Abbiamo esaminato dei metodi per integrare i vari aspetti delle nostre vite. Abbiamo visto che, per gestirli e per seguire il percorso spirituale in modo più sincero, è molto importante avere un’idea chiara di tutti i fattori che sono alla base del fenomeno di imputazione “io”, così da avere una base realistica per la nostra etichettatura concettuale di “io” in termini di chi pensiamo di essere.
L’inconsapevolezza: la vera fonte di tutti i nostri problemi
Quando parliamo delle vere fonti o cause dei nostri problemi, affrontati nella seconda nobile verità, parliamo di ignoranza anche se penso che una traduzione migliore sia “inconsapevolezza” sulle persone e tutti i fenomeni in generale, sulla realtà e anche su causa ed effetto, in particolare causa ed effetto comportamentali in termini di karma.
L’inconsapevolezza sulle persone include sia noi stessi che gli altri. Una persona è un fenomeno di imputazione sulla base di un continuum individuale di fattori aggregati, di solito chiamati i cinque aggregati: corpo, mente, varie emozioni, livelli di felicità, infelicità e così via. In quanto tale, una persona è qualcosa che può essere conosciuto in modo non concettuale, possiamo vedere o ascoltare qualcuno, e questo è un fatto. Come fenomeno di imputazione una persona, io, è legata a questa base, può esistere ed essere conosciuta solo insieme ad essa. Sulla base dell’inconsapevolezza di come esistiamo in questo modo nascono tutti i tipi di emozioni disturbanti. In termini molto generali, consideriamo noi stessi come una sorta di cosa solida, esistente e conoscibile indipendentemente dal nostro corpo, dalla nostra mente, dalle nostre emozioni, cause e circostanze, altri, ecc. e, poiché ciò non corrisponde alla realtà, nasce una sensazione di insicurezza.
È interessante indagare qual è l’equivalente emotivo di questa inconsapevolezza. L’inconsapevolezza è cognitiva: o non conosciamo la realtà o la conosciamo in modo errato. Quindi è cognitivo. Ma, ovviamente, possiamo guardare allo stesso fenomeno da un punto di vista emotivo. C’è la componente emotiva e penso - solo dalla mia personale contemplazione al riguardo - che questa componente è sia confusione che insicurezza. Poi c’è l’ingenuità, anche se è un po’ complicato dire se è un’emozione, un atteggiamento disturbante o altro. In ogni caso, confusi su come esistiamo immaginiamo di essere una specie di entità solida, ci sentiamo insicuri al riguardo e poi cerchiamo di rendere sicuro quell’“io”. Su questa base sorgono varie emozioni disturbanti.
Non dubito se l’ingenuità è disturbante o meno; è disturbante. È una questione se sia un’emozione o un atteggiamento. Potremmo passare molto tempo a discutere degli schemi di classificazione qui. Il problema è che ci sono delle distinzioni molto sottili negli schemi di classificazione usati nel Buddhismo, e diversi maestri hanno definito alcuni degli elementi in essi in modo diverso. In ogni caso, la difficoltà è che non abbiamo uno schema di classificazione simile nella nostra terminologia occidentale che copra ciò che lo schema buddhista include come “klesha” in sanscrito, quindi non è chiaro nella nostra terminologia occidentale se stiamo parlando di emozioni o atteggiamenti. Gli schemi di classificazione occidentali e buddhisti non coincidono esattamente.
In ogni caso, le emozioni disturbanti che nascono dalla nostra inconsapevolezza di come esistiamo come persone includono sia il desiderio o attaccamento, che consiste nell’ottenere cose o nel non lasciar andare ciò che abbiamo, per cercare di rendere sicuro l’“io”. Poi abbiamo anche repulsione, ostilità e rabbia, che consiste nell’allontanare le cose, ancora una volta con la speranza che ciò renda sicuro quell’ “io”. Oppure, siamo ingenui riguardo alle cose perché, ancora una volta, se non consideriamo o neghiamo l’esistenza di qualcosa, in qualche modo pensiamo che saremo al sicuro. In altre parole, è troppo minaccioso guardare davvero più a fondo nella realtà. Naturalmente, tutti questi sono tentativi inutili perché, quando li mettiamo in atto, non ci rendono affatto più sicuri.
L’inconsapevolezza basata sulla dottrina
Quando analizziamo questa inconsapevolezza su come esistiamo, troviamo molti livelli di sottigliezza. Potremmo avere un’inconsapevolezza basata sull’aver ricevuto insegnamenti su certe dottrine di religioni o filosofie indiane non buddhiste e crederci, immaginando che il “me” sia un atman, questo è il termine sanscrito. Questi sistemi accettano la rinascita e ciò che rinasce è l’atman. Continua di vita in vita e ciò che sperimenta è influenzato dal karma. Questi sono sistemi molto indiani.
Questo atman, o anima - forse la cosa più vicina che abbiamo nella nostra terminologia occidentale - ha tre caratteristiche. Tale anima è qualcosa di statico, non cambia mai, non è influenzata da nulla. La sua seconda caratteristica è che è senza parti, il che significa che è un monolite o, secondo alcune scuole, delle dimensioni dell’universo; quindi, dobbiamo solo riconoscere la nostra identità con tutto l’universo senza parti; o è una minuscola scintilla di vita senza parti. Poiché è senza parti, non ha aspetti diversi. E la terza è che questo atman può esistere in modo totalmente indipendente da qualsiasi corpo o mente, in particolare quando raggiunge la liberazione dalla rinascita. Le diverse scuole filosofiche indiane differiranno a seconda che attribuiscano o meno a quest’anima una qualità di coscienza, ma questo è ciò che il Buddhismo chiama “inconsapevolezza dottrinale del sé delle persone”.
Come occidentali, potremmo aver appreso dalla nostra educazione o istruzione religiosa la credenza in un’anima che ha una o l’altra delle componenti di questa descrizione. Ma ciò verrebbe classificato come un tipo di considerazione errata, non l’intero pacchetto. L’intero pacchetto di un’anima che ha queste tre caratteristiche è ciò che viene discusso qui come inconsapevolezza basata sulla dottrina.
L’anima eterna o “io”
Ciò di cui dobbiamo essere consapevoli è che affermazioni come il fatto che esiste un’anima eterna, un sé che non ha inizio né fine, sono accettate anche dal Buddhismo. La domanda è quali siano le caratteristiche di tale sé eterno, l’“io” o l’anima, come vuoi chiamarlo. Anche il Buddhismo usa la stessa parola, atman. Quando nel Buddhismo parliamo di ciò che spesso viene tradotto come “non-sé”, vacuo, privo di sé o privo di identità, in realtà si dice che non esiste un’anima impossibile che possiede le tre caratteristiche che abbiamo appena menzionato: statica, senza parti e indipendente da un corpo e una mente. Ciò non significa che non esista affatto un’anima. Il Buddhismo accetta un “me”, un sé, una persona o un’anima convenzionalmente esistente. Se crediamo fermamente di non avere un sé e che non esiste affatto, sappiamo dalla nostra psicologia occidentale che una persona del genere non può affatto affrontare la vita. Se non abbiamo alcun senso di “io”, allora perché dovremmo alzarci dal letto? Perché dovremmo prenderci cura di noi stessi? Perché dovremmo fare qualcosa? Quindi, il nostro lavoro nell’integrare la nostra vita si concentra sulla base dell’“io” convenzionale, quello che esiste realmente.
Un livello di confusione più profondo che sorge automaticamente è che il “me” è un conoscibile auto sufficiente, il che significa che può essere conosciuto da solo, non simultaneamente con qualche aspetto della sua base. Diciamo “vedo Gabi”, come se stessi solo vedendo Gabi. Ma come posso vederla separatamente dal vedere un corpo che abbiamo chiamato Gabi? Come posso conoscere Gabi senza sapere qualcosa di lei? Se non il nome, almeno un’immagine mentale o qualcosa sulla sua personalità o simile. Tuttavia, il modo in cui ci appare è che conosco Gabi, conosco me stesso, qualsiasi cosa, e questo sorge automaticamente. Le sindromi emotive e psicologiche che derivano o si basano su questo sono come “Voglio che tu mi ami per me stesso, non per il mio corpo, la mia mente, i miei soldi, ma voglio che qualcuno mi ami solo per me”, come se ci fosse un “me” che può essere conosciuto e amato separatamente dalla base.
Forse possiamo tutti riconoscere che questo sorge automaticamente. Ma l’idea che il “me” è grande quanto l’universo ci viene insegnata, non penso ci verrebbe in mente automaticamente. La sensazione di “Voglio che qualcuno mi ami per me stesso” o “Voglio conoscerti”, sorge automaticamente.
Etichettare mentalmente l’“io”
Prima di passare al passaggio successivo dei nostri esercizi, vorrei spiegare un po’ più approfonditamente l’“etichettatura mentale”. Come abbiamo visto, il “me” convenzionale è un fenomeno di imputazione sulla base di un continuum individuale di cinque aggregati. È qualcosa di fattuale, esiste e può essere conosciuto in modo non concettuale. Ti vedo, vedo me, cammino, parlo. Non c’è dubbio. La domanda è come stabiliamo che il “me” esiste? Cosa prova o dimostra la sua esistenza? È qui che entra in gioco l’etichettatura mentale: l’unico modo in cui possiamo stabilire che esiste è in relazione all’etichetta mentale “me”, che è un concetto, o alla parola “me”, che è una parola.
C’è una base - quindi abbiamo i fattori aggregati in continua evoluzione che costituiscono ogni momento della nostra esperienza - e sulla base di essi possiamo etichettare concettualmente “me” o possiamo designarli concettualmente con la parola “me”. “Me” non è la parola o il concetto “me”. Io non sono una parola o un concetto; “me” è ciò a cui il concetto e la parola “me” si riferiscono sulla base di tutte queste cose che cambiano, gli aggregati. La confusione più profonda è che ci sia qualcosa dalla parte degli aggregati in ogni momento, una caratteristica definitoria riscontrabile lì, che mi rende “me”. Mi rende “me” per il suo stesso potere, da solo, o mi rende “me” in relazione all’etichettatura come base per “me”.
Pensando che ci sia qualcosa in ogni momento che mi rende “me” o ti rende “te”, le nostre menti producono automaticamente certi strani pensieri - che “devo trovare me stesso”, “devo conoscere me stesso”. Bene, cosa conosciamo in “conoscere me stesso” o “trovare me stesso”? È una sorta di caratteristica speciale che mi rende “me”. Se analizziamo “Perché ti amo? C’è qualcosa di speciale in te che ti rende speciale, l’oggetto del mio amore e devo averlo”. Così questo malinteso sorge automaticamente: c’è qualcosa di speciale dalla parte di questa persona che la rende speciale, ed è per questo che mi piace o non mi piace. Questa è considerata la forma più sottile di confusione.
Un altro modo di esprimerlo è che c’è qualcosa di solido e rintracciabile nella base, un supporto che, quando ci concentriamo sulla persona, è ciò che la sostiene. Come l’esempio di qualcosa dietro uno schermo che proietta un’ombra.
Guardare la realtà a livello atomico
Possiamo capirlo a un livello molto semplice con una sedia o con il nostro corpo. Se li guardiamo al microscopio elettronico vediamo che sono fatti di atomi, gli atomi sono costituiti di elettroni, campi di forza e così via. Non c’è niente di solido lì che lo renda una sedia o un corpo, trovabile in sè, per suo stesso potere. Restando al livello dell’analisi degli atomi, un passo iniziale nella nostra comprensione della realtà, ciò che è più importante è il “ciononostante”. Quindi, anche se il mio corpo è fatto di atomi, campi di forza ed elettroni e non c’è niente di solido in esso, e la stessa cosa vale per una sedia; ciononostante, non cado attraverso la sedia, in qualche modo la sedia mi sostiene. Quindi, quel “ciononostante” è molto importante ed è la chiave per comprendere la realtà. Niente è trovabile, ciononostante le cose funzionano.
Shantideva lo dice molto bene. Per parafrasarlo, solo quando comprendiamo questo “ciononostante” al livello più semplice – che tutto è fatto di atomi, tuttavia non cadiamo attraverso il pavimento - se comprendiamo che questi due aspetti non sono contraddittori, allora siamo pronti per passare al livello successivo, più sottile, di comprensione. Se non abbiamo questa base, saremo in grossi guai nel tentativo di approfondire: più andremo in profondità, più cadremo nel nichilismo. Penso che possiamo vedere che anche a questo livello di atomi, non è così semplice comprendere davvero il “ciononostante”.
Questa sta diventando una lunga esposizione sulla vacuità, cosa che non avevo realmente intenzione di fare, ma forse è utile. Il motivo per cui ne ho parlato in primo luogo, è che di solito ci concentriamo sull’inconsapevolezza del sé. Per ottenere la nostra prima comprensione della vacuità - vacuità significa assenza di modi impossibili di esistere - prima la comprendiamo in termini di una persona, o sé, perché è più facile. Poi, la guardiamo in termini di tutti i fenomeni statici e non statici - questo si riferisce al fatto che cambino o meno, che siano o meno influenzati da qualcosa. Quando parliamo dei fattori aggregati della nostra esperienza, questi includono solo tutto ciò che cambia, che è non statico. In altre parole, ogni componente della nostra esperienza in questo particolare schema è influenzato da qualcos’altro, è causato da cause e condizioni. Sebbene i fenomeni statici siano anche coinvolti nella nostra esperienza, non sono inclusi nello schema dei cinque aggregati.
Quando abbiamo una comprensione di base della vacuità, allora l’ordine in cui ci concentriamo sulla vacuità nella nostra meditazione è l’inverso. Innanzitutto, pensiamo principalmente in termini dei cinque aggregati, le cose che cambiano; in altre parole, la vacuità della base dell’etichettatura “me”. Quando vediamo che ogni momento della nostra esperienza cambia, tutto è influenzato da altre cose e cambia a velocità diverse, e non c’è nulla di solido lì che rimanga momento per momento in termini di base, allora, ne consegue abbastanza naturalmente che non c’è una cosa solida e rintracciabile, quel “me”, etichettato su di essa. Tutto cambia, tutto è influenzato da un milione di altre cose, tutto è composto da parti e così via. Quindi, non c’è nessun “me” solido su tutto questo.
I tre tempi
Con questa base di etichettatura di “me”, il nostro continuum di esperienze, c’è il passato, ciò che è già accaduto; c’è il presente, ciò che sta accadendo ora e c’è il futuro, ciò che non sta ancora accadendo. Ma non li chiamiamo “passato”, “presente” e “futuro” nel Buddhismo, poiché sono concettualizzazioni del tempo molto diverse. In un certo senso, il quadro concettuale è l’inverso perché prima c’è il “non è ancora accaduto”, poi il “sta accadendo attualmente” e poi “non sta più accadendo”. Questa è una discussione enorme e molto importante sul concetto buddhista di tempo. In realtà, è estremamente cruciale per essere in grado di comprendere e meditare sulla bodhicitta. Ricorda come Tsongkhapa spiega come specificare uno stato che stai cercando di generare nella meditazione: devi sapere su cosa è focalizzato e come la mente si relaziona ad esso.
Bodhicitta ha due momenti: quando diciamo “momento” nell’analisi buddhista intendiamo una fase, non dura solo un istante. La prima fase è focalizzata su tutti gli esseri limitati, assolutamente tutti, con amore e compassione, il desiderio che siano felici e liberi dalla sofferenza. La risoluzione eccezionale è che farò sicuramente qualcosa al riguardo: li condurrò fino alla liberazione e all’illuminazione, non solo li aiuterò superficialmente. Ma poi, il focus principale di bodhicitta è sulla nostra illuminazione individuale, non ancora in atto, che può verificarsi sulla base della natura di Buddha nel nostro continuum mentale. Il modo in cui la mente lo intraprende è con l’intenzione di ottenerlo, in modo che avremmo un’illuminazione in atto nel presente con l’intenzione di aiutare tutti attraverso tale conseguimento.
Naturalmente, dobbiamo capire esattamente su cosa ci stiamo concentrando quando parliamo di un’illuminazione che non sta ancora accadendo. Di sicuro, non è un pacchetto che si trova più in basso nella linea temporale del nostro continuum mentale, che si avvicina sempre di più a noi su un nastro trasportatore del tempo, così che alla fine diventa un’illuminazione che accade nel presente. Non è così.
Questa spiegazione serve solo a indicare l’importanza di comprendere la presentazione buddhista dei tre tempi. È molto, molto significativa. Altrimenti, la nostra meditazione sulla bodhicitta può essere molto vaga. In effetti, molte persone non capiscono veramente su cosa si concentra la bodhicitta, e chiamano la meditazione sulla compassione “meditazione sulla bodhicitta”, ma non lo è. In realtà, è un trampolino di lancio per la bodhicitta, ma non è equivalente. È una base della bodhicitta, ma non della bodhicitta stessa.
Come dicevo, nella meditazione, comprendiamo prima la vacuità della base per etichettare “me”, gli aggregati. Poi il passo successivo nella meditazione, comprendere la vacuità del “me” etichettato su di essa, diventa più facile. Abbiamo bisogno di avere una base appropriata per etichettarlo. Possiamo parlare di tutti gli aspetti problematici che fanno parte di ogni momento del nostro continuum mentale, della nostra esperienza: emozioni disturbanti, la confusione e così via. Analizziamo tutti i fattori causali che hanno influenzato e rafforzato ciò. Questa è sicuramente parte della base per etichettare il “me”. Spesso, ci concentriamo solo su questo nella nostra pratica perché analizziamo sempre in termini di veri problemi e delle loro vere cause. Tuttavia, parte di quella base per etichettare il “me” sono anche tutti gli aspetti più positivi che possono essere sfruttati per raggiungere un’illuminazione non ancora avvenuta. Anche tutti questi aspetti positivi sono sorti da cause, condizioni, dall’influenza di altre persone, del luogo in cui viviamo e di vari fattori nella nostra vita.
L’“io” esiste, ma non l’“io” impossibile
Ora unirò tutti i diversi pezzi di ciò di cui abbiamo discusso. Ricordate, stavamo dicendo che di solito pensiamo a noi stessi in termini di un “io” impossibile, che non esiste, ciononostante esiste un “io” convenzionale che funziona. Quindi, qual è la base più sana per etichettare l’“io”? Ovviamente, dobbiamo etichettarlo sulla totalità della base, sia gli aspetti problematici che gli aspetti che possono aumentare e aiutarci a raggiungere l’illuminazione non ancora avvenuta che può essere raggiunta in seguito nel nostro continuum mentale. Come avverrà il raggiungimento dell’illuminazione non ancora avvenuta, in modo che avvenga nel presente? Il processo per questo è quello di sbarazzarsi degli aspetti negativi e aumentare quelli positivi, eliminare tutti gli aspetti problematici per la base dell’etichettatura “io” e avere solo quelli positivi. Quindi, cosa facciamo? Applichiamo la comprensione della vacuità. Queste cose sono impossibili, non esistono e non corrispondono alla realtà.
E ora torniamo al nostro “ciononostante”. Finché rimaniamo con una comprensione della vacuità tutti questi aspetti problematici non possono più sorgere. Quando non la comprendiamo ovviamente continueranno a funzionare. Ma se la comprendiamo ci rendiamo conto che non hanno alcuna base di supporto - come un oggetto che proietta un’ombra su uno schermo - non c’è nulla che li sostenga e non sorgeranno di nuovo. Ma il nostro “ciononostante” non distrugge le qualità positive, perché si basano su una corretta comprensione della realtà. Le rafforziamo traendo ispirazione dalle persone e dalle cose nella nostra vita che ci hanno mostrato o dato quelle qualità positive.
Tantra e vacuità
Questa è la base per ciò che facciamo nella meditazione tantrica. Ci sono tutti questi diversi aspetti conflittuali e problematici. Pensiamo in termini di vacuità con una totale assenza di tutti questi aspetti problematici, e poi immaginiamo noi stessi nella forma di una figura di Buddha, che sostanzialmente etichetta “me” su tutti gli aspetti positivi piuttosto che su quelli negativi. Questa è parte della teoria alla base della trasformazione del tantra ma deve essere accompagnata dalla consapevolezza che ciò che stiamo immaginando e visualizzando è solo una similitudine dell’illuminazione che non sta ancora accadendo, non è certamente un’illuminazione che sta accadendo nel presente. Non sono semplicemente illuminato nel presente perché penso di esserlo.
Se ci concentriamo su un “io” etichettato sulla compassione e su una corretta e chiara comprensione, ciò non è contraddetto o eliminato dalla comprensione della vacuità. Mentre se pensiamo in termini di “io” sulla base della rabbia, quando ci concentriamo sulla comprensione che questi modi impossibili di esistere non esistono, ciò elimina la rabbia: non puoi avere rabbia e comprensione della vacuità allo stesso tempo. Voglio dire, puoi comprendere la vacuità e la rabbia, ma non sto parlando di questo bensì in termini di ciò che sta accadendo coscientemente, di ciò che stai sperimentando. Quindi la comprensione della vacuità rafforza e non elimina le qualità positive, ma è reciprocamente esclusiva con quelle negative. Sono incompatibili. Quindi, questo metodo tantra non è solo il potere del pensiero positivo, ma è basato saldamente sulla comprensione della vacuità.
Ora, può essere piuttosto difficile relazionarsi a Cenresig che rappresenta la compassione e Manjushri che rappresenta la chiara comprensione, e così via, perché sono una forma perfetta e molto idealizzata di compassione e comprensione. Ecco dove la nostra pratica di integrazione degli aspetti positivi della nostra vita può essere utile.
Le figure del Buddha sono collegate ai diversi aspetti della natura del Buddha, quei fattori che fanno parte del nostro continuum mentale che si trasformeranno nei vari corpi e aspetti di un Buddha, gli stessi aspetti con cui lavora la mente: comprendere, prendersi cura delle cose, provare compassione e così via. Questo è ciò che chiamiamo il “livello di base”. Su quella base è possibile raggiungere il livello risultante che è rappresentato dalla figura del Buddha.
La base, il sentiero e il risultato
Nell’analisi buddhista parliamo della base e della mente sentiero che conduce al livello risultante. Ci sono sempre questi tre aspetti: base, sentiero e risultato. Diamo un’occhiata al sentiero o alla mente sentiero. Ci sono tutte queste varie meditazioni su compassione e vacuità, a volte molto elaborate, che ci aiuteranno a raggiungere quell’illuminazione non ancora avvenuta, i cui aspetti sono rappresentati da queste diverse figure di Buddha. Tuttavia, nel momento presente, specialmente per coloro di noi che non sono molto avanzati sul sentiero, abbiamo varie buone qualità acquisite attraverso l’influenza di vari membri della famiglia, dal paese in cui viviamo, dalle varie occupazioni che abbiamo avuto, dai nostri amici e così via. Ed è qui che entrano in gioco gli esercizi.
Quindi, la base per etichettare “me” è ogni momento di esperienza di tutti gli aspetti problematici e positivi: è il tutto. Se guardiamo in termini di un continuum mentale da un altro punto di vista, allora anche la base per etichettare “me” è la base, il sentiero e il risultato del continuum mentale. Questa non è una linea temporale, perché non è come “all’inizio c’era la base e poi il sentiero”. Il sentiero è senza inizio ma comporterà l’eliminazione degli aspetti negativi e problematici e il rafforzamento di quelli positivi. È difficile relazionarsi alla base, agli aspetti della natura di Buddha, e a quelli risultanti, le forme idealizzate di queste qualità. Ciò che è molto più facile è relazionarsi alle qualità positive che abbiamo ora a livello di sentiero.
Conclusione
Se riusciamo a riconoscere i fattori positivi che abbiamo ottenuto da tutti questi diversi aspetti della nostra vita e ad integrarle in modo che diventino una base armoniosa per etichettare “me”, allora siamo in una posizione molto migliore per poter seguire il sentiero buddhista. Riconosciamo il nostro livello di fattori positivi del sentiero. Questo è un passo, probabilmente un passo preliminare, Dharma light, per poter seguire il sentiero e per avere una base positiva per etichettare “me”. Ci dà la forza di impegnarci nelle varie pratiche del vero Dharma per raggiungere il livello risultante e, come beneficio collaterale, abbiamo un senso molto più sano di “me”, il “me” convenzionale, per affrontare questa vita e che è molto importante più avanti nella pratica del tantra, in modo che non cadiamo in una sorta di strana inflazione dell’ego o in un viaggio nella fantasia.
Sebbene in questa sessione non abbiamo dedicato tempo ad ulteriori pratiche, volevo presentare un ambito più ampio di dove questo tipo di pratica può inserirsi nel percorso generale del Dharma, la teoria alla base del suo funzionamento e di come potrebbe essere utile sia a un livello Dharma light che di vero Dharma.
Forse questa analisi illustra anche un punto che ho sollevato all’inizio ovvero che, mentre studiamo e pratichiamo il Dharma imparandone tutti i tipi di aspetti diversi, ciò che dobbiamo cercare di fare è “integrarli”, metterli tutti insieme, vedere come ogni cosa si collega al resto. E quando iniziamo a mettere insieme sempre più cose, in molti modi diversi, allora attingiamo sempre più tesori dal Dharma.