Superare gli ostacoli con gli insegnamenti lam-rim del livello intermedio e avanzato

Ripasso del primo giorno

Ieri abbiamo trattato il livello più piccolo e abbiamo analizzato uno dei suoi temi principali, che è la meditazione sull’impermanenza. Questo aiuta a ridurre il nostro attaccamento alle apparenze di questa vita, perché vediamo che nulla dura. Ricapitolando, ci sono meditazioni sulla certezza della morte e sull’incertezza del momento della morte, ma queste due da sole non bastano. Dobbiamo aggiungere che, al momento della morte, solo il Dharma può aiutarci. Inoltre, durante la nostra vita, dobbiamo contemplare le leggi di causa ed effetto karmico. Dobbiamo considerare che se dovessimo rinascere in un reame inferiore soffriremmo enormemente. Dobbiamo trovare un antidoto all’inconsapevolezza di queste leggi di causa ed effetto karmico che ci fa agire compulsivamente in modo distruttivo e, di conseguenza, ci fa rinascere in uno stato così terribile. A questo proposito, anche se parliamo di assenza di sé in relazione al livello intermedio, in realtà abbiamo bisogno di portare il senso di questo allo stadio del livello più piccolo.

Quale parte di ‘Me’ passa effettivamente di Vita in Vita?

Quando si parla di impermanenza o di morte, si discute molto sul continuum dell’essere, su cosa sia esattamente che continua di momento in momento, di vita in vita. Dalla nostra prospettiva ordinaria, pensiamo effettivamente che il “me” di ieri sia lo stesso del “me” di oggi – che i due siano identici – ma in realtà possiamo affermare molto chiaramente che la persona di ieri non è la persona di oggi. Le cellule nel nostro corpo sono cambiate; anche la nostra mente è cambiata, potremmo aver imparato qualcosa di nuovo. Quindi, il corpo e la mente di ieri e di oggi non sono gli stessi, ma non sono nemmeno due persone totalmente diverse e non collegate. C’è ancora una sorta di continuità. Quindi, dobbiamo scoprire esattamente come questo “io” continua di giorno in giorno, di anno in anno e poi di vita in vita.

Pensare che il “me” di ieri sia identico al “me” di oggi significa aggrapparsi alla permanenza. “Permanenza” in questo caso, significa credere che sebbene questo “io” abbia una continuità – il “me” di ieri e il “me” di oggi non sono due persone totalmente diverse e non correlate – questo “me” non cambia di momento in momento. Questo attaccamento ad un “me” permanente, immutabile, che continua da ieri ad oggi e a domani, è qualcosa da cui deriva tutta una serie di emozioni negative, come l’attaccamento, la rabbia e l’ignoranza. Dobbiamo lavorare per ridurre queste emozioni negative e distruttive, e il modo migliore per farlo è attaccare la loro fonte, questa forte convinzione di un “io” permanente, immutabile e continuo.

Dobbiamo dunque chiederci, chi e cosa continua nel futuro? Nel Buddhismo, non accettiamo l’idea di un’anima o di un atman permanente e immutabile. Ma dobbiamo accettare che c’è una continuità di relazione tra la persona di oggi e quella di domani, e di dopodomani, e così via. Qui ci addentriamo nella contemplazione della legge di causa ed effetto karmico, e delle vite passate e future. Anche se in questa fase, non stiamo introducendo la spiegazione completa dell’assenza di sé, stiamo introducendo una comprensione di base di una parte di quello che è un modo impossibile di esistere del sé.

Le sofferenze degli stati superiori di rinascita

Finora abbiamo parlato del livello più piccolo, in cui desideriamo evitare la rinascita nei reami inferiori e puntare alla rinascita negli stati superiori dell’esistenza samsarica. Questi stati superiori includono il nostro regno umano, e i regni dei semidei e degli dèi, comprese le divinità nei regni della forma e del senza forma. Ma, se ci concentriamo solo su questo livello più ristretto, con il desiderio di rinascere in questi luoghi, il nostro desiderio di una felicità duratura non si realizzerà mai. Perché? Perché evitare di rinascere in un reame inferiore e rinascere nei regni superiori, non è una condizione stabile; non può durare. Anche se una vita in un regno divino è molte, molte volte più lunga di una vita umana, anch’essa finirà.

Possiamo pensare alla sofferenza del cambiamento in una rinascita superiore, anche a questo livello molto grossolano. Oggi sono felice, ma poi cambierà, e non sarò più felice. Pensate in questo senso. Quindi, anche se otteniamo una rinascita superiore con grande felicità e ci liberiamo dalle rinascite inferiori, non è affatto stabile. È solo temporanea. Ad un certo punto, qualsiasi vita nei regni superiori termina e da lì si cade in una rinascita nei regni inferiori. Dobbiamo essere certi della sofferenza del cambiamento in relazione a questo.

Sofferenza onnipervasiva

Ora, tutti noi conosciamo la sofferenza della sofferenza e la sofferenza del cambiamento – la sofferenza dell’infelicità e del dolore e la sofferenza della felicità samsarica che non dura mai, non è mai soddisfacente e non è mai abbastanza. Ma qui, dobbiamo introdurre il terzo tipo di vera sofferenza, che è la sofferenza onnipervasiva. A cosa si riferisce? Si riferisce alla rinascita samsarica ricorrente ed incontrollabile sotto l’influenza del karma e delle emozioni disturbanti, cioè sotto il controllo delle impronte karmiche – i potenziali karmici positivi e negativi – del nostro precedente comportamento karmico compulsivo e delle emozioni disturbanti che le attivano. Quando ci viene chiesto di proporre un esempio di sofferenza onnipervasiva, di solito indichiamo i cinque aggregati, il che è corretto, ma dobbiamo pensare anche in termini di ciascuno degli aggregati individuali. Pensate a come la nostra coscienza, il modo in cui pensiamo, il modo in cui sentiamo e così via siano tutti sotto il potere degli impulsi karmici e delle emozioni disturbanti.

In pratica, non abbiamo libertà. Questo perché le loro cause sono contaminate dall’ignoranza, il che significa che, a causa di questa ignoranza, si perpetuano, creandone sempre di più. Nelle circostanze attuali, è possibile sperimentare una felicità temporanea e di breve durata, ma una felicità a lungo termine sotto il loro controllo non è possibile. Gli impulsi karmici irresistibili e le emozioni disturbanti guidano questo processo di condizionamento onnipervasivo – tutte le nostre rinascite e i nostri aggregati ne sono condizionati – e poiché siamo sotto il loro controllo, in ultima analisi noi non abbiamo controllo. Quindi, ciò che dobbiamo fare è far sì che questo processo – rinascite ricorrenti e incontrollabili guidate da impulsi karmici ed emozioni disturbanti – cessi per sempre.

Voglio condividere una storia del mio predecessore, il primo Tsenshap Serkong Rinpoche. Una volta visitò Parigi e i suoi studenti lo portarono sulla Torre Eiffel. In seguito, disse al suo traduttore, Alex Berzin: “Una volta arrivati in cima, non c’è più posto dove andare se non per tornare giù. È lo stesso per il più alto regno divino”. Questo è l’insegnamento del livello intermedio della sofferenza del cambiamento – nessuna felicità terrena dura mai – e della sofferenza onnipervasiva.

A causa della sofferenza onnipervasiva, ovunque nasciamo, abbiamo questi cinque aggregati contaminati che si perpetuano. Per questo motivo, sono della natura della sofferenza e non c’è libertà. Come abbiamo detto, in queste condizioni, è possibile una felicità temporanea, ma non troveremo mai una felicità stabile finché saremo sotto il loro controllo. Dobbiamo avere ben chiaro questo fatto.

Nella Lettera ad an amico di Nagarjuna, quando discute il significato della sofferenza condizionata onnipervasiva, usa il termine ‘vaso della sofferenza’ in riferimento ai cinque aggregati. Il Commentario sulla cognizione valida di Dharmakirti usa il termine ‘supporto’ per questa sofferenza. Questi due termini “contenitore” e “supporto” hanno un grande significato. Dobbiamo capire che questa sofferenza pervade tutto il samsara.

Il livello intermedio: evitare per sempre le rinascite ricorrenti e incontrollabili

Con il livello più piccolo, cerchiamo di contrastare l’attaccamento alle apparenze di questa vita. Ma quando passiamo al livello intermedio, parliamo di contrastare l’attaccamento a tutto il samsara, in modo da avere una completa disillusione nei confronti del samsara stesso. In realtà, non solo siamo disillusi dal samsara, ma sviluppiamo una mente di repulsione per il samsara; siamo completamente annoiati e stufi di esso.

Ma il disgusto per il samsara non è sufficiente per essere considerato una rinuncia. Oltre al disgusto per il samsara, comprendiamo che esiste la liberazione dal samsara perché esiste la possibilità di una piena cessazione della sofferenza, e ne siamo assolutamente convinti basandoci sulla logica e sulla ragione. Immaginate che un prigioniero stia per essere giustiziato il giorno dopo. Nella sua mente c’è un grande desiderio di sfuggire alla sua situazione. Questo è il desiderio generale. Se dessimo al prigioniero qualche metodo di fuga, allora di sicuro si concentrerebbe esclusivamente su di esso, determinato a sfuggire all’esecuzione. Ecco cos’è la rinuncia. Non è solo disgusto per la nostra situazione nel samsara, ma piuttosto il desiderio e la determinazione a liberarsene, unito alla consapevolezza che è effettivamente possibile sfuggire a questa situazione per sempre. È su questo che si concentra la nostra mente con la rinuncia.

Naturalmente si arriva alla domanda se sia possibile o meno una vera cessazione della sofferenza. Nei regni divini e persino nelle terre pure non c’è sofferenza manifesta, ma comunque non si tratta di una vera cessazione dalla sofferenza o di una liberazione. Gli esseri che vi si trovano devono alla fine ritornare in stati con più sofferenza manifesta. Quindi la cessazione totale della sofferenza esiste o no? Se esiste, esiste un percorso efficace che ci permette di raggiungere tale cessazione? Sua Santità ha detto che raggiungiamo l’essenza del sentiero buddhista quando attraversiamo tutte queste contemplazioni sul livello intermedio. È qui che deve avvenire la realizzazione di questi due punti sulla possibilità della vera cessazione e della liberazione.

Abbiamo differenziato due aspetti della rinuncia: il disgusto per il samsara e la decisione definitiva di ottenere la liberazione da esso, basata sulla comprensione che la cessazione totale della sofferenza è possibile. Molte persone in Tibet, in India, e in occidente, sono confuse. Si sentono stufe della sofferenza di questa vita o pensano che la vita sia così noiosa, e allora immaginano che questa sia la rinuncia. E poi pensano di diventare monaci, come Milarepa! Ma questi pensieri possono essere molto pericolosi. In Tibet, qualcuno ha cercato di copiare quello che faceva Milarepa. Andò in una grotta, vi rimase qualche mese, e poi non fece altro che lamentarsi di Milarepa: “Milarepa è da biasimare perché io ho dovuto rinunciare a tutto come lui, ma non ho ottenuto nulla in cambio”.

Dobbiamo capire che non possiamo forzare un sentimento genuino di rinuncia. Quando molte persone, me compreso, provano questo sentimento di disgusto nei confronti del samsara e sentono: “Ora devo fare Dharma seriamente”, questo sentimento è come una bolla nell’oceano. È bello, ma va via molto velocemente. Non è solido o stabile. La cosa che dobbiamo veramente considerare è se esiste un modo per uscire dal samsara e, se esiste, come può questo antidoto dell’assenza di un sé liberarci? Questo è il nostro compito principale. Quando saremo sicure che esista la liberazione e che la realizzazione dell’assenza di sé è ciò che ci libererà, allora saremo in grado di vedere che questa fiducia ci sta aiutando in questa vita, perché vedremo sicuramente dei cambiamenti positivi. Questa fiducia ha aiutato Sua Santità il Dalai Lama, ha aiutato Lama Tsongkhapa, e sicuramente aiuterà anche noi.

La comprensione della vacuità è il sentiero della liberazione

Abbiamo questo sentiero verso la liberazione, e un metodo forte su questo sentiero è la meditazione sull’assenza di sé, su come il sé sia privo di esistere in modi impossibili. Se iniziamo a coltivare la comprensione della vacuità dell’io, possiamo vedere in questa stessa vita come ci aiuta a ridurre l’afferrarci e i nostri attaccamenti. Ma potremmo chiederci come influirà sulle nostre vite future, perché le nostre rinascite, sia nei regni superiori che in quelli inferiori, derivano dal funzionamento molto sottile del karma. Questa meditazione ridurrà queste sofferenze? Beh, se meditiamo sull’impermanenza e sull’assenza di sé di noi e di tutti i fenomeni, possiamo constatare da soli una riduzione del nostro afferrarsi e del nostro attaccamento ad essi. 

Quando Sua Santità dice che la fisica quantistica ha delle somiglianze con la Scuola Chittamatra della Sola Mente e che le sue intuizioni su come le apparenze del mondo esterno dipendano dalla mente dell’osservatore portano beneficio nel ridurre il nostro afferrarsi e il nostro attaccamento, è vero. Ma nella tradizione buddhista, l’enfasi è leggermente diversa. Se guardiamo il Capitolo 6 del Madhyamakavatara di Chandrakirti, Entrare nella Via di Mezzo, dove tratta della confutazione del sé delle persone, non discute dell’esistenza dei fenomeni esterni. L’accento è posto su quale sia il luogo da cui provengono tutte le nostre emozioni e sofferenze disturbanti. La loro fonte è il nostro afferrarci a un sé.

Quindi, dobbiamo indagare su quale sia l’oggetto a cui il nostro attaccamento a un sé, che ha un’esistenza intrinseca e auto-stabilita, si sta afferrando e che crediamo corrisponda al sé che esiste realmente. Esaminiamo questo oggetto e verifichiamo se il sé esiste davvero nel modo in cui sembra esistere. Scopriremo che c’è una totale assenza di qualcosa che corrisponda a quel modo di apparire. Questa indagine ci porta a comprendere l’assenza di sé dei fenomeni, anche se Chandrakirti sta parlando dell’assenza di sé delle persone. Man mano che la nostra comprensione dell’assenza di sé si approfondisce sempre di più, si accresce la nostra fede fiduciosa nel Buddha e in tutti i maestri che parlano del modo in cui le cose esistono. 

Di solito, quando parliamo di rinuncia, abbiamo un modo di pensare piuttosto unidimensionale, che consiste nel cercare la radice del samsara. Andiamo direttamente a quella. Uno dei miei insegnanti ha dato un consiglio non comune su come affrontare la rinuncia, basato sull’Uttaratantra di Maitreya, il Continuum perenne più lontano. Dice che ci sono due aspetti nel pensare alla rinuncia. Uno è contemplare la radice della sofferenza. L’altro è contemplare la radice delle emozioni disturbanti. Si tratta di due aspetti leggermente diversi. La nascita stessa è la radice della sofferenza. Poiché siamo nati, soffriamo. Se non fossimo nati, la nostra sofferenza in questa vita non sarebbe sorta.

Se parlate di questo, rischiate di rovinare la festa di compleanno di qualcuno! Certo, la tradizione del buon compleanno è una convenzione mondana, quindi non vogliamo farlo e rovinare la giornata di qualcuno. Ma per un praticante di Dharma, che sta contemplando la rinuncia e praticando il livello intermedio, questo è in realtà il modo in cui dovrebbe pensare.

Se chiedete alla maggior parte di noi qual è la sofferenza più grande e di cosa abbiamo più paura, sicuramente diremo la morte, o forse la malattia. Ma chi identificherebbe la nascita come la radice della sofferenza e come ciò di cui ha più paura? È difficile da accettare. Ma se ci pensiamo bene, è vero. Ecco perché dobbiamo pensare a come porre fine alla causa delle rinascite ricorrenti e incontrollabili.

Ci sono molti sentieri e spiegazioni che affrontano questo tema. Da dove viene la rinascita? Nasce come risultato degli impulsi karmici e del comportamento compulsivo che essi determinano. Da dove vengono questi impulsi karmici? Sono spinti dalla forza motivante delle emozioni disturbanti. Da dove vengono queste emozioni disturbanti? Vengono dall’ignoranza o dall’inconsapevolezza. Qui, parliamo dell’inconsapevolezza senza inizio, della nostra ignoranza di fondo. È da lì che provengono le emozioni disturbanti. Quando cerchiamo la fonte della sofferenza, dobbiamo seguire questo tipo di processo passo dopo passo. È molto logico.

Affrontare il karma

Ci sono molti modi per affrontare il nostro comportamento karmico compulsivo e i potenziali karmici sui nostri continuum mentali che ne derivano e che maturano nelle nostre rinascite samsariche. C’è un’enorme varietà di potenziali karmici per tutti i tipi di rinascite samsariche che abbiamo. Anche le tradizioni indiane non buddhiste offrono molte presentazioni su come affrontare questi aspetti del karma. È giusto dire che la tradizione buddhista è cambiata molto nel corso degli anni, così come le tradizioni indiane non buddhiste. Ma se consideriamo il Tarkajvala di Bhavaviveka, Fiamma del Ragionamento, esso presenta e confuta gli antidoti al karma e alle emozioni disturbanti che queste scuole non buddhiste promuovono. Esse includono pratiche come il rigoroso ascetismo, il salto nel fuoco, lo stare su un piede solo sotto il sole cocente per tutto il giorno, tra le altre. Esistono anche pratiche di abluzione, purificazione e digiuno. Questi sono solo alcuni dei molti metodi descritti come antidoti al karma dalle scuole indiane non buddhiste.

Bhavaviveka esamina ogni metodo e lo critica. Dice che saltare nel fuoco non porta alla cessazione della causa e dell’effetto karmico, ma anzi provoca solo più sofferenza. Utilizza l’esempio di una falena attratta dalla fiamma. Per una falena che vola verso una fiamma ci sono solo enormi svantaggi, nessun vantaggio. Allo stesso modo, in termini di digiuno rigoroso, esso provoca solo una forte fame e sete. La mente delle persone può essere molto disturbata da queste pratiche, che non hanno alcun valore intrinseco. Bhavaviveka confuta ed esclude tutti questi metodi per restringere il campo a quello che è il vero antidoto al nostro comportamento karmico, alle sue potenzialità, e alla maturazione dei suoi risultati.

In alcuni testi indiani non buddhisti, si dice che se si riceve un’iniziazione di Shiva, questa cancella il karma, ma Bhavaviveka confuta anche questo. Dopotutto, dice, si può vedere chiaramente che anche dopo aver ricevuto l’iniziazione, una persona è ancora incline alla rabbia, all’attaccamento e alle emozioni disturbanti. Come risultato dell’azione su di esse, continua a creare ulteriori potenziali karmici.

Le scuole non buddhiste commentano: “In questa vita è vero, ma dopo la morte, i potenziali karmici si esauriranno se avete ricevuto l’iniziazione durante la vostra vita”. La risposta a questo offerta dalle scuole buddhiste è: come può farlo dopo la morte, e se può farlo, perché non può avere lo stesso effetto adesso?

Dovremmo fare delle ricerche su queste cose da soli. Queste sono le critiche di Bhavaviveka alle affermazioni di alcune scuole non buddhiste, ma possiamo semplicemente dare un’occhiata a noi stessi. Cosa ci succede quando prendiamo un’iniziazione? I nostri impellenti impulsi karmici, i nostri comportamenti compulsivi, le nostre emozioni disturbanti, e il nostro attaccamento al sé, si riducono automaticamente quando prendiamo un’iniziazione? Dovremmo esaminarlo attentamente.

Il metodo che porta alla completa cessazione di tutte le emozioni disturbanti

Bhavaviveka esamina i metodi che potrebbero portare alla cessazione, per sempre, delle emozioni disturbanti e fornire un percorso di liberazione. Vedere i difetti dell’attaccamento è sufficiente per ridurre il nostro attaccamento? E se solo vedere i difetti dell’attaccamento è sufficiente per liberarsene, allora vedere le buone qualità del distacco è sufficiente a farci sviluppare il distacco? Quello che Bhavaviveka sta dicendo è che dobbiamo attaccare la causa principale delle emozioni disturbanti, e non solo accontentarci di vederne i difetti. Vedere e capire i loro difetti non è sufficiente.

Tutte le nostre emozioni disturbanti sono sostenute da una mente sbagliata che considera il sé e tutti i fenomeni come se possedessero un’identità solida e auto-stabilita. È questo che dobbiamo esaminare. Dobbiamo vedere come le emozioni disturbanti sorgano tutte da questo. Nel Commentario di Dharmakirti Sulla cognizione valida, c’è una frase che dice che non possiamo porre fine al karma se non contrastiamo l’oggetto dell’afferrarci a un io, in altre parole, l’oggetto del nostro attaccamento a un sé impossibile. Se non riusciamo a contrastare quell’oggetto, non possiamo far cessare in modo permanente gli impulsi karmici, la maturazione dei potenziali accumulati nel metterli in atto e le emozioni disturbanti.

Nelle opere di Bhavaviveka ci sono anche numerose confutazioni alle presentazioni non buddhiste della liberazione. Ne parlo perché noi stessi tendiamo a pensare che fare certe pratiche, come la pratica buddhista del digiuno di nyung-ney o il ricevere iniziazioni, siano di per sé sentieri di liberazione. Ma il Buddha non ha mai detto questo quando, con le quattro nobili verità, ha rivelato il vero sentiero.

Inoltre, riguardo al vero sentiero della liberazione, il Buddha ci dice: “Io posso solo mostrarvi il vero sentiero della liberazione, sta a voi percorrere il cammino”. Ma nessuna delle pratiche del vero sentiero della liberazione è davvero efficace se non le sosteniamo con una cognizione valida per ottenere una fiducia incrollabile che si tratti effettivamente del vero sentiero.

Con una cognizione valida, dobbiamo identificare correttamente che:

  • l’attaccamento al sé è una mente completamente sbagliata
  • la radice di tutte le sofferenze è l’afferrarsi al sé
  • ed esiste la liberazione dalla sofferenza

Se siamo in grado di accertare validamente tutto questo, allora avremmo certamente un po’ di disgusto o disillusione nei confronti del samsara. Questo sarebbe unito a qualcosa che desideriamo abbandonare e di cui vogliamo liberarci, cioè, la rinascita in uno dei possibili stati del samsara. Inoltre, sarebbe collegato a ciò che desideriamo ottenere, ossia la liberazione. Questa è la rinuncia.

Nel quinto verso dei Tre aspetti principali del sentiero, Je Tsongkhapa, parlando della rinuncia, dice:

Quando, familiarizzandoti in questo modo, tu non generi mai, nemmeno per un istante, una mente che aspira agli splendori del samsara ricorrente, e sviluppi l’atteggiamento che giorno e notte è sempre profondamente interessato alla liberazione, in quel momento, hai generato la rinuncia. 

Questa combinazione di disgusto per il samsara e di forte determinazione a raggiungere la liberazione e ad essere liberi dal samsara è molto importante. Come dice Je Tsongkhapa, quando abbiamo queste due cose, allora abbiamo davvero la pratica del livello intermedio. Se immaginate qualcuno come un mendicante che è determinato ad uscire dalla sua situazione e ha la forte convinzione che vincerà alla lotteria, potrete avere un’idea dell’anticipazione e della concentrazione che avrete quando svilupperete una vera rinuncia.

Il livello superiore: raggiungere la piena illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri senzienti

Nei Tre aspetti principali del sentiero di Je Tsongkhapa, i tre aspetti principali sono, nell’ordine:

  • rinuncia
  • bodhichitta
  • vacuità.

Ma penso che dobbiamo far scendere un po’ di livello la vacuità e metterla al centro, da qualche parte tra la pratica del livello intermedio e quella del livello più grande. Perché penso questo? Perché, prima di sviluppare una mente di bodhichitta, dobbiamo anche avere un’idea del significato di vacuità.

Tra le scuole filosofiche buddhiste e i loro sistemi di principi, il più alto è il Prasangika. La differenza principale tra i sistemi di principi è la sottigliezza con cui presentano l’antidoto alla radice del samsara. La sottigliezza aumenta man mano che si sale di livello ai principi più sofisticati. Nel sistema Prasangika, abbiamo meditazioni sull’assenza di sé dei fenomeni e delle persone, che riducono il nostro attaccamento al sé, e ai fenomeni. Per quanto riguarda il modo in cui questo riduce l’afferrarsi a un sé, non solo Je Tsongkhapa ma anche molti grandi maestri e studiosi indiani ne hanno discusso in relazione a una corretta e valida realizzazione della vacuità. Un fattore molto importante che Je Rinpoche menziona in particolare è che quando si realizza il vuoto, questa realizzazione deve avere una gioia, un piacere positivo che deriva dalla realizzazione stessa. Se non c’è un senso di gioia, poiché con la realizzazione della negazione totale e dell’assenza dell’oggetto della confutazione non sorgono apparenze, è molto facile cadere nel nichilismo.

Inoltre, nei testi di Nagarjuna, Aryadeva e Chandrakirti, si dice che la realizzazione della vacuità è completa e corretta se induce e rafforza la comprensione dell’origine dipendente. Non si tratta solo di vedere il vuoto nel senso della totale assenza – nelle persone e in tutti i fenomeni – di un’esistenza stabilita da una qualche natura intrinseca, che si determina da sola. La comprensione completa del vuoto deve portare a potenziare il lato del sentiero relativo all’origine dipendente: l’esistenza del sé e di tutti i fenomeni può essere stabilita solo in termini di sorgere dipendente. In questo modo, la nostra comprensione e la fiducia nei nostri guru e nella causa e nell’effetto karmico saranno rafforzate.

Gli ostacoli al sorgere del bodhichitta

In termini di bodhichitta, dobbiamo esaminare quali sono gli ostacoli centrali che rendono difficile il sorgere del bodhichitta. Una cosa che impedisce al bodhicitta di sorgere è quando pensiamo che la liberazione personale sia sufficiente. Quando Sua Santità il Dalai Lama era giovane, pensava alla vacuità e che se avesse generato questa mente, avrebbe raggiunto la cessazione: “Una volta raggiunta la cessazione, dormirò in pace”. Questo è ciò che ha riferito di aver pensato all’epoca. In seguito, ricevette gli insegnamenti sull’Impegnarsi nella condotta del bodhisattva di Shantideva. Allora capì che il suo pensiero precedente non era il modo di praticare il bodhichitta.

Quindi, pensare che la semplice liberazione sia sufficiente è un modo per impedire lo sviluppo del bodhichitta. L’altro modo è quando pensiamo che il raggiungimento della semplice liberazione realizzerà pienamente i nostri desideri per il nostro benessere e combiniamo questo con l’indifferenza verso la sofferenza degli altri. Pensiamo che il raggiungimento del massimo beneficio per noi stessi sia completo e sufficiente. Questi due modi di pensare sono gli ostacoli principali allo sviluppo del bodhichitta.

L’illuminazione per il beneficio degli altri, ma anche per il proprio beneficio

Con il bodhichitta, parliamo molto di ciò che soddisfa gli scopi di noi stessi e gli scopi degli altri. Anche in termini di stato illuminato, parliamo di ciò che è di beneficio e soddisfa gli scopi e le finalità degli altri, che è l’ottenimento di un Corpo di Forma, un Rupakaya.

I testi di addestramento mentale che abbiamo tendono a concentrarsi su come coltivare la cura per il benessere degli altri e, in relazione a ciò, su come ridurre l’attaccamento al sé. Ciò che non è chiaramente indicato in molti di questi testi è il processo per raggiungere la completa realizzazione dei propri scopi e obiettivi. L’attenzione si concentra in realtà sull’incoraggiamento a lavorare per il bene degli altri. Quindi, spesso pensiamo che la semplice liberazione sia la completa realizzazione di ciò che è per il nostro personale beneficio, mentre lo stato pienamente illuminato della buddhità è essenzialmente per gli altri. È importante capire che il raggiungimento dello stato pienamente illuminato di un Buddha è anche la completa realizzazione di ciò che è a nostro beneficio. Sebbene questo punto sia meno considerato perché meno menzionato nei testi, è un punto importante da includere nella nostra riflessione.

Nel suo Grande trattato sugli stadi graduali del sentiero per l’illuminazione, Je Tsongkhapa ci consiglia degli antidoti al pensiero che il raggiungimento della semplice liberazione sia la completa realizzazione di ciò che è a nostro beneficio. Egli dice che se la domanda è: “Quale stato devi raggiungere per realizzare pienamente ciò che è di beneficio per te?” e qualcuno ti dice di concentrarti sugli altri, questa non è in realtà una risposta diretta alla domanda. 

Non c’è niente di sbagliato nel lavorare per il bene proprio e degli altri. Il bodhichitta ha infatti il senso di desiderare di raggiungere l’illuminazione al fine di realizzare completamente gli scopi e gli obiettivi di sé e degli altri, e quindi di beneficiare entrambi. Non c’è nulla di sbagliato nel fatto che queste due cose vadano di pari passo.

A che punto e in che modo possiamo introdurlo nella nostra pratica? Nella fase della presa di rifugio. Questo è un buon consiglio da ricordare. È un consiglio che ho ricevuto dal mio maestro su come integrare le spiegazioni meno comuni nella nostra pratica. Poiché è un giorno di grande auspicio, ho voluto condividerlo con voi.

Domande su cui riflettere dopo questi insegnamenti 

Una delle cose su cui riflettere dopo la fine di questi insegnamenti è perché, per raggiungere il Dharmakaya, sia insufficiente concentrarsi univocamente sulla vacuità in uno stato non concettuale di totale assorbimento che non sia sostenuto dalla forza di bodhichitta? I testi dicono che per fornire un antidoto alle oscurazioni cognitive, abbiamo bisogno della consapevolezza discriminante del vuoto, sostenuta dalla mente di bodhichitta. Voglio che contempliate perché la sola meditazione sul vuoto, senza bodhichitta, non può fornire l’antidoto alle nostre ostruzioni cognitive e dar luogo al raggiungimento di un Dharmakaya. E perché non può anche portare al raggiungimento di un Corpo della Forma, un Rupakaya?

Ci sono arhat shravaka e arhat pratyekabuddha, entrambi hanno ottenuto la liberazione dalla rinascita samsarica, e ci sono bodhisattva che raggiungono l’illuminazione.

I sentieri di tutti e tre sono discussi in testi come La filigrana delle realizzazioni, Abhisamayalamkara, di Maitreya, che li presenta dalla prospettiva Svatantrika-Madhyamaka. Parla di come gli shravaka, quelli del veicolo degli uditori, non siano in grado di affidarsi ai metodi che sono l’antidoto alle ostruzioni cognitive. Ma il testo sembra anche suggerire che i pratyekabuddha siano in grado di impegnarsi, in qualche modo, nei metodi per raggiungere il Dharmakaya di un Buddha pienamente illuminato; sono in grado di essere sostenuti, in qualche modo, dai metodi che sono l’antidoto alle ostruzioni cognitive. Tuttavia, nel testo, si dice anche che i pratyekabuddha non sviluppano il bodhichitta. Quindi, si collega alla mia domanda sul perché affidarsi alla sola vacuità, non sostenuta da bodhichitta, non può portare al raggiungimento di un Dharmakaya. Questo è il vostro compito a casa, riflettere su questo.

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