Meditazione sulla vacuità del sé e di tutti i fenomeni

La grande compassione di bodhichitta

Quando pensiamo all’estremamente gentile e compassionevole Buddha Shakyamuni, pensiamo alle sue grandi qualità e alle sue opere straordinarie, e in particolare a tutti gli insegnamenti che ha dato unicamente a beneficio di tutti gli altri. Tra tutti questi è molto commovente pensare alla sua incredibile gentilezza nell’insegnarci bodhichitta - il cuore dedito all'illuminazione e agli altri. Ne Impegnarsi nella condotta del bodhisattva sono trattati approfonditamente gli insegnamenti completi su come sviluppare un obiettivo di bodhichitta.

Se riflettiamo sul modo migliore di giovare agli altri, non possiamo pensare a nient'altro che a bodhichitta. La più grande gentilezza di Buddha Shakyamuni fu di insegnarci come sviluppare questo cuore dedito a bodhichitta; dobbiamo considerarci estremamente fortunati ora perché abbiamo un prezioso corpo umano e siamo entrati in contatto con il Dharma, in particolare con il Dharma mahayana. Ora che si sono riunite tutte queste condizioni favorevoli e non siamo ostacolati da circostanze negative o ostruttive, è assolutamente indispensabile sfruttare questa eccellente opportunità, in modo da soddisfare l'incredibile compassione di Buddha Shakyamuni nel mostrarci come dedicare il nostro cuore agli altri e al raggiungimento dell'illuminazione.

Il Compendio sulla conoscenza valida di Dignaga (Tshad-ma kun-btus, scr. Pramanasamuccaya) dimostra che possiamo sapere che il Buddha è una persona valida dal suo sviluppo della compassione. Ci riferiamo al Buddha come al Grande Compassionevole, e l’uso dello specifico termine “compassionevole” si riferisce al fatto che il suo cuore è interamente rivolto al beneficio degli altri. Fu proprio a causa della sua intensa preoccupazione per gli altri che fu capace di rimuovere tutti i propri limiti per raggiungere una condizione in cui poter giovare pienamente a tutti gli esseri limitati. Essere compassionevoli è benefico, indipendentemente dall’essere una persona religiosa: chiunque può aiutare gli altri se ha un cuore caloroso e gentile.

Spesso scherzo e dico: "Se devi essere egoista, almeno fallo con saggezza!" Se vogliamo la felicità per noi stessi a spese degli altri, ovviamente gli altri non ci aiuteranno pertanto, se vogliamo raggiungere il massimo beneficio individuale, dobbiamo comunque prendere in considerazione gli altri - cioè essere egoisti con saggezza. Se davvero siamo preoccupati per noi stessi e siamo saggi, ci renderemo conto che il modo migliore per giovare e migliorare noi stessi consiste nell’aiutare gli altri.

In questo mondo se gli altri hanno un generale interessamento verso gli altri e la società, saranno considerate buone persone dalla maggior parte di noi, tranne forse da alcuni individui negativi. Saremo molto turbati quando costoro moriranno perché saranno stati un grande patrimonio per la società, sempre impegnati ad aiutare il prossimo. Il beneficio a cui tali persone hanno contribuito sarà ricordato anni e anni dopo la loro scomparsa. Invece in alcuni paesi comunisti, coloro che si sono impegnati in lotte di potere e hanno lavorato per il proprio beneficio vengono dimenticati non appena la loro posizione diminuisce e le loro azioni e benefici non vengono più ricordati. Confrontiamo questo con gli altri leader, mossi dal desiderio di aiutare gli altri, le cui azioni sono ricordate con devozione e grande amore e affetto. Se nel mondo qualcuno provoca grandi danni, sofferenze e distruzione a livello di massa, verrà considerato molto malvagio perfino dalle persone non religiose, nessuno ne sarà felice o lo vorrà ricordare: persino gli uccelli non vorranno volare attorno a qualcuno con un cuore così duro e crudele.

Viviamo in una società di esseri umani e quindi ognuno dipende dall'altro: l'intera struttura funziona solo in termini di gentilezza dei propri membri l'uno verso l'altro, della loro intenzione di cooperare. Un amico americano mi ha detto che pensa che la natura degli esseri umani sia crudele; scherzando gli ho risposto che mi chiedevo se fosse davvero così. Gli animali che per natura sono crudeli, come tigri, leoni e altri tipi di carnivori che uccidono altri animali per vivere, appaiono anche molto crudeli nel loro aspetto, con zanne e artigli e tutto il resto; e invece ci sono altri tipi di animali che sembrano molto pacifici, che mangiano solo piante ed erba. Gli esseri umani non assomigliano per nulla a questi animali feroci: non vanno in giro ad artigliarsi e a mordersi l'un l'altro e hanno unghie corte e curate invece di artigli! Se osserviamo un gatto, non importa quanto il suo proprietario lo nutra, per natura o anche per puro divertimento, esso caccia e uccide i topi. Per questo io non credo che la natura di base degli esseri umani sia quella di essere crudele, come gli animali carnivori.

È quindi possibile lavorare e migliorare le qualità in noi stessi come esseri umani, espandere i nostri cuori sempre più verso gli altri, con gentilezza. Poiché tutti noi dipendiamo gli uni dagli altri, è assolutamente necessario lavorare per giovare ed aiutarci l'un l'altro. Questo è proprio nella natura del modo in cui esiste una società, come gruppo interdipendente: perché funzioni, ognuno deve essere gentile e disponibile con gli altri. È estremamente importante generare questo atteggiamento di voler aiutare gli altri esseri e di estenderlo poi il più possibile a un gruppo sempre maggiore.

Naturalmente dobbiamo considerare che quando il Buddha insegnò i diversi tipi di disciplina e modi di comportarsi, alcune cose furono proibite mentre altre furono autorizzate o raccomandate. Quando la necessità prevale sul divieto e le circostanze richiedono qualcosa che di solito è proibito, allora ciò può essere fatto. Dobbiamo usare il nostro giudizio, entro i parametri del voler sempre giovare agli altri.

Dobbiamo cercare di avere pensieri e azioni gentili verso gli altri e di non fare del male a nessuno: iniziamo a metterlo in pratica con coloro con cui abbiamo dei rapporti e cerchiamo poi di estenderlo ulteriormente a tutte le persone nella nostra zona, nel nostro paese e infine sulla terra; in ultimo possiamo estenderlo ancora oltre, a tutti gli esseri nell'universo. Ricordiamo che tutti gli esseri sono proprio come noi, come noi desiderano essere felici e non avere problemi.

Ovviamente una madre ha il desiderio che tutto vada bene per i propri figli: è qualcosa molto potente ma, d'altronde, questa preoccupazione è molto limitata poiché riguarda solo i suoi figli. Invece noi dobbiamo cercare di sviluppare un'estrema e intensa preoccupazione per il beneficio degli altri e di estenderla a tutti, non limitandola a pochi esseri.

Per poter effettivamente giovare a tutti abbiamo in effetti bisogno di raggiungere lo stato in cui siamo pienamente in grado di farlo, cioè uno stato completo di nirvana, l'illuminazione. Aiutare tutti gli altri e raggiungere l'illuminazione per poterlo fare: in queste due intenzioni consiste l’obiettivo di bodhichitta. Lo possiamo leggere nei testi e adesso ce ne parla perfino il Dalai Lama! Possiamo provare ora ad acquisire la ferma convinzione che questa è la radice di tutta la felicità, dell’eliminazione di tutti i problemi del mondo: sviluppare un cuore gentile e caloroso, un'attitudine per poter giovare a tutti. Convinciamoci con fermezza che avremo sempre questo atteggiamento, il pensiero altruistico di poter sempre essere di beneficio ed aiutare tutti, e che non lo lasceremo mai degenerare o indebolire. Dobbiamo apprezzare questo atteggiamento più di ogni altra cosa che possediamo.

L'unità di metodo e consapevolezza discriminante

Il commentario al nostro testo prosegue ora con una citazione di Cionyi Lama, "Per raggiungere lo stato di Buddha è necessario conseguire l’unione del corpo e della mente di un Buddha". Dobbiamo cioè seguire un sentiero che unisce metodo e saggezza o consapevolezza discriminante, in cui il metodo sia sostenuto dalla consapevolezza discriminante e la consapevolezza discriminante sia sorretta dal metodo. Nello stadio risultante, metodo e consapevolezza discriminante sono di una natura essenziale – come se in un certo senso fossero un "pacchetto" – sebbene possiedano diversi isolati concettuali.

Lo stesso vale parlando degli stadi del sentiero: anche nel sentiero o nelle menti del sentiero metodo e consapevolezza discriminante devono essere della stessa natura essenziale, come in un "pacchetto". Lo stesso vale per il livello di base, in cui le due verità di qualsiasi cosa si incontrano sempre insieme in un unico pacchetto, trattandosi di un’unica natura essenziale. È estremamente importante osservare che le due verità sono sempre insieme, inseparabili.

Tra tutti i livelli di spiegazione della realtà il più chiaro e decisivo è quello Prasangika, così come esposto da Buddhapalita e Chandrakirti. Questi due maestri indiani furono estremamente chiari nel seguire le intenzioni di Nagarjuna e confutare ogni possibile interpretazione scorretta. Ci furono molti grandi maestri in Tibet che dedicarono molti sforzi per comprendere ed esporre una visione corretta della realtà, in particolare il grande Tsongkhapa. Sin dalla prima infanzia, Tsongkhapa si interessò profondamente a questo tema impegnandosi notevolmente per chiarire la corretta visione della realtà, questo perché Tsongkhapa in una vita precedente, alla presenza del Buddha, prese la ferma decisione con un obiettivo sincero di bodhichitta, pregando di poter sempre essere in grado di esporre la visione della via di mezzo Madhyamaka in relazione al tantra: questa fu la sua particolare missione, poter sempre possedere quella combinazione speciale di Madhyamaka e tantra.

Per il suo grande rispetto per la corretta visione del vuoto basata su Chandrakirti, Tsongkhapa scrisse molti testi a riguardo, in particolare la sua presentazione della mente eccezionalmente percettiva di vipashyana nei suoi testi del sentiero graduale lam-rim breve e esteso, il suo commento alle Strofe radice sulla via di mezzo, chiamati “consapevolezza discriminante” (dBu-ma rtsa-ba shes-rab, scr. Prajna-nama-mulamadhyamaka-karika) di Nagarjuna, il suo commento al Supplemento a (Strofe radice di Nagarjuna su) la via di mezzo (dBu-ma dgongs- pa rab-gsal) di Chandrakirti e la sua Essenza della spiegazione eccellente del significato definitivo ed interpretabile (Drangs-nges legs-bshad snying-po). Se guardiamo questi cinque testi di Tsongkhapa, vedremo quanto siano chiare le sue spiegazioni. Il punto principale ovviamente è essere in grado di comprendere la corretta visione della vacuità e, per questo, è necessario costruire un capiente magazzino o una rete di forza positiva con azioni costruttive: grazie a quel capiente magazzino e facendo affidamento su maestri spirituali pienamente qualificati e su validi testi adeguati, saremo in grado di comprendere correttamente la vacuità.

Questo testo di Namkapel, discepolo di Tsongkhapa, fu esposto in linea con l’Addestramento mentale in sette punti di Chekawa e contiene spiegazioni elaborate dei primi due punti: i preliminari e il metodo di allenamento nei due tipi di bodhichitta - relativa e più profonda; gli altri cinque punti sono spiegati invece abbastanza incidentalmente e sono: trasformare le circostanze avverse in un sentiero verso l'illuminazione; sintetizzare la pratica nell’arco di una vita; la misura dell’allenamento degli atteggiamenti; le pratiche strettamente connesse per l'allenamento dell'atteggiamento e i punti in cui allenarsi per l'allenamento del comportamento. Questi punti sono trattati brevemente nella preghiera al termine di Una cerimonia d'offerta ai maestri spirituali, Lama Chopa. Prendiamo, ad esempio, il passaggio che dice: “Ispiraci così che, se al momento della nostra morte non avremo completato i punti del sentiero, giungeremo alle terre pure, sia attraverso i mezzi drastici del trasferimento nella piena condizione di guru o attraverso le istruzioni per applicare correttamente le cinque forze": si riferisce alla sintesi della pratica in una vita, in particolare alla discussione dell'applicazione delle cinque forze al momento della morte.

Nel testo di Namkapel siamo giunti al punto di accertare e riconoscere l'oggetto da negare. Ne abbiamo già discusso in precedenza e ora tratteremo prima della mancanza di una reale esistenza delle persone, quindi di tutti i fenomeni e infine vedremo che tutto esiste come un'illusione.

La mancanza di una esistenza veramente stabilita della persona

Esaminiamo ora la mancanza della reale esistenza delle persone. L'oggetto a cui la mente è rivolta in questa meditazione è il sé o "io" convenzionalmente esistente. Vi è una leggera differenza nei contenuti delle diverse scuole buddhiste, alcuni sostengono che la mente sia indirizzata a tutti e cinque i fattori aggregati nel loro essere l’"io" convenzionale o solo ad alcuni degli aggregati, in particolare alla coscienza. Altri affermano che la mente mira alla consapevolezza onnicomprensiva della coscienza di base o alayavijnana e che questa è l’“io” convenzionale.

Tutte le scuole affermano che l'esistenza di un "io" non può essere stabilita semplicemente come qualcosa di totalmente attribuito, ma che è necessario ci sia una base che abbia le caratteristiche individuabili di un "io", cioè qualcosa che si possa rintracciare mediante un’analisi finale: per costoro quindi la coscienza, o la base della coscienza, può essere trovata da un’analisi ultima come qualcosa che possiede le caratteristiche di definizione rintracciabili dell’"io". D'altronde questo è un concetto che non viene affermato nella nostra tradizione, la Prasangika: non affermiamo che alcuna base possieda caratteristiche individuabili di un “io”.

Noi prasangika, sebbene miriamo alla rete dei cinque fattori aggregati, non puntiamo ad essa come base che possiede le caratteristiche individuabili di un "io", ma piuttosto come semplice base per etichettare un "io". L’“io” convenzionalmente esistente è semplicemente l'oggetto referente del nome "io" etichettato su tale base di designazione, è semplicemente ciò a cui si riferisce il nome "io" sulla base di questa rete. Più precisamente, la base per etichettare "io" è la rete dei cinque fattori aggregati della nostra esperienza o la continuità degli stessi. Sono queste le basi per l'etichettatura, a seconda delle quali etichettiamo un "io", e su di esse l'esistenza convenzionale dell’“io” può essere stabilita solo come ciò a cui si riferisce il nome "io".

Le basi per etichettare "io" possono essere i cinque elementi, i cinque aggregati e così via, ma esso non sarà alcuno di questi singoli fattori, né l’insieme o la rete degli stessi: non può essere trovato; quando diciamo o pensiamo "io", “io” è un’etichetta sulla base di corpo, mente e così via; ma l’"io" non corrisponde a nessuna di queste basi singolarmente, né al loro insieme o rete.

Quando proviamo ad analizzarlo e ci domandiamo se l'"io" provenga dalla parte del corpo, dei vestiti che indossiamo o della nostra mente, non possiamo trovare un "io" o le sue caratteristiche distintive di un "io" in alcuno di essi. Analizziamo questo, ad esempio: Tenzin Gyatso non è il suo corpo, e neppure la sua mente (o almeno non è specificamente solo la sua mente), non può esistere separatamente dal suo corpo ma nemmeno dalla sua mente. La persona "Tenzin Gyatso" esiste sicuramente: certamente è una persona, è un tibetano, viene dall’Amdo, è un monaco e come tale ha ricevuto la completa ordinazione monastica. Tutto ciò vero ma se ci chiediamo chi sia questa persona, questo monaco, sapendo che esiste ma che non è solo il suo corpo o la sua mente, quando proviamo a definire chi sia, scopriamo che in realtà non riusciamo a farlo.

Lo stesso vale per fiori, vasi, tavoli e così via: sulla base di tutte le loro parti e della continuità delle stesse abbiamo un oggetto che può essere etichettato e possiamo stabilirne l’esistenza, ma non possiamo dire che esso sia in realtà la raccolta completa delle sue parti o le singole parti prese singolarmente. Quando affermiamo che non c'è nulla che possiamo indicare come la "cosa" di riferimento reale corrispondente al nome, ciò non significa che in realtà l'oggetto non esista affatto.

Quando diciamo che la sua esistenza non può essere stabilita nel luogo in cui immaginiamo che esista, significa che esistono una serie di circostanze, condizioni e cause e che l'oggetto sorge in modo dipendente sulla base di ognuna di esse. La sua esistenza non è però stabilita dalla sua propria parte, come se esso stesse in piedi da solo, slegato da tutti questi altri fattori da cui dipende: esso sorge dipendendo in modo specifico proprio dai nomi e dai concetti che ad esso si riferiscono, la sua esistenza può essere stabilita solo considerando l’essere semplicemente ciò che può essere etichettato mentalmente da una mente valida.

Tutti questi termini tecnici - esistenza stabilita dalla propria parte, esistenza naturalmente auto stabilita, esistenza stabilita dalle caratteristiche definibili - hanno lo stesso significato. Quando ne analizziamo il significato condiviso per cercare di capire che l'esistenza di tutte le cose può essere stabilita solo nei termini di ciò a cui si riferiscono le etichette mentali, è molto più facile comprenderlo parlando dell’“io". Questo poiché è abbastanza ovvio che l'io è etichettato su una rete di fattori aggregati, e dunque una persona è semplicemente ciò che può essere etichettato sulla base di designazione, ma l'esistenza dell'oggetto referente di tale etichetta non può essere stabilita da parte di quell'oggetto referente o dalla sua base per l'etichettatura. Guardando quale sia l'oggetto dell'inconsapevolezza che sorge automaticamente, vedremo che si tratterà di una persona o un "io" che sembra semplicemente apparire come se la sua esistenza fosse auto-stabilita, completamente da sé, dalla sua parte. Lo stesso vale per vasi, fiori, tavoli e così via: la loro esistenza sembra essere stabilita in un modo completamente diverso dall'essere semplicemente ciò a cui si riferiscono nomi ed etichette mentali.

Per vedere come questo "io" da confutare in realtà ci appare, basta guardare i momenti in cui ci troviamo in un forte stato emotivo e pensiamo all’"io", "mio" e così via: in quelle occasioni, l'"io" da confutare ci appare come la base verso un grande attaccamento ed ostilità, cosa che ne rende più facile l’identificazione.

Il testo continua con la confutazione di un "io" realmente esistente dalla prospettiva di un "io" che, se la sua esistenza fosse stabilita in maniera indipendente dalla sua stessa parte, allora dovrebbe essere stabilito che esiste come "uno" o come "molti" con le sue basi di designazione. [Nota: essere "uno" significa che l’“io” dovrebbe essere totalmente identico alle sue basi; i due - le basi di designazione e l'oggetto referente della designazione - dovrebbero essere la stessa "cosa" individuabile. Essere "molti" significa che l’"io" dovrebbe essere qualcosa di totalmente diverso dalle sue basi, così che l’"io" e le sue basi dovrebbero essere completamente diversi, “cose” individuabili tra loro e non correlate.]

Il testo presenta poi varie conclusioni assurde che seguirebbero in entrambi i casi. Se l’"io" fosse un tutt'uno con le sue basi di designazione, i due dovrebbero sempre essere gli stessi, non potrebbero mai essere separati; se fosse diverso o "molti" rispetto alle sue basi, essendoci allora molte basi diverse per etichettare l’"io", ci dovrebbero essere molti "io" diversi. Possiamo trovare tutti questi ragionamenti nei testi base, come il Supplemento a (Strofe radice di Nagarjuna su) la via di mezzo” di Chandrakirti.

L'”io” è anche descritto essere ciò che proviene dalle molte vite passate. Se l'“io” non avesse alcuna relazione con la continuità delle esperienze delle vite passate, l'intero processo di causa ed effetto non sarebbe in grado di funzionare: l'"io" in questa vita sperimenterebbe i risultati di azioni commesse da qualcuno totalmente irrilevante in passato. Se così fosse, ciò che ci accade dipenderebbe dal caos: visto che potremmo sperimentare i risultati delle azioni commesse da chiunque altro, qualsiasi cosa potrebbe accaderci; ma non è così.

La mancanza dell’esistenza veramente stabilita di tutti i fenomeni

Finora abbiamo discusso l’afferrarsi all’esistenza veramente stabilita dell’"io". Ora il testo esamina l’afferrarsi all’esistenza veramente stabilita del "mio" – cioè ciò che un "io" potrebbe sperimentare o possedere: questo si riferisce all’afferrarsi all’esistenza veramente stabilita di tutti i fenomeni.

Parlando della mancanza di una identità veramente stabilita o “anima” di tutti i fenomeni, il testo usa la stessa argomentazione di "né uno né molti" e descrive come l'esistenza delle cose possa essere stabilita solamente come ciò che può essere etichettato sulla rete delle loro parti, cause e così via. Successivamente il testo tratta la relazione tra l’uno e le sue parti, in particolare in termini di origine interdipendente. Le cose sono in relazione tra loro perché le loro diverse parti e cause sono correlate e dipendenti tra loro, e questo è come sorgono i risultati. 

Origine interdipendente significa che le cose nascono come conseguenza del loro essere dipendenti o causate da diverse altre cose, e ciò è possibile solamente se le cose non hanno una propria esistenza indipendente stabilita perché altrimenti esse sarebbero in grado, in senso figurato, di stare in piedi. Se potessero farlo, non dovrebbero dipendere da nient'altro o avere alcun rapporto con qualcos'altro, nemmeno potrebbero entrare in relazione con altre cose in termini di origine interdipendente, dal momento che sarebbero totalmente autosufficienti. Come un'immagine in uno specchio non appare da sola, le cose non possono presentarsi senza dipendere da determinate circostanze.

Prendiamo l'esempio di un uomo che cammina con un bastone: se cammina con un bastone significa che non può reggersi da solo, cioè il suo stare in piedi può essere stabilito solo in base al suo fare affidamento su un bastone. Le due possibilità si escludono a vicenda: il suo stare in piedi può essere stabilito solo in modo indipendente da sé o dal sorgere dipendente del suo dover contare su un bastone.

Allo stesso modo parlando di tutti i fenomeni, la loro esistenza può solo essere stabilita in modo indipendente o dipendente da altri fenomeni. [Nota: queste due possibilità che si escludono reciprocamente formano una dicotomia: le cose possono essere solo l'una o l'altra, non entrambe o nessuna.] Se ad esempio dividiamo tutti i fenomeni in umani o non umani, allora essi devono rientrare in una di queste due categorie; ma se dividiamo scegliendo le categorie di umano e vaso, ciò non comprende tutti i fenomeni esistenti, perché esistono cose che non sono né umane né vasi. [Nota: pertanto, sebbene umano e vaso si escludano a vicenda - nulla può essere sia un umano che un vaso - non formano una dicotomia.]

Proprio come nel nostro esempio di divisione delle cose in umane o non umane che include tutti i fenomeni, allo stesso modo questi dipendono o meno anche da altre cose; ci sono solo queste due possibilità. Se l'esistenza di qualcosa può essere stabilita solo facendo ricorso a qualcos’altro, ciò concorderebbe nell’affermare che l'esistenza delle cose può essere stabilita solo in modo dipendente; d’altro canto, se determiniamo che l'esistenza delle cose può essere stabilita dal loro stesso potere, da sola, senza fare affidamento su nient'altro, esse avrebbero una esistenza veramente indipendente. Ci sono solo due possibilità: come per umano e non umano, le cose possono essere solo l'una o l'altra.

Quando confutiamo che l'esistenza delle cose può essere stabilita in modo indipendente, disconnessa da tutte le altre cose, ci resta solo un'altra possibilità e cioè che lo sia solo in modo dipendente, in particolare dai nomi e concetti a cui fanno riferimento.

Ad esempio riflettiamo sulla parola centro: essa ha senso solo in riferimento a qualcosa che non si trova a destra o a sinistra, l’esistenza di un “centro” può essere stabilita solo in termini o in relazione a qualcosa che non è né da un lato né dall’altro. Allo stesso modo quando parliamo di Madhyamaka, la "Via di Mezzo", intendiamo una posizione stabilita dal fatto di non trovarsi in nessuno dei due estremi, nichilista e eternalista. Quando l'esistenza delle cose non può né essere stabilita in modo indipendente (cosa che le renderebbe eterne poiché non potrebbero essere influenzate da cause al fine di sorgere o perire) né essere stabilita affatto (cosa che renderebbe tutto totalmente inesistente), allora in relazione a queste due posizioni estreme resta una "via di mezzo". Sapendo dunque che l'esistenza delle cose può essere stabilita solo in dipendenza da altro, anche la vacuità - l'assenza totale di modi impossibili per stabilire l'esistenza delle cose - non è né qualcosa di assurdo solo inventato dalla mente né un concetto nichilista che nega tutto.

I due tipi di meditazione sulla vacuità

Esistono due tipi di meditazione sulla vacuità: la meditazione discernente o analitica e la meditazione stabilizzante, in cui assorbiamo la nostra concentrazione sulla vacuità. Per prima cosa dobbiamo accertare, cioè giungere ad una comprensione risolutiva della vacuità, una conoscenza che la distingue. Poi dobbiamo stabilizzare questa comprensione assorbendo la nostra concentrazione in modo univoco sulla vacuità, la totale assenza dell'oggetto da negare. Accertiamo, comprendiamo fermamente e poi distinguiamo l'assenza totale dell'oggetto da negare basandoci sul ragionamento logico e sui testi che presentano le cinque linee di ragionamento da utilizzare.

È importante che la nostra comprensione sia nella forma di quello che viene chiamato un "fenomeno di negazione non implicita", cioè una negazione o esclusione del tipo: "non esiste una cosa come questa", il che significa che una volta che abbiamo escluso o negato l'oggetto da confutare, non rimanga nulla, non ci siano ripercussioni. Giungiamo alla ferma comprensione che non esiste l'oggetto che stiamo negando.

Questo non è un fenomeno di negazione implicita, vale a dire una confutazione del tipo: "non è questo" o "non è quello", poiché una simile negazione lascia o implica qualche possibilità alternativa. In questo caso la decisiva confutazione del vuoto è: "non esiste affatto una cosa del genere" - che invece non lascia nessun’altra possibilità.

Proseguendo, il testo sottolinea che se non abbiamo identificato bene l'oggetto da negare, quando cioè affermiamo che l'oggetto è impossibile e non esiste affatto, non ci troveremo in uno stato mentale molto libero, perché non abbiamo ancora definito e compreso del tutto che ciò che stiamo dicendo non esiste affatto.

Inoltre quando assorbiamo la nostra concentrazione sulla totale assenza di ciò che non esiste affatto, è necessario farlo con piena consapevolezza e prontezza seguendo tutte le istruzioni per sviluppare shamatha, uno stato mentale calmo e stabile. Per questo, dobbiamo identificare chiaramente e correttamente i livelli grossolani e sottili di torpore, volubilità e agitazione mentale in modo di essere in grado di rimuovere questi difetti che ci impediscono di essere totalmente assorbiti dall'oggetto della nostra concentrazione, che è la totale assenza dell'oggetto da negare, ossia un modo totalmente impossibile di esistere.

Il testo di Namkapel tratta poi le sei forze e i nove passi per calmare la mente, i cinque tipi di attenzione e così via che sono spiegati anche nei testi sullo sviluppo di questo stato mentale calmo e stabile. Quando siamo in grado di assorbire la nostra concentrazione in un tale stato, liberi da tutti i difetti, dopo aver progredito attraverso tutte e nove le fasi per calmare la mente, proviamo uno stato di totale flessibilità fisica e mentale, con un senso stimolante di completo benessere, e quando lo raggiungiamo riusciamo ad applicare la nostra mente calma a qualsiasi tipo di concentrazione assorbita. Non potrò mai sottolineare abbastanza l'estrema importanza di raggiungere una mente calma e stabile di shamatha: soprattutto quando ottenuta in connessione con i metodi tantra, questa è la migliore forma di concentrazione assorbita.

Parliamo sempre di due modi in cui sono indicati gli insegnamenti buddhisti: le indicazioni che provengono dalle scritture e dalle realizzazioni. Le prime sono molto numerose, ma è importante ottenere un'indicazione realizzata degli insegnamenti nel nostro continuum mentale e ottenere realmente una mente calma e stabile di shamatha e una mente eccezionalmente percettiva di vipashyana. Raggiunte queste, sulla base delle indicazioni scritturali, saremo poi in grado di generare tutte le buone qualità di cui parlano le scritture e realizzeremo effettivamente questi insegnamenti sul nostro continuum mentale.

Vipashyana è uno stato mentale eccezionalmente percettivo, indotto dallo stato di adattamento fisico e mentale che otteniamo non solo avendo la mente totalmente concentrata con shamatha, ma anche indotto dalla mente che ha raggiunto una consapevolezza discriminante, dovuto in altre parole non solo dalla mente in grado di concentrarsi perfettamente su qualsiasi cosa, ma anche dalla sua capacità di discriminare correttamente qualsiasi cosa. Quando realizziamo questo secondo speciale senso di adattamento fisico, che consiste in uno stato congiunto di shamatha e vipashyana, la nostra mente sarà sia calma e stabile e nello stesso tempo eccezionalmente percettiva.

Vedere che tutto esiste come un'illusione

Da questi stati mentali fermi e stabilizzati è possibile assorbire la nostra concentrazione in stati mentali sempre più sottili, cercando di raggiungere gli stati shamatha dei livelli superiori dell'esistenza, il livello delle forme eteree e quello degli esseri senza forma. Il testo prosegue indicando, tuttavia, che il semplice raggiungimento di uno stato mentale non concettuale non ci permetterà di vedere tutte le cose come illusioni come realizzazione successiva quando emergiamo da quello stato. Percepire le cose "semplicemente non concettualmente" significa conoscerle non solo senza lo strumento di una categoria concettuale, ma anche senza una comprensione della loro mancanza di una reale identità o "anima". Emergere da un tale stato di non concettualità non porta al successivo raggiungimento o realizzazione della visione delle cose come un'illusione.

D'altra parte, se riusciamo a percepire le cose in modo non concettuale come prive di esistenza o identità auto-stabilite, allora quando emergiamo da quello stato, possiamo successivamente vedere tutto come un'illusione. Se non abbiamo una tale comprensione, quando emergiamo dalla nostra concentrazione, potremmo cadere in uno stato di nichilismo, nel senso di confutare tutte le cose, persino la loro esistenza convenzionale.

Nella sezione vipashyana de La presentazione estesa degli stadi graduali del sentiero si trova una lunga discussione su come si possa effettivamente realizzare tutto ciò che esiste come un'illusione. Supponiamo ad esempio che la nostra comprensione della vacuità consista nel ritenere che le cose sono semplicemente costituite da un insieme di parti e non possono essere considerate come un’unità. Anche se siamo in grado di capirlo in modo non concettuale, se tuttavia non comprendiamo la vacuità nel senso di tutto ciò che sorge in termini di etichettatura mentale, non otterremo una chiara consapevolezza che le cose esistono come un'illusione. Per raggiungere tale nitida comprensione è necessario vedere le cose in termini di sorgere dipendente - sorgere che dipende semplicemente dalla loro etichettatura mentale. Solo quando vediamo la vacuità in tali termini possiamo raggiungere contemporaneamente entrambe: la consapevolezza della vacuità simile allo spazio di ogni cosa e del fatto che tutto esiste convenzionalmente come un'illusione.

Nella meditazione dzogchen [Nota: in cui non vi è alcuna differenziazione tra concentrazione totale sulla pura consapevolezza rigpa e il successivo conseguimento o realizzazione], mentre siamo totalmente assorbiti dalla completa assenza dell'oggetto da negare, le apparenze delle cose in realtà sorgono spontaneamente, nel senso che la nostra comprensione del vuoto sorge in modo dipendente. In questo modo vediamo le cose esistere come un'illusione anche nella pratica dzogchen.

Conclusione

Questo conclude la discussione di Namkapel sui punti trovati nell’Allenamento mentale in sette punti di Chekawa.

Seguono le lodi a bodhichitta e al lignaggio: lodi ad Atisha, che unì i lignaggi di Maitreya e Manjushri e quello di Shantideva; ancora le lodi agli insegnamenti e, nei commenti a questo testo, all'autore Namkapel, discepolo di Tsongkhapa.

[Nota: l'edizione di Togme Zangpo termina con il passaggio aggiuntivo "Dal risveglio dei resti karmici derivanti dal precedente allenamento, la mia ammirazione (per questa pratica) è immensa. E a causa di questo, ignorando sofferenze ed insulti, ho chiesto queste istruzioni per domare il mio afferrarsi al sé. Se anche ora morissi non avrei rimpianti". Anche l'edizione di Pabongka termina con questo passaggi, ma omette la prima riga "Dal risveglio dei resti karmici derivanti dal precedente allenamento". L'edizione di Namkapel non contiene questo verso.]

Con questo terminiamo la trasmissione dell’Allenamento mentale come i raggi del sole, un testo sui metodi di gran beneficio per la mente che ci porterà a diventare estremamente felici. Spesso sento e dico alla gente che sono la persona più felice del mondo: cioè è dovuto per metà alla posizione di Dalai Lama che occupo e sicuramente per l’altra metà all'allenamento comportamentale che seguo, che mi dà la felicità e il coraggio di affrontare tutte le difficoltà sulle spalle. Le misure preventive del Dharma sono misure che effettivamente prendiamo e che pratichiamo. Faremmo tutti bene a dedicare ogni nostro sforzo a questo.

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