata perché, senza aver prima lavorato sui sistemi più semplici, allora di solito non capiamo davvero il sistema sofisticato e ne perdiamo completamente i benefici. 

Quando passiamo da un sistema al successivo è perché i dibattiti ci hanno aiutato a comprendere alcune incongruenze logiche nel sistema più semplice. In altre parole, dobbiamo tutti lavorare prima con i sistemi meno complessi, iniziando con quello Vaibhashika. È molto utile farlo: padroneggiare le asserzioni di questo sistema ci aiuterà a diminuire la nostra sofferenza. Tuttavia, quando andiamo più a fondo, non è che vogliamo gettare le asserzioni di Vaibhashika dalla finestra come qualcosa di inutile, ma vediamo che ci sono alcune incongruenze logiche in esso e qui c’è un sistema più sofisticato, prima quello Sautrantika e poi quello Cittamatra, che hanno un po’ più senso. In questo modo, quando siamo pronti a capire, passiamo al sistema successivo. 

Se ci avviciniamo ai sistemi filosofici indiani studiandoli in un ordine graduale, potremmo chiederci “Seguiamo la stessa procedura nello studio delle diverse interpretazioni di questi sistemi filosofici indiani da parte dei diversi lignaggi tibetani? Formano un ordine graduale?”. No, non è la stessa cosa. Non dobbiamo studiarli tutti per ottenere la liberazione o l’illuminazione. Tuttavia, se vogliamo davvero essere in grado di insegnare e aiutare tutti, è molto importante conoscere i diversi sistemi tibetani con i loro diversi modi di spiegare. Diciamo che, come insegnante, se qualcuno di una tradizione con cui non abbiamo molta familiarità viene e ci fa una domanda, allora non saremo in grado di rispondere se non siamo familiari con questi altri modi di spiegare. Naturalmente, potremmo indirizzarli a un insegnante diverso ma, se vogliamo davvero diventare un Buddha, dobbiamo poter rispondere alle domande di tutti su tutto ciò che riguarda il Dharma e quindi è utile essere consapevoli di tutti i diversi sistemi. Non è facile. 

Come relazionarsi ai dibattiti tra i maestri dei diversi sistemi

Se leggiamo i commentari tibetani in cui si dibatte continuamente sulle affermazioni delle diverse tradizioni tibetane, potrebbero sembrarci un duello mortale tra gladiatori. Ma possiamo guardare a questi dibattiti in modo molto più gentile, poiché ogni maestro di ogni tradizione cerca di aiutare le persone a chiarire la loro comprensione sottolineando certe incongruenze o certe inadeguatezze nelle spiegazioni alternative di altri maestri. Potrebbero anche evidenziare posizioni estreme da evitare. 

Ci sono due problemi qui. Uno è che tutta questa discussione sulla vacuità, ad esempio, comporta un’enorme quantità di terminologia tecnica, e ogni tradizione e ogni autore tende ad avere definizioni diverse per gli stessi termini. In una discussione, se non rendiamo chiare le diverse definizioni, allora spesso accade che interpoliamo la nostra definizione di un termine sull’uso di quel termine in un altro sistema in cui viene definito in modo diverso e, di conseguenza, ciò che dicono non ha assolutamente alcun senso. Gran parte del dibattito riguarda questo. Ma queste critiche ad altri sistemi possono essere avvertimenti “Se usiamo il tuo termine con la nostra definizione, allora non ha davvero alcun senso. Quindi fai attenzione e definisci i tuoi termini in modo preciso ed esplicito”. 

Inoltre, molte di queste spiegazioni tibetane si basano sull’esperienza meditativa di grandi maestri. Sebbene possano aver avuto esperienze completamente valide e aver ottenuto in modo autentico i risultati della loro pratica, tuttavia, come sottolinea Sua Santità il Dalai Lama, non erano tutti ugualmente abili nello spiegare ciò che sperimentavano. Alcuni di loro hanno scritto e spiegato molto chiaramente, altri meno chiaramente. Questa è spesso la fonte del problema: alcuni di questi maestri semplicemente non hanno scritto molto bene. 

Ci sono molti punti che seguono da questo, ma uno significativo che deriva dal fatto che diversi maestri di meditazione hanno avuto esperienze di meditazione diverse è che, anche se seguiamo una particolare tradizione con il testo e le spiegazioni di uno dei grandi maestri del lignaggio, e lo troviamo molto utile, ciò non significa affatto che la nostra esperienza meditativa sarà la stessa di quel maestro, potrebbe essere molto diversa. Lo vediamo ripetutamente negli esempi storici in cui Tsongkhapa, ad esempio, ebbe una comprensione e una realizzazione completamente diverse da quelle dei suoi insegnanti. Naturalmente, se abbiamo un’esperienza di meditazione diversa da quella dei maestri del lignaggio che abbiamo studiato o dei grandi maestri con cui abbiamo studiato personalmente, ciò non significa che la nostra realizzazione sia necessariamente corretta. Deve sempre essere verificata per vedere se è valida o meno. Ha effettivamente prodotto il risultato previsto? 

Una grande teoria unificata delle varie asserzioni dei diversi sistemi filosofici

Uno dei grandi interessi di Sua Santità il Dalai Lama, tuttavia, è quello di cercare di elaborare una cosiddetta “grande teoria unificata” delle affermazioni delle varie tradizioni tibetane. Senza negare che abbiano interpretazioni davvero contraddittorie di certi punti - e che sia corretto che siano contraddittorie - tuttavia, per quanto riguarda i punti principali, si adattano tutti insieme non in termini del mio sistema ghelugpa o del mio sistema nyingma, ma nel senso che sono tutti modi ugualmente validi di spiegare i punti principali da diversi punti di vista. 

Questo tocca un punto molto delicato. Di solito, è descritto in termini di come le diverse religioni si relazionano tra loro e interagiscono ma, anche nel Buddhismo, di come le diverse tradizioni si relazionano e lavorano tra loro. Potremmo avere un punto di vista esclusivista “Solo il nostro sistema è corretto. Tutti gli altri, se seguite il vostro sistema, andrete all’inferno”. In alternativa, potremmo avere un punto di vista più inclusivo “Beh, la tua comprensione ha alcune cose in comune con la nostra, ma è inferiore e la nostra è suprema”. Dobbiamo esaminare se sosteniamo una di queste opinioni o un punto di vista pluralista parimenti rispettoso delle affermazioni di tutti i sistemi. 

Sebbene non siamo ancora entrati nei dettagli della vacuità di sé e d’altro penso che questi punti siano importanti. Anche se non abbiamo capito - e non saremo ancora in grado di capire - le spiegazioni dettagliate che seguiranno, almeno sentirne parlare ci ispirerà a intraprendere questo tipo di studio. 

In questo materiale buddhista, troviamo, in realtà, tutti e tre gli approcci al dialogo interreligioso. Scopriamo che il punto di vista buddhista sulle affermazioni non buddhiste – come sull’atman (il sé) - è che sono semplicemente sbagliate, quindi è piuttosto esclusivista. In merito ai sistemi filosofici buddhisti indiani è più inclusivo: tutti sono molto utili e ci sono alcuni aspetti in comune che formano un sentiero graduale e il nostro sistema Prasanghika è ciò di cui hai veramente bisogno per ottenere la liberazione e l’illuminazione. Ma l’approccio di Sua Santità il Dalai Lama alle varie tradizioni tibetane è più pluralista: tutti sono ugualmente validi come metodi per ottenere la liberazione e l’illuminazione. Quindi, distinguere chiaramente tra diversi approcci ai diversi materiali sulla vacuità di sé e d’altro ci aiuta a essere meno confusi al riguardo. 

Credo che questo sia sufficiente come introduzione al materiale, addentriamoci ora nel cuore della questione. 

Il significato del termine “vacuità” in vacuità di sé e d’altro 

Qui la parola vacuità significa assenza di qualcosa. Nella vacuità di sé si riferisce all’assenza di qualcosa di impossibile - non esiste una cosa del genere. Ognuno dei sistemi indiani spiegherà diversi livelli di ciò che è impossibile, e nessuno di essi è mai esistito o addirittura esisterà perché ognuno è totalmente impossibile. Inoltre, molte delle tradizioni tibetane spiegano le affermazioni di questi sistemi indiani in modo diverso l’una dall’altra.

Alcune persone traducono la vacuità come “vuoto”, ma io preferisco usare la parola vacuità; “vuoto” dà l’impressione che ci sia qualcosa di trovabile che è vuoto di qualcosa di impossibile, come un bicchiere che non contiene un mostro. Sebbene questa connotazione possa adattarsi alle affermazioni dei sistemi di principi meno sofisticati, è totalmente inappropriata per i prasanghika. Pertanto, per evitare confusione non uso “vuoto” per la vacuità di sé in nessuno dei sistemi.

Il termine vacuità di sé significa assenza di un’auto-natura (rang-bzhin), un’auto-natura impossibile. La parola qui è la forma abbreviata di auto-natura o, più compiutamente, una natura auto-stabilita. Ciò significa una natura che è reperibile dalla parte di un oggetto che ha il potere di stabilire qualcosa di impossibile. 

  • L’interpretazione prasanghika-ghelug afferma che l’impossibile cosa che una natura auto-stabilita stabilisce è l’esistenza auto-stabilita di qualcosa. 
  • L’interpretazione prasangika non ghelug afferma che l’impossibile cosa che una natura auto-stabilita stabilisce sono gli oggetti convenzionali stessi, i quali sono tutti auto-stabiliti. 

Quando parliamo di vacuità d’altro, ciò che è assente sono cose che sono estranee o non appartengono alla mente di chiara luce. A seconda della tradizione tibetana, i fenomeni che sono assenti possono essere altri livelli della mente stessa, i tipi di oggetti riconosciuti da questi altri livelli della mente, o il modo di esistere di questi altri livelli mentali. Le varie tradizioni tibetane differiscono anche per quanto riguarda la modalità di esistenza della mente di chiara luce. 

Tutti i sistemi tibetani, tuttavia, affermano ugualmente che, per raggiungere l’illuminazione, dobbiamo confutare ciò che è impossibile con la consapevolezza che non esiste affatto. Poi dobbiamo concentrarci non concettualmente con la mente di chiara luce più sottile sulla vacuità, la totale assenza di ciò che è impossibile. 

Esistono tuttavia alcune ulteriori differenze tra i sistemi ghelug e quelli non ghelug: 

  • I sistemi non ghelug affermano che la vacuità conosciuta concettualmente e la vacuità conosciuta non concettualmente non sono la stessa cosa; quello ghelug afferma che sono la stessa cosa. 
  • Inoltre, quello ghelug sostiene che la mente di chiara luce deve essere trasformata in una mente che riconosce la vacuità di modi impossibili di esistere mentre gli altri sostengono che, per natura, essa ha già questa vacuità come suo oggetto.

Il problema è anche come chiamare queste varie assenze: 

  • Alcune tradizioni tibetane e talvolta solo alcuni maestri all’interno di quei sistemi, usano il termine “vacuità d’altro” per indicare la mente di chiara luce, mentre altre no. 
  • Tra coloro che lo fanno, come abbiamo visto, non c’è uniformità nell’interpretazione degli altri fenomeni di cui la mente di chiara luce è priva.
  • Alcune tradizioni non usano il termine vacuità di sé in riferimento alle proprie affermazioni circa l’assenza di ciò che è impossibile, sebbene altre possano riferirsi a loro come ad assertori della vacuità di sé. 
  • Alcuni sistemi che utilizzano la vacuità di sé la utilizzano solo per l’assenza di ciò che è impossibile e che può essere conosciuto concettualmente, e non per la vacuità non conosciuta concettualmente.

Non è standardizzato e fisso, quindi, a cosa si riferiscono questi termini vacuità di sé e vacuità d’altro e come i vari autori li usano. Tuttavia, questa è la teoria del campo unificato: tutti affermano che la stessa cosa è necessaria per ottenere l’illuminazione - la cognizione non concettuale, con la mente di chiara luce, dell’assenza di ciò che è impossibile. Ecco perché, se vogliamo studiare un autore o un sistema dobbiamo, all’inizio dei nostri studi, imparare le definizioni dei termini principali usati da questo autore e sistema. 

Vacuità di sé 

Parliamo prima di vacuità di sé. Sebbene i ghelugpa non usino questo termine in riferimento a se stessi, molti autori non ghelug lo usano in riferimento alla presentazione ghelug e affermano che si tratta di una vacuità di sé non corretta - non è ciò che affermano come vacuità di sé. Il metodo buddhista, tuttavia, consiste nel comprendere prima cosa qualcosa non è, e poi escluderlo per sapere cosa qualcosa è. Quindi, diamo prima un’occhiata alle affermazioni ghelug sulla vacuità, soprattutto perché sono quelle con cui ho più familiarità. Per i ghelug, ciò che è impossibile che la vacuità confuti sono i modi impossibili di esistere.

Come detto, ci sono livelli di sofisticatezza che dobbiamo superare in termini di comprensione del modo di esistere che è confutato come impossibile da ciascuno dei sistemi indiani: non esiste una cosa del genere. Nei sistemi meno complicati, in particolare, nei sistemi hinayana Vaibhashika e Sautrantika, non troviamo il termine vacuità ma uno diverso. Il termine sanscrito è anatman e significa “mancanza di un’anima impossibile” perché non esiste una cosa del genere; quindi, è simile nella connotazione alla parola vacuità. Non esiste una cosa come un atman, che significa “anima”, definita dai vari sistemi indiani non buddhisti come persona. Sebbene atman possa essere tradotto come “sé” o “identità” e anatman come “mancanza di sé” o “mancanza di identità”, in realtà il termine si riferisce a un’anima che stabilisce un corpo e una mente come persona. 

Solo per inciso, per non confonderci, il termine hinayana è un termine coniato dal Mahayana. Non è un termine molto bello, tuttavia è usato come termine generico per 18 diverse scuole buddhiste. I sistemi di principi Vaibhashika e Sautrantika che i tibetani (e gli indiani da cui hanno derivato questo) studiano sono suddivisioni di una di queste 18 scuole, quella Sarvastivada. Quella Theravada che è presente ora nel Sud-est asiatico e nello Sri Lanka, è un’altra di queste 18. Quindi, non equiparat e Theravada a Vaibhashika e Sautrantika, perché quella Theravada ha delle asserzioni filosofiche completamente diverse. 

La mancanza di un’anima impossibile delle persone e dei fenomeni 

Ora, in termini di anatman – una mancanza di un’anima impossibile, l’anima, atman, nei sistemi mahayana – è qualcosa che è dentro un corpo e una mente che in qualche modo lo attiva, lo rende vivo. È come la scheda sim dentro un telefono cellulare, qualcosa del genere. Possiamo parlare di un’anima impossibile di una persona che in qualche modo la rende viva e funzionante, oppure possiamo parlare di un’anima impossibile di un fenomeno che in qualche modo, al suo interno, stabilisce che esiste e funziona. Pertanto, abbiamo la terminologia una mancanza di un’anima impossibile delle persone (gang-zag-gi bdag-med) e una mancanza di un’anima impossibile dei fenomeni (chos-kyi bdag-med) in generale, come il tavolo, una gamba del corpo o una mente. 

Sebbene possa suonare un po’ strano parlare di anime impossibili in relazione a tutti i fenomeni questa è, in effetti, la terminologia che viene usata, e ha un significato; non è solo un uso sciocco e irresponsabile delle parole. Dobbiamo sempre tornare all’assioma di base qui, che Buddha non era stupido e non insegnava cose stupide. Scelse le parole perché hanno un significato che aiuta le persone a superare la sofferenza. Come amava sottolineare il mio insegnante Serkong Rinpoce, è estremamente arrogante pensare “Buddha non l’ha spiegato molto bene, posso spiegarlo molto meglio con le mie parole e il mio uso della terminologia”. 

I sistemi hinayana parlano solo di una mancanza di un’anima impossibile delle persone. La mancanza di un’anima impossibile di tutti i fenomeni è affermata solo nel Mahayana, che parla sia di una mancanza di un’anima impossibile delle persone che di tutti i fenomeni. Ma sebbene i sistemi hinayana non parlino di una mancanza di un’anima impossibile dei fenomeni, descrivono i modi in cui certi tipi di fenomeni esistono e non esistono. Un Buddha capirebbe tutto questo, secondo i sistemi hinayana, ma non lo chiamerebbe mancanza di un’anima impossibile, o vacuità, o qualcosa del genere. 

In questi sistemi hinayana la comprensione della realtà di un Buddha e di un arhat, un essere liberato, è fondamentalmente la stessa; è solo che un Buddha sa di più, sa come condurre tutti alla liberazione e un arhat no. 

Nei sistemi mahayana la mancanza di un’anima impossibile delle persone si riferisce a tipi di anime impossibili che nessuno ha, e bisogna comprendere quella mancanza, o assenza, per raggiungere la liberazione come arhat. Quindi, per raggiungere l’illuminazione, dobbiamo comprendere l’anima impossibile dei fenomeni, che è un modo di esistere più sottile e impossibile. Questo è ciò che viene chiamato vacuità in questi sistemi, e si applica non solo agli oggetti fisici e cose del genere, ma anche alle persone. Questo va compreso per raggiungere l’illuminazione. 

Ciò che è impossibile rispetto alle persone e ciò che è impossibile rispetto a tutti i fenomeni (incluse le persone) sono diversi per tutti i sistemi filosofici mahayana, eccetto quello Prasanghika. Pertanto, secondo tutti, eccetto Prasanghika, i modi impossibili di esistere negati dalla vacuità che dobbiamo comprendere per ottenere la liberazione e l’illuminazione sono diversi. La scuola Prasanghika, d’altro canto, afferma che il modo di comprendere impossibile da confutare è lo stesso per entrambi i conseguimenti. L’unica differenza tra le interpretazioni tibetane di questo punto è che per i non-ghelugpa, per ottenere la liberazione, quella comprensione non deve applicarsi a tutti i fenomeni ma solo ad alcuni, mentre per i ghelug deve essere intesa come applicabile equamente a tutti i fenomeni per ottenere la liberazione o l’illuminazione. 

In altre parole, secondo i prasanghika, con la comprensione meno completa della mancanza di un’anima impossibile delle persone che i non-prasanghika affermano - e che è corretta - non otterremo la liberazione, avremo comunque un livello molto sottile di inconsapevolezza (ignoranza) ed emozioni disturbanti. Per liberarcene, anche per ottenere la liberazione, dobbiamo ottenere la piena comprensione della vacuità di tutti i fenomeni, come applicabile anche alle persone. 

Ora, questo non è solo un fatto interessante sui diversi sistemi filosofici; ha una grande implicazione per la nostra pratica. L’implicazione è che la fonte principale (potrebbe non essere la fonte esclusiva, ma la fonte principale) delle nostre emozioni disturbanti - rabbia, avidità, attaccamento, ecc. - è un malinteso che abbiamo su come esistiamo come persone, ed è quello su cui dobbiamo lavorare per primo. Quindi, se il nostro computer si blocca, la cosa principale su cui dobbiamo concentrarci non è tanto la vacuità del computer, ma la vacuità di me che sono così arrabbiato per il mio possesso. Io, io, io, “Ora, cosa farò?”. E se il nostro amico ci lascia, o fa qualcosa che non ci piace, ciò su cui dobbiamo lavorare per primo non è la vacuità del nostro amico, non la vacuità della mente, del pensiero o di tutto ciò, ma la vacuità di me che sono così arrabbiato. “Tutti dovrebbero fare ciò che io voglio perché io sono il più importante e io sono il centro dell’universo”. Lavoriamo prima sull’idea sbagliata su noi stessi, perché è la fonte principale della nostra sofferenza. Questo è ciò che impariamo da ciò che ho appena spiegato su tutti questi sistemi filosofici. 

Quando il nostro computer si rompe, potremmo capire “Ah, sì, è stato fabbricato. È impermanente. Tutto ciò che è fabbricato alla fine si romperà”. “Cos’è il computer? È questo tasto? È quel tasto? È qualcosa di separato dai tasti?”. Non riusciamo a trovare un computer auto-stabilito - non esiste una cosa del genere - e quindi neghiamo l’esistenza auto-stabilita del computer, ma ci ritroviamo comunque con un grande e solido me auto-stabilito che è arrabbiato e che sarà di nuovo arrabbiato per il prossimo computer che si romperà. È la stessa cosa con il nostro amico. Potremmo capire che ha agito sotto l’influenza di emozioni disturbanti, del suo passato e di altre cose che stanno succedendo nella sua vita. Con cosa sono arrabbiato? Con la mente, il corpo e così via. Possiamo decostruire l’amico e l’incidente ma, se non abbiamo analizzato me, allora rimarremo comunque bloccati con il me che può arrabbiarsi per il prossimo incidente che accade e per il prossimo amico. 

Ecco perché troviamo sempre nelle istruzioni della meditazione sulla vacuità che, all’inizio, dobbiamo applicare la nostra comprensione della vacuità al sé, in particolare a noi stessi, perché è più facile da capire, e poi applicarla a tutti i fenomeni. Quindi, quando abbiamo acquisito maggiore familiarità con la meditazione sulla vacuità in questo modo, allora ci concentriamo prima sulla vacuità dei fenomeni, in particolare sugli aggregati, quindi sul nostro corpo e sulla nostra mente e poi, sulla base della comprensione di essi come privi di un’esistenza auto-stabilita, possiamo aggiungere “E non c’è nessun me auto-stabilito che sperimenta questi aggregati”. Questa è la seconda fase della pratica, non la prima. 

Pertanto, se vogliamo provare a praticare la meditazione sulla vacuità, è importante conoscere le istruzioni, l’ordine in cui facciamo le cose e capire perché. Dopo tutto, se prendiamo sul serio questo materiale, vogliamo praticarlo correttamente. Le persone lavorano con questo materiale da 2500 anni, quindi possiamo trarre beneficio dalla loro esperienza. 

I due tipi di emozioni disturbanti e di afferrarsi 

Dai sautrantika ai prasanghika, i filosofi buddhisti indiani affermano due livelli di anime impossibili delle persone; invece, i vaibhashika affermano solo il primo. Corrispondenti a questi due livelli, i sistemi non-vaibhashika affermano due tipi di emozioni disturbanti e due tipi di afferrarsi a modi impossibili di esistere. Uno è chiamato basato sulla dottrina (kun-brtags); si basa sull’aver appreso e accettato le affermazioni di uno dei sistemi indiani non buddhisti riguardanti le persone o sull’aver appreso e accettato le affermazioni di uno dei sistemi buddhisti indiani meno sofisticati riguardanti tutti i fenomeni. Queste non sono le emozioni disturbanti che chiunque, anche il cane, potrebbe avere; dobbiamo aver studiato uno di questi sistemi e accettato le loro dottrine, e quindi sono “basate sulla dottrina”. L’altro livello sorge automaticamente (lhan-skyes), anche il cane ha queste emozioni disturbanti, non dobbiamo insegnargli a ringhiare e ad arrabbiarsi quando qualcuno cerca di portargli via l’osso. Nessuno ha dovuto insegnarglielo. 

Ora, per quanto riguarda le emozioni disturbanti e l’afferrarsi basati sulla dottrina, penso che sia piuttosto fuorviante chiamarle “acquisite intellettualmente”, non devono necessariamente coinvolgere l’intelletto. “Intellettualmente” implica che comprendiamo razionalmente qualcosa in termini di un sistema concettuale complesso; non è  necessariamentcosìe. Potrebbe essere che qualcuno ci abbia insegnato il dogma di un qualche sistema religioso; non lo capiamo intellettualmente, ma lo accettiamo per fede cieca, ci identifichiamo con esso come la mia religione, le mie convinzioni e ci arrabbiamo con chiunque sfidi la nostra religione o le nostre convinzioni. 

Ecco di cosa stiamo parlando. Non deve essere intellettuale, giusto? Dobbiamo essere stati indottrinati da qualche fede per poter andare a combattere in una guerra di religione per difendere quella fede a cui siamo molto legati e di cui siamo orgogliosi. Tali emozioni disturbanti sono diverse da quelle che sorgono automaticamente e che ha anche un cane. Un cane non andrà a combattere per una religione. Capite la differenza tra questi due tipi di emozioni disturbanti? 

Questo è solo un livello iniziale di identificazione di cosa potrebbero essere le emozioni disturbanti basate sulla dottrina. Più specificamente, sono quelle che sorgono in base all’essere stati istruiti e credere che esistiamo nel modo dell’atman, l’anima, che è affermato da uno dei sistemi non buddhisti. Sorgono in base al pensare a noi stessi come esistenti come tale atman

Quindi, l’afferrarsi è dottrinale e automatico ad anime impossibili di persone e le emozioni disturbanti che sorgono dall’identificarci come esistenti in quel livello di anima impossibile. Per prima cosa, ci liberiamo delle emozioni disturbanti che sono dottrinali, fondamentalmente comprendendo che le affermazioni del sistema che abbiamo accettato non hanno alcun senso: sono autocontraddittorie. Anche se non capissimo intellettualmente le dottrine del sistema per cui stiamo combattendo una guerra, tuttavia, per rinunciare alla nostra identificazione con questo sistema e con il tipo di atman che afferma, dobbiamo essere convinti che le sue affermazioni sono errate, non corrispondono alla realtà. Tuttavia, per liberarci della rabbia, dell’attaccamento, dell’avidità, ecc., che sorgono automaticamente e che persino il cane ha, richiede molto più lavoro e sforzo. Questo è più difficile e viene dopo. 

È molto interessante, perché c’è un’intera discussione su cosa succede se non abbiamo mai studiato in questa vita nessuno di questi sistemi di principi indiani non buddhisti. Abbiamo ancora emozioni disturbanti basate sulla dottrina? È ancora ciò di cui ci liberiamo quando diventiamo arya? Potremmo dire emozioni disturbanti basate sulla dottrina che si basano su sistemi di pensiero occidentali? È molto allettante affermarlo, ma questo ignora la rinascita senza inizio. 

I commentari tibetani spiegano che in realtà tutti hanno l’afferrarsi e le emozioni disturbanti dottrinali, anche se non hanno studiato o appreso tali sistemi in questa vita perché devono averli studiati e accettati in qualche vita precedente. Proprio come ci sono sempre Buddha che insegnano la dottrina da qualche parte nella moltitudine di universi, ci sono sempre maestri non buddhisti che insegnano. Questa è la spiegazione. 

Quindi, tutti hanno questo afferrarsi ad anime impossibili ed emozioni disturbanti basati sulla dottrina, indipendentemente dal fatto che abbiano studiato e accettato uno dei sistemi indiani non buddhisti in questa vita. Potremmo aver ricevuto insegnamenti e accettato come veri gli insegnamenti solo su alcune delle caratteristiche dell’anima affermate da qualche sistema non indiano e avere emozioni disturbanti che sorgono in base alla nostra identificazione con queste affermazioni, ma queste dovrebbero essere chiamate apparenti afferrarsi ed emozioni disturbanti basati sulla dottrina. Non sono quelli effettivamente definiti, semplicemente simili a loro. 

Se osserviamo l’elenco delle caratteristiche individuali dell’atman su cui si basano queste emozioni disturbanti e l’afferrarsi dottrinali, scopriamo che abbiamo molte asserzioni simili sull’anima o sul sé nei nostri sistemi religiosi occidentali. Ad esempio, molti sistemi religiosi occidentali affermano che un’anima entra nel corpo al momento del concepimento e poi, al momento della morte, esce dal corpo e va in paradiso o all’inferno. Bene, possiamo vedere che questo è abbastanza simile a certi aspetti delle credenze indiane non buddhiste. Potremmo non pensare che quest’anima abbia le dimensioni dell’universo, come l’idea di atman/Brahman, ma abbiamo certi aspetti o parti di questa credenza indiana. Ciò che deve essere confutato qui, tuttavia, è l’intero pacchetto. La credenza occidentale in un’anima che entra nel corpo al momento del concepimento, lo abbandona alla morte e poi va in paradiso o all’inferno è classificata dal Buddhismo come una considerazione errata basata sulla dottrina (tshul-min yid-byed), non come un tentativo dottrinale di credere che l’anima di una persona sia impossibile.

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