Liberare il sé convenzionale dall’insicurezza

Ripasso

Abbiamo discusso su come sviluppare l'io in modo sano attraverso gli stadi graduali del lam rim; c’è un sé convenzionale, noi esistiamo e questo è ciò che può essere etichettato, rappresentato o compreso in termini di ciò che stiamo vivendo in ogni momento. Così l’“io” non è solo il modo di riferirsi a ogni momento dell’esistenza, ma come conosciamo l’“io” in questione. Come ci conosciamo? Solo in termini di esperienza, momento per momento di una vita e possiamo farlo in modo corretto o in modo errato. Quando pensiamo al nostro sé convenzionale come esistente in modo impossibile, allora pensiamo in termini di falso "io" – questo è il sé che deve essere confutato. Per fare qualcosa per la nostra situazione, cercare di migliorare la qualità della nostra vita, per superare sofferenze e problemi abbiamo bisogno di un sano senso dell’“io”, dell’“io” convenzionale, altrimenti non prestiamo interesse alle nostre esperienze e non ci sforziamo di prenderci cura delle nostre vite.

Quando iniziamo ad avanzare nella nostra comprensione del lam rim – che delinea un percorso graduale – iniziamo con il riconoscere la preziosa vita umana che abbiamo. Quando apprezziamo il modo in cui siamo liberi, almeno temporaneamente, dalle situazioni peggiori che ci impedirebbero di fare qualcosa di costruttivo con le nostre vite e quando ci rendiamo conto di come le nostre vite sono così ricche di opportunità per fare qualcosa di costruttivo, allora apprezziamo molto noi stessi, questo "io" convenzionale. Più precisamente apprezziamo la situazione che abbiamo e ciò porta ad avere un atteggiamento più positivo verso noi stessi. Piuttosto che pensare "povero me" e lamentarci della nostra situazione nella vita, ne siamo grati. In altre parole, cogliamo le buone qualità piuttosto che quelle negative; non neghiamo le carenze nella nostra vita, le vite di tutti hanno carenze, ma non ci giova lamentarci e soffermarci su di esse.

C'è una linea guida che troviamo negli insegnamenti su come relazionarsi a un maestro spirituale: non neghi i suoi difetti, ma non c'è alcun vantaggio nel concentrarsi su di essi. Si guardano invece le buone qualità perché sono stimolanti. Quando guardiamo le buone qualità della nostra situazione nella vita con questa preziosa vita umana, siamo anche ispirati ad avere un atteggiamento più positivo verso noi stessi.

Comprendiamo inoltre che questa situazione, questa preziosa vita umana non durerà: la morte arriverà di sicuro e prima, se vivremo, ci sarà la vecchiaia, forse la malattia, ecc. Essere molto grati per la preziosa vita umana che abbiamo ora ci dà una calorosa sensazione per noi stessi, vogliamo davvero essere felici e non che tutto questo finisca quando moriamo. Vogliamo essere in grado di continuare perché abbiamo visto, sia che crediamo consapevolmente nella rinascita, nell'aldilà o in qualsiasi tipo di credenza potremmo avere, che si riduce a pensare che continueremo per sempre anche se pensiamo "Ora sono morto": sono morto per sempre e c'è un "io" che sperimenta l’essere morto o l’essere un grande niente. Vorremmo comunque essere felici in quel Grande Nulla, ovviamente.

Non vogliamo essere infelici, il che significa che non vogliamo avere vite future peggiori. Abbiamo iniziato a prenderci cura di noi stessi e a preoccuparci non solo del momento presente ma anche del futuro, non solo dell'ultima parte di questa vita, ma anche delle vite future. Questo è un atteggiamento salutare ancora più costruttivo del prendersi cura di noi stessi. L'atteggiamento più sano che potremmo avere è il cercare un modo per evitare sofferenza e problemi.

Si ricerca una direzione sicura, un modo per evitare la sofferenza futura perché "Ho paura della sofferenza, non la voglio davvero" imboccando davvero quella direzione nella vita, che è indicata da Buddha, Dharma e Sangha. A livello più profondo ciò significa ottenere una vera cessazione delle cause dei problemi, quindi una vera cessazione della sofferenza acquisendo la comprensione, il vero sentiero che porterà a ciò nel modo in cui i Buddha l’hanno percorso completamente e l'Arya Sangha parzialmente.

La prima cosa da fare per andare in quella direzione sicura consiste nell’evitare le cause dell'infelicità, la cosiddetta "sofferenza della sofferenza". Quindi ciò significa grave infelicità e dolore, quello a cui pensavamo immaginando le peggiori rinascite che possiamo sperimentare e non vogliamo davvero. Quindi prima proviamo a lavorare per sbarazzarci delle cause per quel tipo di esperienza perché, se teniamo davvero a noi stessi, prenderemo sul serio noi stessi e quello potremmo sperimentare.

Ciò significa che dobbiamo capire che, se stiamo male, è il risultato del comportamento distruttivo e che, se sperimentiamo felicità, è il risultato del comportamento costruttivo, del non agire in modo distruttivo quando abbiamo voglia di farlo. Il comportamento distruttivo, come uccidere, rubare, mentire, abusare sessualmente agli altri e così via avviene per via dell'influenza di emozioni disturbanti: lussuria, avidità, rabbia o ingenuità. Quando sperimentiamo questi tipi di emozioni disturbanti che ci inducono ad agire compulsivamente in modo distruttivo possiamo notare che, come spiega la definizione di emozione disturbante, sono stati mentali che ci fanno perdere la pace mentale. Così sentiamo disagio – quindi siamo infelici – perdiamo l'autocontrollo e agiamo in modo compulsivo. Questa è la definizione di emozione disturbante.

Quindi, se agiamo in modo distruttivo con uno stato mentale disturbato e sostanzialmente infelice, non in pace, allora è come – per usare un esempio che il mio traduttore ha usato nella nostra discussione venendo qui – è come sollevare un sasso, e metterlo su un palo. Compi un'azione che poi produce – l’energia cinetica di quell'azione – l’energia potenziale della roccia in cima al palo. C'è energia potenziale, come in fisica – la legge della conservazione della materia e dell'energia – l’energia cinetica è ora energia potenziale e, per via di varie circostanze, il palo viene abbattuto e quell'energia potenziale cambia di nuovo in energia cinetica quando cade la roccia – produce calore o qualsiasi altra cosa quando colpisce il suolo.

Quell'energia cinetica – il modo in cui matura il potenziale karmico – avrà un ulteriore comportamento distruttivo. Se pensi a tutto il sapore di questo processo dell'energia cinetica che diventa potenziale e poi nuovamente cinetica – è distruttivo, con emozioni disturbanti e infelici. Così inizia ad avere senso lo sperimentare infelicità come risultato di un comportamento distruttivo, perché il comportamento distruttivo avviene con uno stato mentale che non è felice.

Esercitiamo quindi l'autocontrollo fondamentalmente a questo livello iniziale: quando abbiamo voglia di agire in modo distruttivo – in un certo senso senti l’impulso a voler mentire, ferire qualcuno, dire qualcosa di cattivo e così via – ci tratteniamo perché ci rendiamo conto che produrrà solo più infelicità o sofferenza.

Così facendo almeno nelle vite future immediate possiamo evitare – non ci siamo liberati completamente della causa tuttavia almeno provvisoriamente possiamo evitare – stati di rinascita peggiori e grave infelicità. Principalmente ciò che stiamo evitando a questo livello sono stati di rinascita peggiori nella nostra prossima vita. Anche se rinasceremo con una preziosa vita umana avremo ancora dei momenti di infelicità; non è che ce ne siamo liberati completamente, ma almeno possiamo impegnarci e ottenere di nuovo una preziosa rinascita umana. Questo è davvero ciò che vogliamo: essere in grado di continuare lungo questo percorso spirituale.

Felicità ordinaria insoddisfacente

Riguardo allo scopo intermedio, abbiamo uno stato di rinascita sostanzialmente felice. Tuttavia ricorda cosa succede al livello iniziale quando agiamo in modo costruttivo, astenendoci dal comportarci in modo distruttivo anche se ne abbiamo voglia: ciò richiede forza di volontà e autocontrollo; questo è uno sviluppo sano di sé. Come il semplice esempio di alzarsi la mattina, andare al lavoro e prendersi cura dei bambini: richiede autocontrollo per non sdraiarsi a letto e forza di volontà per alzarsi: questo è un sano senso di sé, si assumono le proprie responsabilità. Tuttavia a questo autocontrollo e forza di volontà sottostà un forte senso di un solido "io" – “devo avere il controllo, io devo farlo”. È un forte senso di “me” e “Avrei dovuto essere in grado di controllarmi” e se non lo siamo ci sentiamo in colpa e così via: questo va nella direzione del falso "io".

Questo è il concetto di un "io" che avrebbe dovuto avere il controllo indipendentemente dalle condizioni, dalle cause e da tutto il resto; dovrebbe agire indipendentemente da cause e condizioni. È impossibile. Questo è un "atteggiamento disturbante" rispetto a come consideriamo noi stessi: dovrei sempre avere il controllo. Anche se in quello stato mentale siamo sostanzialmente più in pace, non siamo sotto l'influenza di emozioni disturbanti come rabbia, lussuria e così via – “Ora ho il controllo e posso agire in modo controllato”, tuttavia diventa istintivo. C'è ancora karma qui; è istintivo il "Devo controllare me stesso". L'esempio che abbiamo usato è l’essere un perfezionista compulsivo: pulire istintivamente la casa; l’essere così compulsivo, molto rigido in termini di etica.

Che tipo di felicità sperimentiamo in conseguenza a ciò? Una felicità che non dura. Per esempio, sei un perfezionista nel pulire casa, la pulisci ma poi non sei mai soddisfatto e devi rifarlo; oppure stai correggendo un articolo e sei perfezionista – non sai mai quando fermarti, non sei mai soddisfatto. Questa felicità è chiamata "sofferenza del cambiamento" e si può estendere ad altre aree della nostra esperienza: qualsiasi tipo di felicità sperimentiamo non dura ma cambia; se mangi un pasto delizioso in continuazione senza fermarti, starai male. Questa è la nostra sofferenza del cambiamento, la nostra felicità ordinaria.

Smontare idee sbagliate sul sé

Abbiamo costruito un sano senso di sé in termini di sé convenzionale: io sono responsabile delle mie azioni e di ciò che provo, devo fare qualcosa per eliminare le cause dell'infelicità. Ora vogliamo anche eliminare le cause di questo tipo di felicità insoddisfacente. Qual è il problema qui? Qual è la causa del problema? Dobbiamo iniziare a smontare le nostre idee sbagliate con le quali concepiamo noi stessi in termini di questo falso "io".

Per semplificarlo: c’è il falso "io" – concepiamo quell’"io" convenzionale ("io faccio questo", "io faccio quello"; "io sperimento questo", "io sperimento quello") come essere una sorta di solida entità, "me", nella nostra testa che è l'autore o la voce che dice "Cosa devo fare ora e cosa pensa la gente di me?" e quella che ci fa preoccupare per noi stessi, come se fosse seduta lì per far funzionare una macchina, il corpo – “Cosa dovrei fare ora? Bene, lo farò”, così preme il pulsante e induce il corpo o la parola a fare questo o quello, ricevendo tutte le informazioni dagli schermi video e dagli altoparlanti sensoriali; posizionata nella torre di controllo centrale nel cervello e parlando nel microfono dentro la testa in modo che solo tu lo puoi sentire.

Questa è una fantasia, una finzione totale: non vi è nulla di simile, non esistiamo così ma, poiché è quello che crediamo di essere – c'è questo "io" seduto lì – come lo sperimentiamo? Come insicurezza. Naturalmente è insicuro perché non esiste affatto, dunque come puoi sentirti sicuro? Creiamo tutte queste strategie per cercare di rendere sicuro quel piccolo "io".

"Se solo potessi ottenere certe cose per "me", per rendere sicuro "me". Nutriamo così un desiderio bramoso e, se ce l'abbiamo, non vogliamo lasciarlo andare e da qui l'attaccamento; anche se abbiamo qualcosa vogliamo di più – da qui l'avidità. In qualche modo questo mi renderà sicuro – “Se potessi avere abbastanza soldi”, "Se potessi avere abbastanza like sulla mia pagina Facebook" o qualunque cosa sia – ciò renderà sicuro "me". Ovviamente non è così, non succede mai.

Un'altra strategia rispetto alle emozioni disturbanti consiste nell’allontanare le cose che in qualche modo minacciano la mia sicurezza. Quindi abbiamo rabbia, avversione, ostilità – questi tipi di emozioni disturbanti oppure ingenuità: "Non voglio pensare a qualcosa che potrebbe essere minaccioso". Non accettiamo la realtà e invece costruiamo dei muri. In qualche modo, dietro al muro del rifiuto e dell'ingenuità sarò al sicuro ma ovviamente non siamo mai sicuri, c’è sempre l’incertezza che qualcosa possa scavalcarlo.

Queste sono le emozioni disturbanti che abbiamo, ci sentiamo insicuri e così usiamo questi meccanismi che portano al comportamento distruttivo compulsivo di rubare per ottenere ciò che vogliamo; uccidere per distruggere tutto ciò che non ci piace o semplicemente al non avere a che fare con le situazioni, per ingenuità. Tutto questo si basa su questo malinteso sul sé – pensare che esista questo falso "io".

La convinzione in questo falso "io" è anche alla base del nostro comportamento costruttivo ossessivo compulsivo. Può esserci un comportamento costruttivo che non è compulsivo, che non si basa su questa convinzione nel falso "io", tuttavia qui stiamo parlando di quello karmico, quello che è compulsivo. Dietro questo perfezionismo ossessivo compulsivo di un comportamento costruttivo c’è ancora la convinzione in questo falso "io".

Atteggiamenti disturbanti

Non abbiamo qui necessariamente emozioni disturbanti; abbiamo atteggiamenti disturbanti che possono essere alla base delle emozioni disturbanti o semplicemente a sé stanti. Il più importante di questi atteggiamenti disturbanti ha un nome tecnico difficile: è una "visione afflitta per una rete transitoria". Spiegherò cosa significa.

  • "Insieme" sono i nostri aggregati – tutto ciò che forma ogni momento dell'esperienza.
  • È "transitorio", cioè cambia continuamente.
  • Ne abbiamo una "visione afflitta" – una visione errata di ciò che stiamo vivendo; cambia continuamente.

Cos'è in realtà questo atteggiamento? Puoi guardare le definizioni e le descrizioni nei testi; mi piace usare l'analogia della rete, come quella di un pescatore e lanci questa rete dell’"io" o dell’"io che è il possessore di qualcosa", del "mio".

Di solito pensiamo così per esempio rispetto a un corpo giovane, buttiamo questa rete dell’"io" identificandoci con esso – che sono "io", generando ulteriori atteggiamenti disturbanti come pensando "questo è permanente" per poi guardarti allo specchio, vedere i capelli bianchi e dire "Non sono io". Creiamo un'immagine fissa del "me", gettando quella rete dell’"io" su qualcosa negli aggregati – diciamo il nostro corpo – e ci identifichiamo con esso, "io sono grasso", e poi compulsivamente stai a dieta, cerchi di perdere peso, perdi un chilo e sei un po' felice, ma quella felicità non dura e devi perdere un altro chilo. Può anche esserci questo tipo di atteggiamento quando si mangia compulsivamente bene. Non c'è niente di male nel mangiare bene ma quando diventa compulsivo perché bisogna essere magri, allora in occidente diciamo che è un po’ nevrotico.

È la stessa cosa con il "mio": "io sono il possessore, il controllore delle cose". Questo è rilevante per l'esempio di prima: gettiamo la rete del "me" in una situazione che sperimentiamo e "Dovrei essere in grado di controllarlo". Questo solido "io" che è il capo dentro la testa – “Dovrei essere in grado di avere il controllo e se non ce l’ho sono colpevole”, questo è l'atteggiamento disturbante alla base, il buttare la rete del "me" – “io” il controllore, “io” il possessore – su qualunque cosa stiamo vivendo.

Immaginiamo: "Se riesco a tenere tutto sotto controllo, allora mi sentirò al sicuro". Beh, potresti sentirti sicuro per alcuni istanti e essere un po’ felice, ma non dura perché è impossibile tenere tutto sotto controllo. Butti questa rete di "me": "Correggerò tutti, correggerò gli errori di tutti". È costruttivo, positivo ma è un po' troppo, è impossibile che non ci saranno più errori, no? Gli errori, il caos e così via sono influenzati da così tante cause e condizioni. Non siamo un Dio onnipotente, è una fantasia.

Queste emozioni disturbanti alla base del comportamento distruttivo – comportamento distruttivo compulsivo – e gli atteggiamenti disturbanti alla base non solo del comportamento distruttivo ma anche del comportamento costruttivo positivo compulsivo si fondano su questa convinzione, questo malinteso su noi stessi: credere che esistiamo come questo falso "io" – per dirla in parole semplici, questo piccolo controllore solido dentro le nostre teste. Credendo che quello sia l’"io", ci sentiamo insicuri, ricerchiamo qualcosa, ci allontaniamo da altro, innalziamo dei muri attorno o gettiamo la sua rete per controllare tutto. Nessuna di queste strategie funziona e tutto ciò che crea è l'incontrollato e ricorrente ciclo nel samsara – infelicità, felicità, infelicità, felicità – in questa vita e nelle vite future. Questo è il samsara.

Pensa per alcuni momenti a ciò che abbiamo chiamato il "falso sé", il sé da confutare: si basa su un'idea sbagliata e sulla proiezione di una fantasia sul sé convenzionale rispetto a come quel sé esiste. C'è un sé che però non è quel piccolo controllore nella tua testa dietro nella torre di controllo. L'importante è che esiste l’"io" convenzionale, non si trova nella sala di controllo ma c'è un "io" convenzionale. Per questo è così importante ciò che abbiamo costruito nelle fasi precedenti: se arrivi a questo livello senza attraversare i passaggi precedenti, allora ti sbarazzi del controllore nella tua testa e così non rimane nulla, “perché preoccuparsi di fare qualcosa se non esisto”. Questo non è corretto, è molto importante aver precedentemente seguito questi passaggi per creare un sano senso di "me" che si assume la responsabilità della propria vita e di ciò che sperimenta.

Come funzionano il karma e la rinascita

Ora iniziamo a sviluppare quella che è chiamata "rinuncia", la determinazione ad essere liberi da questi alti e bassi del samsara. Per spezzare questa sindrome di infelicità, questa felicità insoddisfacente e le rinascite che le sostengono e così via, dobbiamo superare le basi per questo. Perché continua? Perché abbiamo il tipo di rinascita – se pensiamo in termini di lam rim – che continuerà a essere la base per sperimentare queste infelicità, alti e bassi e questa felicità insoddisfacente. Per questo osserviamo il meccanismo di come opera la rinascita, come funziona questa sindrome ricorrente che è descritta nei "dodici anelli del sorgere dipendente".

Non è necessario in questa occasione vedere tutti questi dodici anelli, ciò che è veramente significativo sono gli anelli che attiveranno i potenziali karmici, ciò che di solito è tradotto come "brama" ma, se si guarda la parola sanscrita, vuol dire "avere sete". Ciò che accade nella nostra vita quotidiana e vita dopo vita con la rinascita è che proviamo infelicità e della felicità insoddisfacente, identificando noi stessi con questo solido "io" nelle nostre teste; moriamo di sete, abbiamo davvero sete.

L'infelicità è come essere veramente assetati e voler liberarsene così fortemente; la sete vuole sbarazzarsi di quell'infelicità. Ci possono essere diversi gradi dell’intensità e del desiderio di sbarazzarsi della sofferenza, come la sgradevole sensazione della sete. Ma questa è la mentalità presente quando siamo infelici, perché tutti vogliono essere felici e nessuno vuole essere infelice.

Quando abbiamo davvero sete, un piccolo sorso d'acqua non è abbastanza; non vuoi essere separato da quel sorso d'acqua, da quella bottiglia. Vuoi tenerlo. Questo è lo stato mentale che abbiamo – è davvero un'emozione disturbante – con quella felicità e l'infelicità che proviamo: abbiamo costantemente sete.

Ciò che a volte è chiamato "afferrarsi", ma che è letteralmente un atteggiamento di acquisizione – è ciò che ottiene la rinascita – noi gettiamo o lanciamo [un atteggiamento disturbante]. C'è un intero elenco di questi, ma il principale consiste nel lanciare la rete di "me", "io devo in qualche modo controllare e affrontare questa situazione; devo liberarmene”, identificandoci con questo; "io" – "io sono così infelice;" "io sono disperato, povero me" con la conseguente depressione e tutto il resto. Oppure "Sono così privato della felicità, mi sfugge sempre" – è sempre questa rete di "me" e "io, il possessore, lo sperimentatore, il controllore" di questa felicità e infelicità.

Quei due – quella sete e quell'atteggiamento di acquisizione, gettano questa rete di "me" su tutto – è questo che attiva i potenziali karmici. Come risultato di quel processo di attivazione, quindi (come descritto attraverso il meccanismo) dei dodici anelli, prendiamo compulsivamente rinascita. Puoi pensare a questa vita: agiamo compulsivamente per liberarci di quella sete cercando di soddisfarla in un modo o nell'altro, senza mai riuscirci. La radice di tutto ciò è ovviamente la nostra inconsapevolezza del primo anello del sorgere dipendente: l’inconsapevolezza rispetto a noi, a come esistiamo, quindi dobbiamo in qualche modo liberarci di questa convinzione che esistiamo come questo falso sé – questo piccolo "io" seduto nella testa, così assetato e insicuro. Pensateci.

È molto interessante analizzare in noi stessi qual è il nostro atteggiamento verso l'infelicità e la felicità. Come le gestisco? Sono come una persona assetata nel deserto? In primis devi esserne interessato: se non ti interessa allora non farai nulla; tuttavia abbiamo sviluppato un sano senso del sé in cui ci preoccupiamo di ciò che sperimentiamo. Ci preoccupiamo troppo di questa persona nel deserto che ha tanta sete? Questo è il problema qui. Questa persona disperata e assetata berrà qualsiasi cosa con la speranza di essere felice. È molto interessante questa esplorazione: forse questo film mi renderà felice, forse questo sito mi renderà felice, forse questa persona mi renderà felice, questo pasto mi renderà felice. Abbiamo sempre sete.

Oppure innalziamo un muro ascoltando costantemente musica con l’iPod in modo da non dover pensare a nulla; è come un'estrema ingenuità, ergere un grande muro intorno in modo da non dover affrontare i problemi della vita; forse questo mi renderà felice. Per non pensare mai veramente alla mia situazione e forse, negandola e annegandola con musica costante, sarò felice, ma ovviamente non è così. Devi sempre ascoltare un'altra canzone; una non è abbastanza.

Domande

Negare solo il falso "io"

Se prendiamo questo termine "sete" letteralmente, allora abbiamo sete. Siamo esseri umani ed è necessario bere. Di cosa stiamo parlando, di qualche ossessivo atteggiamento nevrotico o di cosa?

Questo è il motivo per cui è così importante non negare il "me" convenzionale, ma solo il falso "me". Il modo provvisorio di affrontare tutta questa sindrome di felice/infelice, sete e così via, è questo atteggiamento di "niente di speciale": sono infelice – niente di speciale; cosa ti aspetti dalla vita? Sono felice e smetterò di esserlo – niente di speciale; cosa mi aspettavo?

Non creare grossi problemi rispetto all’essere infelice o felice o rispetto all’avere sete; se ho sete e c'è qualcosa a disposizione da bere lo bevo. Non mi aspetto di non avere più sete, naturalmente avrò di nuovo sete. Non c'è niente di speciale nel bere, non c'è niente di speciale nell'essere assetati in termini di "io" convenzionale. Devi solo occupartene ma non con il falso "io" di "se avrò questa bevanda perfetta allora tutto sarà meraviglioso e non portarmela via!" – come un cane vicino alla ciotola che si guarda intorno come se qualcuno gliela dovesse portare via. Non farti ingannare dagli spot televisivi; tengono in mano questa bottiglia di bibita analcolica o qualsiasi altra cosa: "I problemi spariranno!" – e ti libererai di tutto questo. Ma figurati!

Ottenere una comprensione più profonda

A proposito di questo sé convenzionale; ha detto che bisogna sapere come esiste il sé convenzionale, ma penso che la conoscenza non sia sufficiente. Come possiamo effettivamente ottenere una comprensione più profonda, un tipo di comprensione trasformativa? Come possiamo davvero farlo funzionare?

Penso che qui il problema sia realmente il nostro modo di concettualizzare queste cose. C'è una comprensione intellettuale e una comprensione emotiva più profonda; quali sono i parametri coinvolti qui? Questo è ciò che dobbiamo esaminare. Penso che uno dei parametri sia la "certezza". Quanto siamo certi? Quanto siamo convinti che questo sia il "me" convenzionale, questo è come esiste e così come non esiste. Quindi prima dobbiamo essere davvero convinti che questo sia corretto.

C'è un'intera progressione di fattori mentali che sono coinvolti, dobbiamo distinguere tra il modo in cui è e il modo in cui non lo è; quindi sviluppare una consapevolezza discriminante – ne sei davvero certo; e poi la convinzione solida – non c'è niente che ti possa influenzare. Quindi, c'è una progressione.

  • Per prima devi distinguere tra il modo in cui è e il modo in cui non lo è.
  • Poi la consapevolezza discriminante – operi una distinzione, e questo genera certezza.
  • Poi convinzione solida: nulla potrà farti cambiare idea: "Ne sono davvero convinto".

Se dici "Beh, è ancora intellettuale", cosa manca? Devi effettivamente agire con questa comprensione e ciò fa parte dell'intera questione del "convincersi". Parte di tutta questa discussione verte sull’essere convinti che, se agisco con la convinzione di essere questo falso io, ciò produce infelicità e sofferenza; se me ne sbarazzo e agisco solo sulla base del convenzionale "io", non produrrò questo tipo di sofferenza. Per esserne davvero convinto devi effettivamente metterlo in pratica e poi vedrai che i risultati arrivano in accordo con ciò che dicono gli insegnamenti. Allora ne sarai davvero convinto.

Se lo capisci davvero correttamente perché non lo provi, non lo metti in pratica? Poi analizzi: “Forse sono ancora indeciso, non ne sono molto sicuro, ho i miei dubbi”. Non ne sei davvero convinto. Allora potresti basarti su una supposizione: "Presumo che sia vero, quindi lo proverò e vedrò". Perché non lo fai? Per pigrizia – ci sono tante forme di pigrizia e ragioni per esserlo: paura, cattiva influenza degli altri intorno a te che dicono "questo è stupido" e così via.

Quindi, ottenere questo tipo di comprensione più trasformativa deriva da molte cause e condizioni. Non mitizzare, non renderlo qualcosa di mistico "ooh, è una profonda trasformazione emotiva". Non è una sorta di esperienza mistica. Arrivare a quel punto è una progressione molto razionale e penso che il parametro principale qui sia quanto sei convinto, quanto sei sicuro che questo sia corretto.

Rinuncia, consapevolezza discriminante e autodisciplina etica

Okay, ora sviluppiamo la rinuncia. Comprendiamo ora l'intero meccanismo di questa rinascita incontrollata e ricorrente e anche degli alti e bassi di “felice” e “infelice” incontrollati e ricorrenti all'interno di una rinascita. La rinuncia è “sono stanco e annoiato di questo, voglio fermarmi, voglio uscire”; ciò richiede un senso molto forte del “me” convenzionale che ha questa forza di volontà, questa determinazione per fare effettivamente qualcosa per ottenere la liberazione. Senza quel forte e salutare senso di un "io" convenzionale, non farai nulla. Per favore, considerate questo punto: ci vuole un'enorme quantità di forza di volontà per lavorare verso la liberazione, "Ho intenzione di farlo" e la sicurezza di poterlo fare.

Ora, al fine di ottenere quella liberazione, comprendiamo che dobbiamo avere questa consapevolezza discriminante con la quale otteniamo la convinzione che questo falso sé – questo modo di esistere del sé, di "me" – non si riferisce a qualcosa di reale. C'è l’"io" convenzionale: è ciò che può essere etichettato o imputato su un continuum individuale di momenti in continua evoluzione di aggregati. Continua all'infinito, questo non è un problema. Tuttavia non esiste in questo modo impossibile, dobbiamo confutare questo e liberarci di questa convinzione.

Dobbiamo concentrarci maggiormente per rimanere concentrati su tale discriminazione e comprensione, dobbiamo anche avere un'autodisciplina etica con cui sviluppiamo questa consapevolezza – la consapevolezza è la colla mentale – per mantenere questo stato mentale e vigilanza per controllare se stiamo deviando o no. La sviluppiamo con un'autodisciplina etica rispetto al comportamento più grossolano di corpo e parola; poi con la forza che deriva da quella, possiamo sviluppare la concentrazione mentale per rimanere concentrati su come realmente esistiamo – sulla vacuità, sull'assenza di modi impossibili di esistere. Quindi, per l’autodisciplina etica, la concentrazione e la consapevolezza discriminante superiori abbiamo bisogno di avere un senso di "io" forte e salutare.

Che tipo di "io" stiamo cercando di liberare?

Il problema centrale qui è davvero che tipo di "io" sto cercando di liberare? Dobbiamo capire come esiste quell’"io" che vogliamo liberare. Non è che vogliamo liberare il falso "io" e ora è liberato, vogliamo liberare l’"io" convenzionale. Ecco perché il primo livello di comprensione che dobbiamo avere, la confutazione che dobbiamo attuare, è rispetto al sé che è affermato nelle altre tradizioni indiane non buddhiste, perché anche quelle insegnano metodi per raggiungere la liberazione sebbene cerchino di liberare il falso "io".

Un "io", un sé, che è separato dall’intero sistema – questo è ciò che le tradizioni indiane non buddhiste mirano a raggiungere: la liberazione di un sé che è separato da tutto il sistema degli alti e bassi del samsara e che può avere il controllo per liberarsi. È molto interessante se provi a pensarci: c'è un "io" che avrà il controllo di tutto; ora mi libererò da questa infelicità, felicità insoddisfacente e là sarò fuori dalla mia testa, perché chi vuole sedersi in questo stupido centro di controllo? E sarò liberato.

Non è così divertente perché in realtà se ci esaminiamo, di solito questo è il concetto che abbiamo di chi stiamo cercando di liberare: il falso "io", il falso sé.

Diamo un'occhiata alle caratteristiche di quel falso sé: vogliamo avere un sé che non sarà influenzato da queste emozioni disturbanti e dalla compulsione del karma tuttavia, se pensiamo in termini di falso "io", ciò che vogliamo ottenere è un "io" che non sia influenzato da nulla.

Stiamo parlando delle tre caratteristiche della visione errata del sé basata sulla dottrina; la prima è che è statico. Dicono "permanente", ma abbiamo visto anche nel Buddhismo che pensiamo in termini di un sé eterno, quindi "permanente" non significa eterno qui. Significa statico, non influenzato da nulla. È importante che non sia influenzato da nulla: è un fenomeno incondizionato.

Quindi la confusione: non è che devi capire che l'io non è influenzato da nulla; ciò che vogliamo è che quell'io non sia influenzato dalle emozioni e dagli atteggiamenti disturbanti. Ovviamente sarà ancora influenzato dalla compassione e dalla preoccupazione per gli altri; ci sono molte cose da cui sarà ancora toccato. L'idea sbagliata è che il falso sé stesso non possa essere influenzato da nulla: questo è il tipo di sé che i sistemi non buddhisti mirano a liberare, un sé che non sarà influenzato da nulla, che sarà totalmente separato dall’intero sistema, totalmente separato da tutto.

Stiamo negando un sé che è – di solito è tradotto come (1) "permanente", (2) "unitario" e (3) "indipendente".

(1) "Permanente" in realtà significa statico, non influenzato da nulla. Nel Buddhismo vogliamo solo che non sia influenzato dall'ignoranza e dalle emozioni disturbanti, dall'inconsapevolezza. Ma non può essere qualcosa non influenzato da alcunché.

(2) Che significa "unitario"? "Unitario" significa senza parti, una monade. I principali sistemi non buddhisti che sono smentiti qui sono il Samkhya e il Nyaya Vaisheshika che affermano che il sé è senza parti, una monade che pervade l'universo e che ha la dimensione dell'intero universo. I Vaisheshika affermano che il sé è una monade senza parti ma delle dimensioni di una minuscola particella, come una scintilla di vita. È quindi senza parti. Pensate: qual è la connotazione dell’essere senza parti, una monade? Cosa c'è di così rilevante qui?

Mettiamo "senza parti" nel nostro motore di ricerca interno e arriviamo all'affermazione Vaibhashika di quale sia il tipo più vero e convenzionale di vero fenomeno. Parlano dell’essere "senza parti", quindi è così che i buddhisti comprenderebbero la connotazione di "senza parti". La scuola Vaibhashika è una delle scuole filosofiche buddhiste. Ora, la definizione è che quando analizzi qualcosa privo di parti, ciò conserva la sua vera identità individuale e trovabile. Qualcosa che ha parti, quando lo analizzi, non conserva più la sua identità. Il tavolo e le sue parti. Quando lo smonto e guardo tutte le parti, nessuna delle parti è il tavolo, quindi non conserva più l'identità di tavolo.

Ma qualcosa che è senza parti – l’esempio usato è la particella più piccola – non può essere diviso. Provi ad analizzarlo e non importa quello che fai, è sempre questa particella, perché non ci sono parti. Quindi mantiene la sua identità. Se ora lo applichi al sé liberato qual è il difetto? È che implica che il sé non è imputato su una base che ha parti. Il sé, il sé convenzionale, è imputato su corpo, su mente, su emozioni e su tutto questo genere di cose che cambiano continuamente. In questo senso ha parti, come un tavolo è imputato su tutte queste parti. Abbiamo così tutte queste parti: corpo, mente, emozioni, ecc.

Ma se il sé fosse questa cosa senza parti, non potrebbe avere una base di imputazione con parti. Non potrebbe esserci l’"io" bambino di sei anni, sedicenne, venticinquenne, ecc. Non ci potrebbe essere un "io" in termini di corpo, mente, emozioni, quello che sento e così via. Dovrebbe essere una monade senza parti ma è impossibile; cercano di liberare qualcosa che non ha parti, quindi non costituito da nessuno di questi componenti (che nel sistema Samkhya sarebbero i tre componenti: rajas, tamas e sattva).  Nel sistema buddhista si asserisce che non è imputato su questi tre guna, su questi tre componenti, ma sugli aggregati.

Per semplificare, questi sistemi affermano che il sé non è costituito da alcunché ed è quindi senza parti. Non pensare che il sé che stiamo cercando di liberare non sia composto da alcunché: è fatto di corpo, mente, emozioni, cambia nel tempo e così via. È composto di cose quindi, se lo analizzi, il corpo è il sé? La mente è il sé? Il sé non conserva più la propria identità in termini di parti.

(3) La terza qualità che vogliamo confutare è un sé che è indipendente da corpo o mente, quindi un sé che può esistere separatamente da un corpo e una mente, da una base di imputazione – questo è ciò che il Samkhya e il Nyaya Vaisheshika vogliono liberare. Avrai così un sé totalmente separato dall'universo, separato da un corpo e da una mente, separato da qualsiasi cosa – non ha basi per l'imputazione. Giusto per chiarire, la seconda parte della definizione di questo falso sé nega che esista una base per la sua imputazione; qui sta affermando che è totalmente separato da qualsiasi cosa.

È molto interessante capire ciò che dicono questi sistemi non buddhisti: la scuola Samkhya afferma che il sé è una coscienza passiva non costituita da materia – dalla materia primaria di cui parlano – quindi non è la stessa facoltà fisica per la sensibilità, che in termini occidentali sarebbe il cervello. Non è il cervello; il cervello sperimenta felicità e infelicità, questo samsara; è la base fisica che ha quello. Ma il sé libera solo il sé. L'io è questa coscienza passiva non connessa a nessun cervello, quindi è così che ci si libera dalla sofferenza e da questa felicità insoddisfacente. Renditi conto che se sei separato dal cervello, è il corpo che sta facendo tutto questo, quindi chi lo vuole? È così che diventerò quello che sarà il sé liberato; non sente niente. Un sé liberato è questa coscienza passiva, ma in realtà non sa nulla.

Felice?

Non è felice, perché è una sensazione. Non ci sono sensazioni, è il cervello ad averle. È interessante perché in effetti molti di noi vorrebbero questo, solo essere felici. Ma la sensazione è fisica. Dal punto di vista del Samkhya, questo è semplicemente il fuoco di elettroni, neuroni e così via; è solo un processo elettrochimico in corso nel cervello, è fisico. Ma il sé non è fisico, quindi è separato da tutto ciò.

I punti di vista di Nyaya e Vaisheshika sono che il sé non ha coscienza. I Samkhya affermano che ha una coscienza passiva, i Nyaya non asseriscono la coscienza. Non ha alcuna qualità. Dicono che in realtà ciò che ha coscienza è qualcosa chiamato "particella della mente" e il sé non è associato a una particella della mente. In America abbiamo un meccano con bastoncini e palline che si collegano alla fine dei bastoncini; le palline hanno piccoli buchi e puoi collegare molte cose diverse a questi bastoncini. È un po' il modo in cui il Nyaya Vaisheshika pensano alle cose: c'è un sé, poi c'è la particella della mente, c'è un corpo e ci sono le sensazioni; le cose sono queste palline collegate da bastoncini, che sono diversi tipi di relazioni: possesso o acquisizione, ecc. Quindi è una visione molto fisica di come le cose sono connesse che dice semplicemente “il sé è qualcosa che non è collegato a nulla; tutto quello che devi fare è disconnetterlo”. Quindi lo disconnetti da una particella mentale, da tutto – stacca tutte le spine – ed eccolo, liberato. Hai staccato tutte le spine così non c'è coscienza; quindi è così che smetti di provare infelicità o questa felicità insoddisfacente. Basta staccare la spina.

Quindi, non è questo falso sé ciò che vogliamo liberare. Il sé che vogliamo liberare, il sé convenzionale, è quello che è influenzato dalle cose. Non è più influenzato da emozioni disturbanti, ma è influenzato da emozioni positive e può interagire con gli altri. Non è senza parti, quindi non è privo di corpo, mente e così via. Avrà ancora corpo, mente e sensazioni – sentimenti positivi, emozioni. Fa esperienza; non sperimenterà l'infelicità o felicità insoddisfacente, ma sperimenterà un tipo puro di felicità o – se parliamo semplicemente di liberazione – un tipo neutro di sensazione quando si è profondamente assorbiti nella meditazione. Continuerà a sperimentare sensazioni – sensazioni pure.

È molto importante, quando ci impegniamo per la liberazione, liberare il "me" convenzionale e non quello falso che non esiste affatto. Il livello più profondo che dobbiamo confutare qui è che esiste un sé che può essere conosciuto da solo senza che una sorta di base appaia allo stesso tempo. Il termine tecnico per questo è un "sé auto-sufficientemente conoscibile". Non esiste nulla del genere.

L'esempio che uso sempre è: voglio che la gente ami “me” per “me”, solo per me stesso; non per il mio corpo, per i miei soldi, per questo o quello – solo amare "me" per "me", come se quel "me" potesse essere un oggetto che può essere amato di per sé. Ma non può essere conosciuto da solo, amato da solo. È sempre con una base.

Quando lavoriamo con "Conosco me stesso", "Voglio conoscere me stesso", come puoi conoscere te stesso da solo? Conosci te stesso in termini di esperienza, mente e corpo – questo genere di cose. Ecco come ti conosci. L'io è imputato su questo. Allo stesso modo, come mi libero? Non concependolo come un sé che può essere conosciuto indipendentemente da tutte queste altre cose. È sempre con una base. Ricordate, abbiamo iniziato questo corso dicendo pensa a te stesso e l'unico modo in cui puoi pensare a te stesso è mediante il suono mentale della parola "me", un'immagine mentale, una sensazione o qualcosa del genere. Non puoi semplicemente pensare "me" senza qualcosa come base. Allo stesso modo, non puoi liberare "me" da solo, senza lavorare su un "me" imputato su una base e conosciuto allo stesso tempo come la sua base.

Quali sono le conseguenze di questo? Quando lavoro per cercare di ottenere la liberazione devo pensare in termini della mia esperienza quotidiana, ai problemi che sto effettivamente affrontando, alle emozioni disturbanti che provo e all'io che è imputato su questo. È così che lavoriamo per ottenere la liberazione del sé, non pensando a un sé astratto senza che appaia nient'altro – il che è impossibile – e che lo stai liberando. Così non connetti davvero le tue meditazioni alla tua vita quotidiana.

Quindi è molto importante quando pratichiamo questi tre allenamenti superiori per ottenere la liberazione – anche se abbiamo bisogno di questo senso del sé convenzionale che ha forza di volontà e determinazione a essere liberi e così via – stare attenti che non diventi "io controllerò la mia mente, il mio comportamento e mi libererò" – come se ci fosse questo solido "io" che fa tutto questo e si libera. Come se fosse un solido "io" separato.

Pensiamoci per un momento, ovviamente è molto difficile da assimilare. Possiamo provare a pranzare e digerirlo. Voglio dire, puoi riassumerlo in una piccola frase: non cercare di liberare un falso sé, perché non esiste affatto; dobbiamo lavorare per liberare l’"io" convenzionale.

Terminiamo qui per ora. Qualunque forza positiva, qualunque comprensione sia derivata da ciò, possa andare sempre più in profondità e agire come causa di liberazione e illuminazione di tutti – “tutti" convenzionali, non "tutti" impossibili.

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